mercoledì 28 dicembre 2016

LA LEGGE ELETTORALE E L'AMBIGUITÀ DEL TRIPOLARISMO

In quale polo si collocano Berlusconi e Forza Italia? 

di Massimo Colaiacomo


     In attesa della sentenza della Corte costituzionale prevista per il 24 gennaio, le forze politiche cominciano a incrociare il fioretto sulla legge elettorale, pronte, dal 25 gennaio, a incrociare la sciabola ove la Consulta dovesse intervenire sull'Italicum e ricavarne, come già per il Porcellum, una legge elettorale auto-applicativa. Non sono in pochi a scommettere su questa ipotesi, e quasi tutti sono nel PD, nella Lega Nord, in Fratelli d'Italia e nei Cinquestelle.
     Renzi, come d'abitudine, ha battuto il primo colpo davanti alla Direzione del partito quando ha rilanciato il sistema cosiddetto Mattarellum. Maggioritario al 75%, collegio uninominale a un turno, il Mattarellum è stato ampiamente sperimentato dal 1993 al 2004 e ha funzionato egregiamente alla Camera, meno bene ha funzionato al Senato per via dei collegi più ampi e del calcolo dei resti. Due diverse soglie di sbarramento (al Senato la soglia del Mattarellum si aggirava intorno all'8%) determinavano un'inevitabile discrepanza fra i consensi raccolti dalle coalizioni e la rappresentanza parlamentare che da essi scaturiva.
     Gli avversari di questo sistema elettorale argomentano, non senza ragione, che esso ha funzionato in un sistema che si andava profilando, nel 1994, sostanzialmente bipolare. Quella realtà, in larga misura posticcia, è stata frantumata dal successo elettorale di Beppe Grillo e il Mattarellum appare ad essi inadatto per calcolare la rappresentanza parlamentare in un sistema oggi tripolare. Che cosa si intende quando si usa questa espressione? Il cittadino non del tutto distratto non avrebbe difficoltà a rispondere e a indicare nel M5s, nel PD e nel centrodestra i tre poli. Se poi si chiedesse chi sono i soggetti dell'ultimo polo, lo stesso cittadino non esiterebbe a dire: Berlusconi, Salvini, Meloni. Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.
     La collocazione di Forza Italia nel centrodestra appare oggi meno scontata di qualche tempo fa. Si dice per via delle vicende aziendali del suo fondatore, mai come ora interessato a una copertura del governo per resistere alla scalata di Vivendi a Mediaset. Il che è altamente verosimile, ma in tal caso che cosa c'entra la legge elettorale? Andato via Renzi, che cosa impedirebbe a Berlusconi di sostenere  un governo senza più Renzi per ottenerne in cambio il sostegno alle proprie aziende? Altra ipotesi che si accredita, è quella che attribuisce a Berusconi l'intenzione di portare il suo partito nel contenitore del Partito della Nazione, obiettivo fallito da Renzi con il referendum del 4 dicembre, così da dar vita a un governo di coalizione dopo le prossime elezioni. In entrambi i casi, il favore di Berlusconi per la proporzionale sarebbe scarsamente motivato visto che potrebbe raggiungere gli stessi obiettivi anche con un diverso meccanismo elettorale.
     Non si considera, invece, un'altra e per niente remota ipotesi. Vale a dire la determinazione di Berlusconi a non favorire lo sfarinamento del già traballante quadro politico, consegnando i voti sempre più avari del suo elettorato di riferimento alle truppe del radicalismo di Salvini e Meloni. In fondo, il padrone di Mediaset "sceso in politica" nel '1994 ha scongelato la destra radicale e post-fascista per portarla nei suoi governi con un'impronta marcatamente moderata ed europeista. L'idea di dover percorrere, vent'anni dopo, il cammino a ritroso sarebbe per Berlusconi una sconfitta politica umiliante e in quanto tale per lui intollerabile.
     Forse le ragioni qui considerate sono troppo nobili e si ritiene sbagliato attribuirle a un protagonista inseguito e perseguitato dal cliché dell'uomo cinico e interessato soltanto al buon andamento dei propri affari personali. In questo caso, però, si nega allo stesso personaggio il diritto all'orgoglio personale e il diritto a manifestarlo con gli strumenti della politica che Berlusconi ha imparato a usare con spregiudicata intelligenza. Sarà pur vero che Renzi e Salvini si ritengono autorizzati dall'anagrafe a liberarsi di Berlusconi, ma è giusto chiedergli di farlo, se ci riescono, per via politica, dimostrando di avere gli atouts che essi ritengono non abbia più Berlusconi.
     In fondo, il vecchio combattente gode del singolare privilegio di poter scegliere tra diverse opzioni per contare e sopravvivere politicamente a se stesso. I suoi sfidanti sono messi peggio, molto peggio di lui. Salvini da solo, senza lo scudo "moderato" di Forza Italia, quanto pesa sul piano elettorale? Renzi, impegnato ad allargare il perimetro dei consensi nel PD, ritiene possibile mantenere l'influenza nell'area moderata una volta riassorbita, nella guida e nei programmi del partito, l'opposizione interna?    

giovedì 22 dicembre 2016

VENT'ANNI DOPO, IL "FATTORE B" PUÒ FARE ANCORA LA DIFFERENZA?


di Massimo Colaiacomo

     Il portavoce Giovanni Toti confida in un improvviso attacco di raucedine perché da ieri dovrà, con cadenza quotidiana, spiegare l'ennesima piroetta del suo dante causa. Le qualità politiche che tutti riconoscono a Toti non bastano, però,  a mettere in sicurezza l'alleanza di centrodestra percorsa come mai nella sua storia ventennale da divisioni e fratture difficilmente ricomponibili, destinate invece ad ampliarsi quando si entrerà nel vivo della riforma elettorale.
     Si tratta per Toti di una missione ai limiti dell'impossibile. Prova ne è la spiegazione data via agenzia sulla decisione di Berlusconi di riproporre una legge elettorale fortemente proporzionale e di lavorare per l'elezione di un'assemblea costituente cui affidare il compito di revisione della Costituzione. Toti ha negato che la nuova strategia di Berlusconi sia legata all'esigenza di difendere Mediaset posto sotto attacco del raider bretone Vincent Bolloré. Non è questo la ragione, giura Toti, che ha ispirato la nuova stagione di Berlusconi, meno conflittuale con la maggioranza e più collaborativo con il governo. È una toppa peggiore del buco, come si dice. Toti deve tutelare la genuinità delle scelte politiche, mentre lo fa però trasforma in un baratro la distanza che separa Forza Italia da Salvini e Meloni. Perché se la scelta di Berlusconi fosse davvero solo ed esclusivamente politica ( ma in lui, si sa, il binomio politica e interesse personale è difficilmente districatile) è evidente che il dialogo con Lega e Fratelli d'Italia finirà presto o tardi su un binario morto.
     La preferenza di Salvini e Meloni per il Mattarellum è ovvia e fin troppo interessata. Significa costringere Forza Italia ad accettare la loro alleanza, alle condizioni che Berlusconi non potrebbe più dettare ma soltanto accettare perché imposte dai due scalpitanti competitori. Insomma, che sia il Mattarellum o un qualsiasi altro meccanismo con prevalenza maggioritaria, Berlusconi sa che dovrebbe accettare la logica delle primarie e, dunque, rassegnarsi a cedere lo scettro ad altri. Eventualità già essa sola sufficiente per ottenere il rifiuto del Cavaliere.
     Chi immagina per questo un centrodestra finito, probabilmente sbaglia. Si ha ragione di credere, invece, che si chiude una lunga stagione del centrodestra in cui forze politiche molto diverse per storia e per obiettivi, sono state tenute insieme dalla logica imposta dal sistema maggioritario. Finito questo, diventa inevitabile un rimescolamento profondo di strategie e di orizzonte politico. Berlusconi ha contestato, ed è stato contestato in Europa ma la sua strategia non è mai stata di uscire dall'Euro o dall'Unione europea. Con il suo atteggiamento ha invece aperto la strada alle contestazioni ancora più dure, ma ugualmente inconcludenti, di Matteo Renzi, sempre per rimanendo nel solco dell'europeismo.
     Il fatto che sia Berlusconi, leader con Prodi del sistema maggioritario, a voler calare il sipario su quella stagione per tornare al vituperato proporzionale è sintomatico di una politica smarrita e confusa che non riesce più a trovare il bandolo della matassa per ricollegarsi alla concreta realtà quotidiana dell'Italia. A dispetto dell'anagrafe, Berlusconi possiede ancora la lucidità per capire quando è arrivato il momento del cambio di passo e, paradossalmente, fa sembrare attardati nella difesa del passato i suoi giovani competitori di destra. È da capire se il Cavaliere ha messo in conto tutte le conseguenze del suo passo, come il fatto, per esempio, che un sistema proporzionale ha bisogno di solide culture politiche di riferimento, come altrove in Europa. Sarà soltanto un caso, ma le forze populiste non hanno il vento in poppa proprio in quei Paesi dove le forze politiche tradizionali hanno saputo resistere senza piegarsi al vento della crisi. Socialisti e popolari, in Germania o in Spagna, hanno saputo dar vita a governi di coalizione e le forze anti-sistema, si tratti di AfD o di Podemos, sono rimaste a bocca asciutta. Il vero punto di svolta in questo reset della politica sarà però il voto francese. Il cattolico François Fillon ha stravinto le primarie del centrodestra dove, per la prima volta, si sono recati alle urne 4,5 milioni di francesi. E con un programma niente da scherzare: taglio di 500-600 mila dipendenti pubblici; stop alla settimana lavorativa di 35 ore per tornare a 39 ore; riforma del welfare state. Nella laicissima Francia, un leader cattolico può scrivere una pagina nuova e dimostrare che il populismo non è una malattia cronica a cui la democrazia deve rassegnarsi. Quando, intervistato da Le Figaro, gli è stato fatto notare che da un sondaggio risulta che il 58% dei francesi non è d'accordo sui licenziamenti nel pubblico impiego, Fillon ha risposto con candore: ho tempo fino al 21 aprile per spiegare che non ci sono alternative. Non ha detto che cambierà linea o rivedrà i suoi propositi. No, semplicemente spiegherà alla Francia che è nell'interesse della Nazione applicare quella ricetta. Così nascono i leader.

martedì 20 dicembre 2016

DOPO LA COSTITUZIONE, RENZI S'INCARTA SULLA LEGGE ELETTORALE


di Massimo Colaiacomo


     Archiviata ma non ancora meditata la sconfitta al referendum costituzionale, Matteo Renzi si prepara ad allargare il fronte delle ostilità sulla legge elettorale che vuole "qui e subito" per tornare alle urne nello spazio d'un mattino. All'assemblea del partito, che lo ha ascoltato silente, ha proposto il ritorno al Mattarellum, cioè a un sistema maggioritario con uno spruzzo di proporzionale, che alla fine degli anni '90 trasmise agli italiani la percezione di un sistema finalmente bipolare o comunque vicino a quello in uso nelle democrazie più mature.
     Molti ricordano come è andata. Tranne la legislatura dal 2001 al 2006, tutte le altre hanno avuto vita effimera. Coalizioni ampie e all'apparenza inattaccabili si sono sciolte come neve al sole per i motivi più diversi. Berlusconi gettò la spugna nel '95 perché si defilò la Lega di Bossi, Prodi passò la mano nel '98 per la contrarietà di Rifondazione comunista alla guerra nei Balcani. Nel 2008 ancora Prodi lasciò il governo dopo la vicenda giudiziaria che coinvolse il ministro della Giustizia Clemente Mastella e sua moglie. Con ciò si vuole dire che la legge elettorale è uno dei meccanismi, ma non il solo e neppure, forse, il più importante per assicurare la stabilità del sistema. Senza un quadro di valori condivisi su questioni di rilevanza nazionale - si tratti della politica estera o della lotta al terrorismo - nessun sistema elettorale è in grado di impedire lo sfarinamento del quadro politico che è sotto i nostri occhi.
     I limiti del Mattarellum sono, in misura diversa, i limiti congeniti a qualsiasi sistema elettorale riferito alla complicata situazione italiana. Rispetto agli anni '90 e alla fine del sistema proporzionale, gli elettori hanno sperimentato i più diversi meccanismi di voto, dalle Regioni ai Comuni al Parlamento. Con un'importante eccezione nei Comuni e nelle Regioni: perché una volta sfiduciato, il sindaco o il presidente della Regione, è obbligo di legge tornare alle urne. Siamo cioè in presenza dell'istituto della sfiducia che equivale all'obbligo di scioglimento del governo locale per tornare al giudizio degli elettori. Può essere utile, e in che misura, trasferire questo istituto al Parlamento nazionale? L'obiettivo del cosiddetto "sindaco d'Italia" presuppone in realtà una revisione della Costituzione molto più radicale di quella immaginata da Renzi. Perché tutto sommato nella riforma renziana non veniva toccato il potere di incarico al premier da parte del presidente della Repubblica, né venivano messe in discussione le procedure relative alla nascita di nuovi governi in Parlamento, una volta sfiduciato quello eletto dai cittadini. Una riforma quanto meno opaca su questi aspetti che sono, per certi versi, il cuore dell'equilibrio del sistema. Quella di Renzi era una riforma "pigliatutto" per il vincitore, mentre lasciava sullo sfondo altre decisive questioni.
     Per chi ritiene di avere "straperso" il referendum, non è un buon viatico battere il pugno sul tavolo per imporre il Mattarellum. Si sa, però, che nei calcoli di Renzi gli aspetti tattici hanno sempre la prevalenza sulla visione strategica. E la riproposizione del Mattarellum è l'esaltazione del tatticismo puro. Renzi sa che la sua proposta è fatta per creare scompiglio nel centrodestra decapitato di una leadership, come sa che la costrizione all'alleanza nei collegi uninominali è un limite vistoso per Grillo, da sempre votato alla corsa solitaria. Nella testa di Renzi, la vasta platea di elettori che non si riconosce in lui, o in Grillo o in Salvini-Meloni sarebbe portata a scegliere il "male minore" del PD. Ovvio che un simile schema è fatto per togliere il sonno a Forza Italia e ai partiti centristi minori, costretti gli uni e gli altri ad accasarsi in uno degli schieramenti maggiori pagando per questo un dazio pesante.
     Rimane da chiedersi se è davvero il Mattarellum la carta buona di Renzi o se siamo in presenza dell'ennesimo bluff. Finora questa proposta è valsa a ridurre le tensioni nel PD, almeno sulla legge elettorale, e a creare difficoltà negli oppositori interni del premier, da sempre sostenitori del maggioritario. I quali devono oggi confidare sul nemico di sempre, Berlusconi, e sul concorrente più temibile e insidioso, Beppe Grillo,  per uscire dall'angolo. Per Renzi, è evidente, si profila il rischio, una volta sconfitto al referendum, di incartarsi sulla legge elettorale i cui tempi, a parte la sentenza della Corte, si annunciano più lunghi rispetto al calcolo renziano di una rivincita elettorale da avere già in primavera. Soprattutto, insistere nel focalizzare ogni energia del partito sulla riforma elettorale, rischia di proiettare nel Paese e negli elettori l'immagine di un politico interessato soltanto a non perdere il potere.

domenica 18 dicembre 2016

SULLA LEGGE ELETTORALE RENZI SCOPRE UNA CARTA IN UNA PARTITA ANCORA LUNGA


di Massimo Colaiacomo


     È una partita lunga quella che si aprirà sulla legge elettorale. Più lunga, sicuramente, dell'attesa non breve della sentenza della Corte costituzionale in programma il 24 gennaio. All'assenblea del PD Renzi ha scoperto una carta, schierando il partito sul Mattarellum, un sostegno che ha spiegato quasi come atto d'omaggio all'attuale presidente della Repubblica, ma che gli era utile per ridurre il solco scavato nel PD dal referendum. Il che la dice lunga sulla consistenza della proposta, e sulla convinzione di Renzi di fare una battaglia alla morte per riavere quel sistema elettorale. La logica politica, invece, ha quasi costretto Renzi a indicare il Mattarellum perché quel sistema di voto - tre quarti maggioritario e un 25% di proporzionale - è tale da rendere difficile l'alzata di scudi della minoranza interna. Per un segretario che aspira a riconquistare e, possibilmente, ampliare il perimetro dei consensi nel PD è stato un passo obbligato e la decisione della minoranza di non partecipare al voto sul documento finale per non affossare, con un no, anche il Mattarellum dà in parte a ragione a Renzi.
     Nello stesso tempo, erano prevedibili le barricate delle opposizioni, non tutte, ma sicuramente di Forza Italia e dei grillini. Il Mattarellum va bene a Meloni e a Salvini, desiderosi di spartirsi le spoglie di Forza Italia costringendo Berlusconi a celebrare le primarie per indicare il candidato premier. Ma i Cinquestelle vedono il Mattarellum come il toro vede la tela rossa del matador. Di Maio boccia la proposta: un mezzo, è il suo back hit, per perdere tempo. Ma non dice nulla di più sul merito, con ciò lasciando coperte le carte dei grillini. È plausibile il ragionamento di chi afferma che Grillo, in fondo, non disprezza un meccanismo proporzionale, il più adatto per raccogliere consensi, mantenersi "vergini" sul terreno delle alleanze, ed evitare il "rischio" di vincere le elezioni che significherebbe accollarsi il rischio mortale di governare, come insegna il "caso Roma".
     La legge elettorale, come ha insegnato Giuseppe Maranini, è il meccanismo decisivo nella distribuzione del potere politico e la scelta del sistema di voto, maggioritario o proporzionale, a turno unico o con ballottaggio, con premio di maggioranza alla lista o alla coalizione, interagisce con gli interessi economici e sociali che si coagulano attorno a un partito per ottenerne una mera tutela o per condizionarne la politica economica. Renzi ha detto di temere un ritorno al proporzionale, ma si tratta più di una cortina fumogena alzata per creare confusione nel campo avversario che non di un convincimento intimo. Per l'ex premier, come per i suoi avversari, la questione, posta in modo ruvido, è trovare il percorso che consenta di vincere, scegliendo possibilmente l'avversario più debole o meno competitivo. Con la vena provocatoria che non lo abbandona, Renzi si è perfino augurato di trovarsi Berlusconi come sfidante. Dietro una battuta, però, si intuisce anche una verità: Berlusconi può essere lo sfidante ufficiale alla sola condizione che Forza Italia non si veda costretta nella gabbia del maggioritario, quindi alla celebrazione delle primarie per designare un candidato unico del centrodestra nel qual caso sarebbero altri gli sfidanti di Renzi.
     Dietro i ragionamenti fatti da Renzi all'assemblea del PD si intuisce il desiderio di un leader malamente disarcionato dagli elettori, di riconquistare il centro della scena senza pagare prezzi insopportabili. La stessa decisione di celebrare il congresso alla scadenza naturale, cioè alla fine del 2017, può essere letto come un gesto distensivo verso la minoranza e come il tentativo di non intralciare più di tanto l'azione del "governo amico" di Gentiloni. Dall'altro lato, Renzi punta a consolidare la sua segreteria allargandola alle componenti interne. Ma questo significa mettere in conto un rapporto diverso e meno estemporaneo con il governo. Alla minoranza di Speranza e Bersani non può bastare un governo che faccia la legge elettorale per precipitare verso il voto, lasciando ai margini le questioni sociali. Quando Renzi riconosce, come ha riconosciuto, che non ha saputo ascoltare il "dolore" sociale del Paese, non può scrivere questa lacuna nel programma del futuro governo, ma sta implicitamente scrivendo un punto nell'agenda di questo esecutivo. O almeno così gli chiederanno di fare gli oppositori interni,

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DER CAMPIDOGLIO


di Massimo Colaiacomo

     Il clima in Campidoglio è sicuramente surreale, come nel celebre romanzo di Carlo Emilio Gadda. I personaggi non sono certo all'altezza del commissario Ingravallo, delle sue nevrosi ossessive, sono però capaci di trasmettere un senso di ansietà e insieme di vuoto ai romani. Una vicenda amministrativa che si svolge fuori dal circuito istituzionale non è certo un fatto nuovo, a Roma come nel resto d'Italia. Già nel passato remoto accadeva che una crisi in un grande comune mobilitasse i vertici nazionali di un partito. Ecco: Grillo e Casaleggio si sono mossi come nel passato remoto della politica. Con un'aggravante per loro: i vertici nazionali dei partiti erano stati scelti da un congresso, o da una direzione o un da consiglio nazionale. I vertici del M5s non sono stati scelti da nessuno: è un caso, sempre più diffuso, di autoincoronazione. Grillo e Casaleggio, attraverso la società privata della Casaleggio&associati, decidono le sorti della Capitale. Hanno nominato vice sindaco un imprenditore, Massimo Colomban, e toccherà a lui, privato cittadino, nel caso dovesse finire indagata Virginia Raggi,  di reggere l'amministrazione capitolina.
     Si può immaginare che Matteo Renzi osservi questo panorama di macerie con malcelato compiacimento. Lui, accusato di essersi insediato a palazzo Chigi senza essere mai stato eletto da nessuno, avrà una carta in più da giocare il giorno in cui il Campidoglio dovesse restare senza sindaco. Anche se la legge comunale, diversamente dai progetti di Grillo, non prevede, in caso di dimissioni del sindaco il subentro del uso vice. Se Virginia Raggi si dimette, la legge prevede soltanto le urne senza alternative.
     La resa senza condizioni di Raggi ai diktat dei vertici M5s è una sconfitta per la sindaco ma, nello stesso tempo, è una prova di realismo che lei offre al movimento. Piegando la testa, ha evitato che la situazione sfuggisse di mano con danni irreparabili a livello nazionale. Rimane, certo, l'opacità delle procedure e dei riti seguiti dal M5s per superare una crisi al momento soltanto congelata visto che gli sviluppi delle indagini giudiziarie sono al momento imprevedibili e potrebbero investire direttamente il sindaco.
     I romani assistono sconcertati alle liturgie grilline, né più né meno come assistevano nel passato ai riti della partitocrazia. I problemi di Roma sono stati lasciati ai margini nei sei mesi di amministrazione grillina. Il decoro, i trasporti pubblici, la sicurezza, il verde e il degrado urbano sono piaghe che si estendono dalle periferie al centro, non ci sono angoli rimasti incontaminati. Una tale situazione non può che pesare sull'immagine del M5s e sulla credibilità dei suoi vertici. Quando Grillo si mostra risentito "per le denunce facili" non si accorge, e forse nessuno dei suoi glielo ha fatto notare, che non si esprime diversamente dai vecchi leader politici. Chiamare in causa la giustizia "a orologeria", come decenni or sono già fecero Craxi o Forlani, è un'ammissione di impotenza rispetto alla sfida del governo. Colpisce, in particolare, la circostanza per cui all'interno del M5s si sono affermate le stesse logiche correntizie e di potere tipiche dei partiti organizzati e la cui assenza , invece, avrebbe dovuto essere il timbro dell'originalità grillina. Così non è stato e questo è, al momento, il fallimento più clamoroso dei Cinquestelle.
     Cacciata dalla porta, la politica, prima o poi rientra dalla finestra e consuma le sue rivincite. Dopo il crollo del bipolarismo e dopo il tracollo del moralismo grillino, si avverte l'urgenza di aprire una fase di riflessione se non di ripensamento sugli ultimi decenni di vita politica. L'idea che i partiti siano il peccato originale da cui tutti i mali sono derivati, comincia a cedere il posto all'idea che è stata la degenerazione dei partiti a trascinare il Paese nel vortice della crisi. In mancanza di alternative, i partiti politici organizzati, con regole chiare di democrazia interna, si confermano il cardine insostituibile della democrazia parlamentare. I partiti sono il baluardo contro le ondate populiste, non a caso meno travolgenti in Germania, Francia o Spagna dove, a differenza dell'Italia, le grandi forze politiche conservano una forte credibilità sociale.  

giovedì 15 dicembre 2016

GENTILONI MECCANICO DEL RENZISMO?


di Massimo Colaiacomo

     Il ministro del Lavoro non è un politico di lungo corso, anche se i molti anni passati alla Lega Coop lo hanno reso più che contiguo con la politica. La sua sortita infelice sulle elezioni da celebrare al più presto così da evitare il referendum abrogativo della Cgil sul Jobs act si spiega dunque, almeno in parte, con l'inesperienza politica. Nello stesso tempo, però, nelle parole di Poletti c'è il riflesso dell'allarme dell'ex premier per una seconda sconfitta referendaria, dopo quella subita sulla riforma costituzionale, evento che affosserebbe definitivamente la stagione del "renzismo". Fra lo scivolone di Poletti e le preoccupazioni di Renzi, si è prontamente inserita l'opposizione interna del PD per suggerire, in una chiave se si vuole anche polemica, la possibilità di modificare il Jobs act, almeno nelle norme che riguardano l'uso dei voucher diventato abuso in troppe realtà del lavoro.
     Si tratta con ogni evidenza del primo bivio, certo non l'unico, che attende il governo Gentiloni che non potrà astenersi, una volta resa nota la sentenza della Cassazione sull'ammissibilità del referendum, dal compiere un intervento legislativo ove fosse necessario. Si tratta anche, però, di un fatto rivelatore: esso conferma l'errore di chi ha immaginato che fatta la legge elettorale il governo deve sgombrare il campo per restituire la parola agli elettori.
     È il caso di osservare come l'agenda e le sorti di questo esecutivo e, in parte, il destino del renzismo sono nelle mani della Corte Costituzionale. L'11 gennaio la Consulta si pronuncerà sul referendum abrogativo voluto dalla Cgil sul Jobs act e appena qualche giorno dopo, il 24 gennaio, darà il suo parere di costituzionalità sull'Italicum, vale a dire due dei  tre capisaldi (il terzo, la riforma costituzionale, è stato smantellato dal voto popolare). Si tratta di una situazione straordinaria, per certi versi abnorme. Due anni di conflitti politici laceranti, che tanti veleni hanno disseminato nella società, approdano alla Consulta per trovare una composizione che la politica non è stata in grado di trovare.
     Che cosa ne sarà del renzismo è presto per dirlo. Certo è che il governo in carica, dopo la sentenza della Corte dell'11 gennaio, non può girarsi i pollici in attesa del 24 gennaio e dell'accordo, non facile, fra i gruppi parlamentari sulla nuova legge elettorale. Gentiloni non può farsi travolgere da una corsa disordinata e senza regole verso le elezioni al solo scopo di impedire che si celebri il referendum della Cgil. Può, invece, intervenire su quelle parti della legge sul Jobs act meritevoli di essere modificate. Si tratta di un passaggio politico non indolore per l'ex premier, costretto, a quel punto, a vedere in Gentiloni il meccanico del renzismo. Per dirla in breve, Gentiloni non sarà mai un usurpatore della leadership di Matteo Renzi, ma è certo che il suo governo può diventare un salutare pit-stop del renzismo, consentendo correzioni più o meno importanti delle politiche sociali ed economiche messe in campo dal suo predecessore.
     Renzi deve allora decidere fino a che punto può consentire una riscrittura della sua narrazione senza perdere appeal nel suo "40%". Sotto questo aspetto, è quanto meno affrettato rubricare il governo Gentiloni come la continuazione del renzismo senza Renzi. Al contrario, potrebbe rivelarsi invece un Renzi rivisto e corretto, più spendibile dell'originale perché più dell'originale tollerante e capace di dialogo.

domenica 11 dicembre 2016

GENTILONI STRETTO FRA LEALTÀ A RENZI E RESPONSABILITÀ VERSO IL PAESE


di Massimo Colaiacomo

     Saranno tempi brevi quelli necessari per il varo dell'esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Ricevuto l'incarico dal presidente Mattarella, il ministro degli Esteri ha avviato le consultazioni nel tardo pomeriggio con l'obiettivo dichiarato di presentare la lista dei ministri fra lunedì sera e martedì mattina, così da prestare giuramento ed entrare pienamente in carica prima del Consiglio europeo in programma mercoledì prossimo.
     Una partenza sprint, come auspicano le forze di opposizione, ma per una ragione diversa dalla legge elettorale che tutti invocano "qui e ora". Il governo non può presentarsi sulla ribalta europea privo dei crismi dell'ufficialità senza trasmettere l'immagine di un Paese ripiombato nella precarietà dei suoi esecutivi. Quando la cancelliera Merkel saluterà Gentiloni stringerà la mano al sesto presidente del Consiglio italiano da lei incontrato durante i suoi 9 anni di cancellierato. Una circostanza sufficiente da sola a sottolineare l'anomalia italiana sulla scena europea.
     Paolo Gentiloni si presenterà in Parlamento probabilmente giovedì o venerdì al più tardi, una volta rientrato dal vertice europeo. Il suo mandato ha una strada già chiaramente tracciata. La continuità con il precedente governo Renzi sarà sicuramente nella politica di governo e in larga misura nella stessa struttura dell'esecutivo, salvo gli inevitabili ricambi per evitare un effetto fotocopia difficile da spiegare agli occhi stranieri. Si muoverà entro il perimetro della maggioranza attuale, e potrà risolvere l'ambiguità, impossibile da affrontare per Renzi, sul ruolo dei verdiniani: Ala entrerà organicamente nel governo, e questo è già il prezzo che Renzi impone ai suoi oppositori interni.
     È vero che le opposizioni, centrodestra e grillini, hanno già ritirato fuori lo spartito del quarto governo non eletto dal popolo, refrain caro a Silvio Berlusconi il quale, però, lo ha messo da parte per questa circostanza segnando già così un primo distinguo dai suoi recalcitranti alleati. È gioco facile ricordare a grillini e leghisti che tutti i governi sono eletti dal Parlamento e non dal popolo, e che il cambio delle leggi elettorali non è mai stato accompagnato dalle necessarie correzioni della Carta costituzionale per chiedere un premier "eletto dal popolo". Addirittura si sarebbe preteso che Gentiloni indicasse già al momento dell'incarico la data delle elezioni, una volta modificata la legge elettorale. Si tratta di richieste inconcludenti, fanno parte del bagaglio polemico e della propaganda di chi sente già di essere in campagna elettorale.
     Le smanie per il voto, però, devono fare i conti con la realtà delle cose. Il governo Gentiloni, che le opposizioni si sono affrettate a bollare come una fotocopia del governo Renzi o il suo avatar (copyright Di Maio) non avrà una navigazione facile in Parlamento per la naturale difficoltà di un esecutivo che viene battezzato per rassicurare, o almeno non smentire quanto fatto da Renzi, ma nello stesso tempo il nuovo premier, apprezzato per il suo low profil sicuramente e per la sua lealtà al premier uscente, sa di doversi muovere sul terreno di una responsabilità verso il Paese e affrontare dossier delicati che vanno dalle difficoltà del sistema bancario alla questione dell'immigrazione o alla ricostruzione del post-terremoto. L'incarico conferito da Mattarella non è a un governo di scopo ma a un governo che può e deve agire nella "pienezza delle sue funzioni". Il che significa che non può limitarsi a lavorare affinché il Parlamento trovi un punto di convergenza sulla legge elettorale, ma deve operare sulle grandi questioni già scritte sull'agenda di Renzi: dal vertice per il 60/mo anniversario del Mec al G7 di Taormina a maggio. L'idea di un esecutivo che nasca e operi con un timer incorporato che ne preveda l'autoaffondamento una volta approvata la legge elettorale è un espediente polemico delle opposizioni, perché nessun governo può nascere "a termine", non essendo previsto dalla prassi né dalla Costituzione.
     Vero è che il governo nascente affiancherà, sul piano politico, il confronto acceso che si annuncia nel PD in vista del congresso, ancora da fissare ma previsto tra febbraio e marzo. Sarà in quella occasione che si potrà comprendere meglio l'orizzonte temporale dell'esecutivo. Con tutte le cautele del caso. Perché un governo che nasce in Parlamento dura in carica finché riceve la fiducia della maggioranza. E questo è ovviamente un problema per il PD: come sfiduciare il "proprio" governo e poi presentarsi al giudizio degli elettori solo perché è stata fatta la legge elettorale. Non mancano i precedenti: il governo Fanfani, nel 1987, un monocolore nato come "governo amico" venne affondato dalla DC per andare alle urne nella convinzione di un successo che tutti i sondaggi davano ampio. Si ricorderà come andò a finire: il buon De Mita fece perdere 6 punti percentuali al suo partito. Il parallelismo finisce qui, perché troppo diversi sono i protagonisti e il contesto in cui si muovono. Ma non sarà semplice per il PD e per Renzi "staccare" la spina al governo Gentiloni solo perché si deve andare alle urne per avere "un governo eletto dal popolo" ma non previsto in Costituzione.


sabato 10 dicembre 2016

DA GENTILONI A GENTILONI?


di Massimo Colaiacomo

     Può il presidente dimissionario Matteo Renzi vincolare la delegazione del PD a dare il solo nome di Paolo Gentiloni, sia pure camuffato in una rosa di nomi, alla consultazioni del Quirinale? Un vincolo simile, in assenza di un chiarimento interno al PD, suona come l'ennesima provocazione di Renzi all'opposizione interna e come un muro alzato alle opposizioni. Come unica alternativa, il presidente dimissionario intravvede un governo di "responsabilità nazionale", vale a dire l'attuale maggioranza più Forza Italia costretta a quel punto a una rottura definitiva con Lega e Fratelli d'Italia.
     La rigidità renziana si spiega, ma solo in parte, con la ritardata elaborazione del lutto. Essa rischia di mettere ostacoli ulteriori al già difficile compito del presidente della Repubblica che dovrà ricorrere a tutte le sue non poche e riconosciute qualità diplomatiche e alla sensibilità politica maturata nella lunga militanza DC. Quando riceverà la delegazione del PD, composta dal "franceschiniano" Luigi Zanda e da due fedeli "renziani" come Lorenzo Guerini ed Ettore Rosato,  Mattarella ascolterà argomenti già ampiamente affrontati dagli opinionisti e sui mass media. Nessuno dei quali, però, tiene conto della più complessa realtà del Paese, che va ben oltre le fregole elettorali di Renzi, Grillo e Salvini. Perché l'aut-aut del PD - o una maggioranza ampia o un governo che faccia la legge elettorale per andare subito dopo al voto - è disancorato dai problemi che premono e da scadenze drammatiche, a cominciare dal rifiuto della BCE di concedere altro tempo al Monte dei Maschi di Siena per ricapitalizzarsi sui mercati o dai 7-10 miliardi che mancano alla Legge di Stabilità e per i quali la Commissione UE potrebbe aprire una procedura di infrazione nel bel mezzo della campagna elettorale agognata da Renzi.
     Tanto distacco dai problemi che bussano alla porta dell'Italia è la misura del cortocircuito in cui sta entrando la politica. Ed è un regalo ulteriore fatto al grillismo, pronto a sfruttare e a inserirsi nelle contraddizioni di una politica incapace di uno scatto di reni. Per il M5s, che rifiuta ogni tavolo elettorale, è facile gioco chiamarsi fuori lasciando che le forze tradizionali si consumino nel gioco devastante dei veti incrociati. Il governo di responsabilità proposto da Renzi a quella che aveva definito un' "accozzaglia", e respinto perentoriamente da Salvini e Meloni,  è una provocazione nell'ottica renziana, per come è stata avanzata e per i toni che l'hanno accompagnata. Renzi continua a ragionare e a muoversi su un terreno di pura conflittualità, pur sapendo che più esteso è il fronte degli avversari più la soluzione che troverà Mattarella sarà necessariamente lontana dai calcoli renziani.
     Il nome del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è l'unico ramoscello d'ulivo che Renzi può offrire ai suoi avversari interni. Discendente di Vincenzo Ottorino Gentiloni, il nobile che diede il nome al Patto che portò per la prima volta i cattolici a superare il "non expedit" e a candidarsi nelle liste liberali di Giovanni Giolitti, Paolo Gentiloni incarna perfettamente la vocazione pattizia di una certa Italia. Si parla qui di un patto di potere che Renzi è pronto a siglare se gli avversari interni faranno finta di non riconoscere in Gentiloni un'assicurazione sulla continuità del "renzismo senza Renzi". Il che, tradotto nelle cifre della politica, equivale a mantenere Luca Lotti a Palazzo Chigi per gestire il delicato dossier delle nomine di primavera: da Enel ed Eni, a Leonardo Finmeccanica, alle Poste e alla Rai, passando per i servizi segreti e le forze militari.
     È accettabile dalle minoranze del PD un simile schema? Possono Franceschini e Cuperlo, Bersani e Speranza, accontentarsi dell'uscita di Renzi da palazzo Chigi lasciando intatte, nelle mani di Lotti, le leve del potere? Ammesso che Gentiloni si faccia in qualche misura garante degli equilibri interni al PD, come potrà, una volta a palazzo Chigi, lasciare intonsi dossier scottanti come le banche da ricapitalizzare, o i miliardi da trovare per coprire i buchi della Legge di Stabilità? All'orizzonte si intravvede un crocevia di problemi la cui urgenza è destinata a far impallidire l'esigenza, pur giusta, di riscrivere una legge elettorale uniforme per Camera e Senato. Se Gentiloni sarà il successore di Renzi, non potrà essere fino in fondo il suo avatar. I problemi che dovrà affrontare e le difficoltà che dovrà superare sono fatti per conferire al futuro nuovo governo uno spessore politico e una dimensione istituzionale che necessariamente sfuggiranno dalle mani di Renzi. Che sia Gentiloni o un altro, poco importa. Il futuro governo, e le opposizioni oggi tanto agguerrite, dovranno misurarsi con la realtà complessa dei problemi e sulla base delle risposte che sapranno dare, dal governo come dall'opposizione, si potrà assistere a una ridefinizione complessiva degli schieramenti e delle opzioni politiche in vista delle elezioni. Che saranno, con buona pace di Grillo, alla scadenza naturale della legislatura.

martedì 6 dicembre 2016

RENZI SEEKING THE RECKONING INSIDE PD AND CALL FOR IMMEDIATELY NEW ELECTIONS

by Massimo Colaiacomo

     President Mattarella is in a quandary after PM Matteo Renzi resigned. The thrashing of Renzi and his majority at constitutional referendum have created a serious political context. Bigger party call for immediately new elections, despite the lack of a electoral law for Senate's election. Several month ago, Italian parliament approved new electoral law, so-called Italicum, but didn't approve a law for the Senate because the constitutional overhaul provide for direct election just for the Congress.
     So, what does it urge PM Renzi to call for immediately elections? It matter of the firm belief the result of referendum would be a strong basis whom built a new electoral success. Italy'people knows  very well the sinuous road of politic crisis and is accustomed to his liturgy. News analyst are divided around the causes of Renzi's defeat. Several their point to the haughtiness of premier as the main cause and as a consequence the decision of voters to turn away him. For whatever reason, PM lost his tremendous appeal on the public opinion and inside his party.
     Renzi aims the election for a day of reckoning with internal minority. Whether he will be able to obtain  early election, he will keep the power building the list. In this case Renzi will able to free himself from his own opponent. It is an optimistic assessment in this big picture. President Mattarella asks for PM to pospone resignation almost as long as Parliament will approve the budget. But, even after, President Mattarella believes they are other problems who wait for an answer, starting of the situation of financial institution.
     It's not totally correct, like this morning wrote Jason Horowitz on The New York Times, that "for once, Prime minister Matteo Renzi doesn't seem to be in a hurry". To the contrary, Mr. Renzi is in a hurry because the time that spent bolsters his internal opposing. Almost alike is the situation in the centre-right with former Prime minister, Silvio Berlusconi, will be at loggerheads with allied Salvini and Meloni. Berlusconi would postpones new elections at better time or at least when it will be possibile to have a new electoral law maybe proportional. Salvini, Lega's leader, is absolutely unfavorable because an proportional representative could reduce his weight in the centre-right, inasmuch Forza Italia could show without his allied to judgment of the voters.
     President Sergio Mattarella is known for his institutional carefulness. He won't be rude to Renzi as the other political scene's protagonist. He will take for all time necessary to set relevant question, at beginning from financial institution. After, it need wait for Supreme Court's sentence on the present electoral law, expected for January. They are many probability that new elections will be possibile not before fall 2017. 

sabato 3 dicembre 2016

BREXIT'S UNHAPPINESS AND ITALY'S REFERENDUM


by Massimo Colaiacomo

     There wasn't need of Brexit to understand the Europe's growing difficulties. But there was need of them to understand what could be a country outside of EU. The Brexit's lesson still is starting and already we can see first hard consequences. It won't be easy for the Chancellor, David Hammond, to persuade that party of English people favorable to Brexit over the hard necessaries struggle to hold public balance under control. Hammond has disclose a budget plan very hard for next years. It calls for total cut about 120 million pound as well as a dropping of 500.000 job role.
     This is only a little part of the big picture. English government should fiddle with strong save's plan to face fall of pound change. Theresa May will sit down with Merkel and Juncker thinking in one hand to the advantages that will miss his country and in one other hand should be flexible to bring less hard conditions to safeguard the access to European market.
     So it makes sense the hustle who divides Conservative between hard and soft-Brexit. English people discovered later the consequences of his own choices. Europe just wasn't a choosy stepmother because inside EU English industries could have enormous advantage as public funding and have available a great market for export.
     What does that have to do with Italy's referendum? Nothing, in appearance. To the contrary there's a thin thread who link Brexit and referendum on Italy. It matter of the behavior in front the Europe. The alliance for NOT to referendum shows divergent over Europe. Mr Berlusconi criticized European partner but he has never back outside from euro or EU. His allied Salvini, Lega's leader, and Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia's leader, have always kept an open mind on it. This fact made the alliance less credible to the eyes of public opinion. Also Mr Renzi criticized EU with his excess of duties until to threaten to put the veto to next community budget. But Mr Renzi has never threatened exiting from Europe Union. In the pubic sentiment that is a remarkable difference and could weigh in the final decision            


martedì 29 novembre 2016

EN CHANGEANT LA FRANCE, FILLON PEUT CHANGER L'EUROPE


par Massimo Colaiacomo

     Peut-être il ne sera pas l'homme du destin, mais sûrement François Fillon peut être l'homme just qui rassemble les Français autour un nouveau project politique qui affranchie le Pays des plus récent grisaille, de la baisse croissance, de l'égarement social et, en definitive, de la perte d'identité. Ces sont les multiples signals qui sont arrivés par le ballottage aux élections primaire du dernière dimanche. Un pays désanchanté a retrouvé soi-même merci à la mobilisation sans pair pour rejoindre le bureau de vote et choisir Monsieur Fillon comme défiant des autres candidat au prochaine élections présidentielle.
     Que-est ce que veut dire tout ça? Ça peu représenter beaucoup des choses, mais surtout signifier que le refus de la politique n'est pas une maladie incurable, au moins en France. Fillon est réussi à convaincre plus que 4 millions de français à se rendre aux bureaux de vote pour choisir le candidat de droite aux élections présidentielle de 23 april. Il s'agit d'un premier signal de fiance retrouvée dans la possibilité de changer les choses sans confier ses espoirs à les sirènes du populisme ou de nationalisme sans autre horizon politique. C'est vrai, comme a observé quelque analyste, que l'Europe ne représente un chapitre important ni le principal dans le programme de Fillon, mais les rares lignes y dédié sont suffisantes pour donner une idée claire sur le point de vue de Fillon. Stop au Traité de Maastricht, au moins dans la vision jusqu'ici donnée par l'Allemagne et les autres Pays du Nord-Europe, et plus d'espace aux intérêts national dont leur somme doit sortir une autre Unione Européenne.
     Mais encore plus importante parâit-il le sentiment de la différence avec la droite de Marine Le Pen. Madame Le Pen représente aussi bien le côté social qu'elle se peut, à juste titre, s'établir comme une petite partie de l'héritage gaulliste. Fillon promet de dépasser celle héritage-là ou, au moins, de la renouveler suivant la défi de la globalisation et alimenter une nouvelle dimension du liberalism qui doit se mettre au croisement entre les intêréts nationaux et les exigences du libre marché. Fillon se promit une forte destatalitation, en recourant à la réduction des employés et des fonctionairs, une relance des professions libérales et une générale baisse des taxes.
     Il s'agit de la même surenchère qui précéde les elections? C'est très difficile de le penser, encore plus difficile de le croire. Parce-que Fillon se trouve au point plus haut de sa parabole politique. Il joue sa reputation, pas seulement devant les Français mais surtout devant l'Europe. Il doit réaliser au moins une bonne partie des ses engagement s'il veut vraiment changer la France. Et un changement en France déviendra, qu'il plaire ou non, le changement de l'Europe comme nous l'avons jusqu'ici connue et souffrie.    

IF RENZI WINS, IF RENZI DEFEATED



by Massimo Colaiacomo

     Picking personalized the referendum, PM Matteo Renzi have put his personal fate on the balance. Right or wrong, that choice marked the campaign for all time. The unavoidable consequences having everyone's eyes on one: voter are going vote next 4-th december to decide the stability of present government or his eviction. Renzi is aware of that but nevertheless he carried on his project until last minute, putting voter toward turning point: if YES will win, the government can carry on his job, on the contrary PM will be ready to pass the hand.
     In that case, it will be to the Republic's President resolving the tangle of crisi that would announce really intricate. In favor of Renzi plays people's boredom for the old ruling class. The main old leader as Berlusconi, D'Alema, Monti are favorable at NOT on the constitutional referendum. In the leaflet sent to the million people, all former PM are picked up on the ideal bunch and charged having blocked any reform for last 30-th years. It matter of hard and persuasive image, although many voters are convinced of the contrary. Main problem of PM has been inadequate answer to the economic and social crisis and Italy is going through a bad moment in financial market on the grounds that is increased the spread with T-Bond until 190 basis-point. This circumstance will have inevitable consequences on the public debt. This one or next government could be forced definitely to adopt a new budget.
     A big picture of Italy's problem shouldn't allow at the moment mistake or lack of attention on the running of public debt. Market monitor trend of spread and will be ready for a new speculation against Italy's bond if the referendum's outcome should punish the present government. Although the experience show that speculation move in advance compared with events. Anyway, the opposition criticize the PM for his campaign too much arrogant, carried on without care for other parties. The economic pledge undertaken by PM are really heavy for treasury. None of the opposition's party has prompt the possibility a new heavy budget after vote of 4-th december. If Renzi win or will be defeated, all chickens of public debt come home to roost.            

lunedì 21 novembre 2016

PERCHÉ IN FRANCIA E GERMANIA E NON IN ITALIA


di Massimo Colaiacomo

     Il primo turno delle primarie di centrodestra in Francia hanno dato un risultato inatteso in Europa ma, forse, non imprevisto dall'opinione pubblica francese. François Fillon, ex primo ministro di Sarkozy, ha dato scacco matto al suo vecchio dante causa e all'altro candidato Alain Juppé. Sarkozy si è fatto da parte, ancora una volta, e sembra non più intenzionato a risorgere dalle sue ceneri. Al secondo turno, secondo i pronostici, Fillon dovrebbe spuntarla largamente su Juppé. Significa che il prossimo aprile, quando la Francia sceglierà il nuovo presidente della Repubblica, il centrodestra dovrà combattere fino all'ultimo voto per avere la meglio sulla candidata del FN, Marine Le Pen.
     Chi avesse immaginato la signora Merkel pronta a fare gli scatoloni per sgombrare gli uffici della Cancelleria, dovrà ricredersi. La cancelliera ha annunciato la sua intenzione di candidarsi per un quarto mandato, proprio come il suo padre politico, Helmut Kohl, con l'obiettivo di fermare i populisti e impedire che una loro affermazione accentui la disgregazione già avanzata del progetto europeo. Merkel non ha indicato nella Spd il suo bersaglio, proprio come, in Francia, Fillon non ha indicato nel Ps il suo concorrente. Entrambi i candidati conservatori, a Berlino come a Parigi, hanno i loro avversari più agguerriti sulla destra e imposteranno su di loro le rispettive campagne elettorali.
     Quello che in Italia si vorrebbe unire, Salvini, Meloni e Forza Italia, è radicalmente diviso nel resto d'Europa. L'anomalia italiana, perché di anomalia si tratta, ha molte cause ma la fine dei partiti politici organizzati è stata la prima e più importante causa dello sfarinamento del sistema politico e della rappresentanza parlamentare. Nel vuoto creato da Tangentopoli ha messo radici il populismo nelle sue differenti versioni: da quello soft di Berlusconi e di Renzi a quello hard di Grillo e di Salvini. La fine dei partiti politici come canali di raccolta del consenso e come luoghi di formazione del ceto politico ha lasciato uno spazio enorme al proliferare di un'offerta politica via via più scadente, sempre più intrisa di demagogia a buon mercato. Questo risultato è stato ulteriormente aggravato dal tramonto della stella berlusconiana e dalla crescita proporzionale del populismo leghista e del vetero-statalismo di Fratelli d'Italia.
     Il referendum del 4 dicembre, presentato come lo spartiacque fra un passato irredimibile e un futuro carico di speranze, si presenta, in questa cornice, soltanto come un'altra tappa nell'evoluzione della strategia populista che ormai avvolge la politica in Italia. Chiunque uscirà vincitore, rimane irrisolto il problema di fondo di un ceto politico inadeguato e della conseguente incapacità del Parlamento di scrivere una legge elettorale che consenta di selezionare, attraverso il voto popolare, una nuova generazione del personale politico in grado di misurarsi con le sfide culturali e politiche di questo tempo. Sullo sfondo rimane la questione decisiva: rimettere in piedi i partiti politici, e le culture che essi hanno rappresentato con alterne fortune per oltre 50 anni, è il primo passo senza il quale qualsiasi riforma della Costituzione e delle istituzioni sarà nel segno della precarietà.
     È molto difficile immaginare una svolta nella crisi italiana se le forze politiche residue continuano a inseguire le capriole di Beppe Grillo, consegnandosi in questo modo a un'irrilevanza del tutto simile al proprio necrologio. Continuare a illudere gli italiani che il limite dei mandati parlamentari è la panacea ai problemi del Paese è da irresponsabili e se Renzi la pensa come Grillo sbaglia a credere di potere in questo modo prosciugare l'acqua in cui nuota. L'ubriacatura populista ha sfibrato il coraggio anche in chi ne aveva impedendogli di constatare quello che il buon senso  suggerisce, e cioè che i Paesi europei dove la crescita economica è solida e ridotta l'area di conflitto fra la società e la politica sono quei Paesi governati da un ceto politico di grandi professionisti. Merkel, Rajoy, Hollande oggi e, forse, Fillon domani, come Theresa May a Londra, sono tutti politici di lungo corso, persone che hanno vissuto e vivono di politica in quanto hanno una conoscenza solida e profonda della macchina statale, dei dossier principali di politica economica e di politica internazionale. Esattamente il contrario di ciò che accade nel villaggio Italia.  

martedì 15 novembre 2016

NON PARISI MA LA LEGGE ELETTORALE È IL BERSAGLIO DI BERLUSCONI. E RENZI SPERA


di Massimo Colaiacomo


     Se ancora qualche dubbio residuava, dopo le parole di Silvio Berlusconi a Radio anch'io ogni incertezza cade: Stefano Parisi non sarà mai il Sarkozy o il Juppé italiano. Allo stesso modo, Forza Italia non sarà mai come i Repubblicani del centrodestra francese o i conservatori inglesi. Troppo diversa è la geografia politica italiana, troppo diversi i suoi protagonisti impegnati in sfide sempre al penultimo sangue salvo brevi tregue, fragili e precarie quanto basta per riaccendere lo scontro. L'anziano leader di Forza Italia ci ha messo del suo, come sempre ha fatto lungo tutta la sua parabola politica. Ogni volta che un pretendente alla sua leadership si affaccia sulla scena, Berlusconi tira fuori dal cilindro un delfino, lo battezza, e poi lo dà in pasto, oggi alla spavalderia di Matteo Salvini, come ieri immolava Casini alle ambizioni di Fini.
     Questa volta, però, Berlusconi ha scelto di scuotere con più veemenza il suo campo politico. Dopo un'intervista al Corriere della Sera, la settimana scorsa, in cui prendeva le distanze del populismo leghista con tono perentorio, sabato scorso ha inviato un caloroso messaggio alla manifestazione di Stefano Parisi, a Pavia, per incoraggiarlo nel suo percorso. Stamane l'altolà, lo stop brusco: Parisi non sarà mai leader di alcunché a causa dei suoi contrasti personali con Salvini. Una tattica in apparenza omicida-suicida: tagliare le gambe a Parisi e lasciare campo libero a Salvini ad appena 20 giorni dal voto referendario non restituisce più a Berlusconi la centralità nel centrodestra, sempre riconquistata in passato con questo stratagemma, e lo mostra invece nelle vesti di un leader confuso e in affanno. Questa tattica offre all'opinione pubblica l'immagine di un campo politico devastato da incendi e ambizioni personali, da rancori vecchi e nuovi, insomma se ne ricava l'idea di forze politiche incapaci di andare oltre il NO al referendum confermativo. L'elettore si chiede, smarrito, come possano forze che si combattono ogni giorno presentarsi come un'alternativa al governo Renzi. La domanda del tutto legittima è: quanto di questo è deliberatamente voluto da Berlusconi, sapendo che a trarne giovamento può essere soltanto la sfida referendaria lanciata da Renzi?
     Chi strologa sulle intenzioni dell'anziano leader di Forza Italia lo fa a buon diritto. Poiché Berlusconi ci ha abituato a non sottovalutare mai il senso delle sue scelte, il congedo alle ambizioni di Parisi si carica di un significato politico ben preciso. Berlusconi ha bisogno di rassicurare i suoi ex alleati Salvini e Meloni che mai, dopo il 4 dicembre, ci sarà una riedizione del Patto del Nazareno o di qualcosa che possa sia pur vagamente rassomigliargli. Questa rassicurazione non impedisce a Berlusconi di trattare sulla legge elettorale e di riaffermare la sua preferenza per il sistema proporzionale ampiamente indigesto a Salvini ma gradito molto a Beppe Grillo e non del tutto escluso da Matteo Renzi.
     Quale che sia il convincimento di Berlusconi, il bersaglio delle sue affermazioni non è Stefano Parisi, bensì la possibilità, dopo il 4 dicembre, di ammansire il suo campo politico e trattare con Renzi o con quel che sarà una riforma elettorale capace di salvaguardare gli spazi politici di Forza Italia. Berlusconi sa, come anche Renzi sa, che dai grillini è pronto a venire semaforo verde a una riforma elettorale il già proporzionale possibile. Il che assicura una larga maggioranza parlamentare, anche se più accidentata appare la strada di un governo che ne sia in qualche misura espressione.
     

mercoledì 9 novembre 2016

LA GRANDE RISACCA


di Massimo Colaiacomo

     Il presidente della Fondazione per il premio Nobel, Carl-Henrik Heldin, è andato in depressione a causa delle vittoria di Donald Trump foriera, a suo giudizio, di un allontanamento del mondo "dal pensiero logico e dal razionalismo". Non è messa meglio la ministra tedesca della Difesa, Ursula von der Leyen, vittima di uno "shock", confermato peraltro dal seguente giudizio. "Io credo - ha detto la serafica ministra - che Trump sappia che questo voto non è per lui ma è contro Washington". Esatto: contro Washington, ma per Trump a Washington.
     Scorrere sulle agenzie le reazioni nel mondo alla vittoria inattesa ma non inaspettata di Donald Trump è un esercizio molto utile per capire come si è spostato in politica il confine fra la realtà e la sua rappresentazione. Dalla soddisfazione di Putin e dagli applausi della Duma, alle congratulazioni calorose di Mariano Rajoy e Theresa May, per non ignorare le parole di elogio dell'egiziano Al-Sisi, il ventaglio dei giudizi reca una frattura evidente: da un lato i "realisti", coloro che guardano le tabelle dei risultati, prendono atto della volontà del popolo americano, e si congratulano con il vincitore. Dall'altro lato, i "visionari", cioè i sacerdoti del pensiero pettinato, inclini alla sentenziosità moralisteggiante e con l'indice perennemente alzato per indicare la retta via sulla quale incamminare i  popoli. Questi due campi quasi esauriscono lo spazio delle reazioni, lasciando uno spazio residuale alle posizioni "terze", quale è ad esempio il "rispetto" del voto annunciato da Renzi. Il quale ha tentato, con una certa ingenuità, di cavalcare il voto americano per spiegare che chi vota NO alla riforma costituzionale vota per la casta (Renzi-Zelig è pronto a diventare anche un supporter di Trump?)
     La vittoria di Donald Trump, eletto 45° presidente degli Stati Uniti, giunge come un grande reset negli equilibri mondiali, un po' meno in quelli americani. I timori di un America votata al neo-isolazionismo affiorati nei primi commenti, sono forse esagerati e comunque non infondati se Trump dovesse anche solo in parte continuare la politica estera di Obama, vero apripista dell'isolazionismo americano (vedi alle voce Medio Oriente, Siria, Israele, Isis). Le prime parole di Trump sono significative: cercherò alleanze e non conflitti. Vladimir Putin trattiene la soddisfazione, ma a Bruxelles, a Berlino, a Parigi dovrà iniziare molto presto una riflessione "strategica" sull'Europa rimasta, dopo la notte di ieri, un'idea in cerca d'autore. La riduzione del conflitto con la Russia e l'invito, più volte indirizzato all'Europa a un maggior impegno finanziario per la propria difesa,  sono il segnale di un mutamento importante nelle relazioni fra le due sponde dell'Atlantico. Che cosa è l'Europa senza lo scudo americano e la Nato nei confronti della Russia? Un interlocutore debole, un territorio dove costruire una vasta zona d'influenza russa?
     Trump non darà risposte immediate agli interrogativi che corrono nelle diverse cancellerie. Chi dice che non ha un programma ma solo vaghe idee sulle grandi questioni internazionali, evidentemente non ha seguito la campagna elettorale. Forse non ha chiaro il punto di approdo, ma sicuramente Trump ha già tracciato i sentieri da battere in politica estera. L'America penserà di più a se stessa, anche se questo non significa che abbandona la sua strategia di alleanze. Può invece voler dire che l'Europa si trova davanti al bivio: uscire dal limbo in cui si è cacciata dopo la nascita dell'Euro, e quindi riprendere la via maestra dell'integrazione su tutti i piani, a cominciare dalla difesa e dalla sicurezza; oppure proseguire nella deriva attuale e diventare un'area cuscinetto sotto l'occhio vigile di Mosca. L'ipotesi di un'Europa mediatrice e "terza forza", ora che si profila la ripresa di un dialogo Usa-Russia, non ha senso alcuno sul piano politico. Se l'Europa vuole sopravvivere e ritrovare un senso in un mondo che si prepara a ricostruire i propri equilibri, deve coltivare l'ambizione di una unità politica e militare. Diversamente la grande risacca, esito imprevisto di vent'anni di globalizzazione, finirà per travolgere il vecchio continente.   

domenica 6 novembre 2016

RENZI E BERLUSCONI VERSO LE COLONNE D'ERCOLE DEL 5 DICEMBRE



di Massimo Colaiacomo

     L'accordo trovato con Gianni Cuperlo sulle modifiche alla legge elettorale ha un valore simbolico decisamente superiore agli effetti pratici. Esso è utile a Renzi per mostrare all'esterno ma, soprattutto, all'interno del PD che egli nutre intenzioni serie e intende muoversi con lealtà verso i suoi avversari. Quell'accordo è servito soprattutto per rilanciare il duro attacco, rivolto oggi dalla Leopolda, contro Bersani, D'Alema e la vecchia guardia in genere accusata da Renzi di utilizzare il referendum come terreno di rivincita contro di lui. La spavalderia del premier va però assumendo un segno diverso a mano a mano che si avvicina la data del 4 dicembre. Renzi si muove senza più il conforto dei sondaggi, quasi tutti negativi per il SÌ, e fischietta come il tale che si muove al buio e deve darsi coraggio per affrontare l'ignoto.
     Il 5 dicembre rappresenta in qualche misura le colonne d'Ercole che il premier spera di varcare per guadagnare il largo della legislatura. Hic sunt leones, recitavano le antiche carte geografiche per indicare al viaggiatore che stava per inoltrarsi in territori inesplorati e infidi. Renzi sa che un esito negativo del referendum aprirebbe scenari inesplorati per affrontare i quali dovrà affidarsi alla bussola come sempre in questi fornita dal Quirinale. A questo scopo risulta per lui fondamentale aver trovato una mezza apertura nella minoranza del PD sulla legge elettorale perché questo significa aver imbastito un mezzo canovaccio per il dopo referendum.
     L'altra metà è nelle mani di Silvio Berlusconi. Il vecchio leader di Forza Italia sta giocando, come di consuetudine, su diversi tavoli. Si è schierato decisamente nel campo del NO, avendo chiaro che la bocciatura del referendum potrebbe chiudere una partita politica, azzoppando Renzi, ma ne aprirebbe un'altra ancora più complessa nel centrodestra temporaneamente riunito nell'assalto al governo. Non è un caso se Berlusconi continua a martellare sulla necessità, all'indomani di una vittoria al referendum, di riscrivere almeno una legge elettorale se non addirittura rimetter mano alla riforma costituzionale appena bocciata. Gli alleati appena ritrovati su questo punto sono irremovibili: Salvini e Meloni si muovo all'unisono contro ogni ipotesi di sostegno esterno o di astensione rispetto a un nuovo governo imperniato sul PD. Né appare plausibile la soluzione di un esecutivo tecnico o istituzionale incaricato di trattare una materia per eccellenza "politica" come la legge elettorale: su questo punto anche Renzi si è espresso con forza escludendo anche solo la possibilità di un "governicchio tecnichicchio".
     Molti indizi lasciano intravvedere, nel caso di un'affermazione del fronte del NO, che sarà ancora una volta il principio dell'eterogenesi dei fini a prevalere sui calcoli delle forze politiche.  Renzi e Berlusconi saranno costretti a trovare un accordo che sarebbe, forse ancora più del Nazareno, di mutuo interesse e, proprio per questo, ancora più ostacolato dai rispettivi alleati, almeno in una fase iniziale. Salvo rendersi conto tutti, da Salvini a Meloni a Grillo, che riscrivere la legge elettorale è un po' sottoscrivere la polizza assicurativa per la prossima legislatura. Se mai qualcuno degli attuali leader ne avesse voglia, potrebbe sfogliare qualche pagina di un vecchio libro di Giuseppe Maranini "Storia del potere in Italia" e scoprire che è un volume sulla storia dei meccanismi elettorali sperimentati nell'Italia post-unitaria. La legge elettorale come distributore di potere legittimo. Difficile sottrarsi alla sua scrittura.

venerdì 4 novembre 2016

4 NOVEMBRE 2016


di Massimo Colaiacomo


     È una giornata qualsiasi, e lo è diventata ormai dal lontano 1977 quando, a seguito della crisi petrolifera, così allora venne spiegata la decisione, la Festa del 4 novembre venne depennata, con altre festività, dal calendario. Non conosco, ammesso che esistano, sondaggi specifici sul significato che l'opinione pubblica accorda a questa data. Ma dalle dichiarazioni rese dai vertici istituzionali e di governo, emerge una idea precisa: è la Festa della Patria, e tutti esprimono gratitudine e riconoscenza alle Forze armate. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha deposto una corona d'alloro al Sacrario dei caduti, a Redipuglia, più esattamente sulla tomba del duca Amedeo di Savoia-Aosta.
     La rimozione della festività dal calendario non ha intaccato il sentimento già flebile che circonda questa data e il suo significato. Festeggiare la fine della Prima guerra mondiale, grazie alla quale l'Italia coronò il sogno risorgimentale dell'unità nazionale, era un tabù già da alcuni decenni, ben prima della soppressione della festività. Per un complesso di cause ampiamente conosciute: il timore, ad esempio, che concetti come la Patria e la Nazione potessero rianimare le ombre del ventennio fascista la cui retorica si abbeverò a quelle fonti, come ogni regime autoritario del '900.
     Per alcuni aspetti, la Germania si è trovata ad affrontare problemi simili anche se la riunificazione tedesca, il 9 novembre 1989, conseguita senza sparare un solo colpo ma solo grazie alla dissoluzione dei regimi  comunisti, è oggi motivo di festeggiamenti senza troppi retropensieri o pregiudizi. Essa, si può dire, appartiene a un'altra categoria del concetto di Nazione. Il basso profilo scelto dalla politica e dalle istituzioni italiane per la festa del 4 novembre affonda le sue radici in un humus culturale e politico tutto interno alla storia italiana. La debolezza del sentimento nazionale, mai coltivato fino in fondo da nessun governo e tenuto rigorosamente fuori dall'uscio della scuola, luogo dove si forma la coscienza civile e si allena il giudizio critico delle generazioni, non è stata mai avvertita come un problema da chi ha governato l'Italia.
     L'idea che una Nazione sia diventata tale grazie a una guerra sanguinosa, e vinta lasciando centinaia di miglia di morti sul terreno, non è mai stata accettata dalle ruling class italiane e, di riflesso, non è mai stata ritenuta parte del patrimonio fondativo della coscienza nazionale da trasmettere, come ogni patrimonio, alle generazioni che arrivano. I francesi festeggiano uno dei più grandi massacri della storia, la presa della Bastiglia, e ne hanno fatto il simbolo dell'unità della Nazione nata così all'insegna della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità. I coloni americani si sono rivoltati contro la madrepatria Inghilterra per conquistare la loro indipendenza e festeggiano il 4 luglio, come a Parigi si festeggia il 14 dello stesso mese. La Francia non festeggia la fine della Seconda guerra mondiale o la caduta del regime di Vichy, circostanze che restituirono la libertà ai francesi né più né meno come il 25 aprile restituì la libertà agli italiani. Ma sono vicende troppo diverse: se non fosse mai esistita una Nazione italiana, non si sarebbe mai posto il problema della libertà degli italiani.  Il 4 novembre 1918, quando le campane delle Chiese si sciolgono per annunciare la fine della guerra, è il certificato di nascita di una Nazione e onorare la memoria di chi ha combattuto per costruirla e trasmetterla a noi è un atto di appartenenza alla comunità nazionale che ogni cittadino dovrebbe fare, per consapevolezza personale oppure perché indotto da chi quella consapevolezza ha il dovere istituzionale di diffondere.
     Nulla di tutto questo è mai accaduto in Italia. Se una nazione, come ammoniva Ernest Renan all'indomani della disfatta di Sédan, è il sentimento dei sacrifici compiuti per stare insieme e di quelli che si è disposti a compiere per rimanere insieme, è facile e drammatico constatare come quel sentimento non è mai stato costruito nel nostro Paese. La fragilità dell'Italia, del suo sistema economico, come le ingiustizie quotidianamente patite dai cittadini nei loro rapporti con le istituzioni pubbliche, hanno le loro radici anche nella smemoratezza della storia nazionale.
      

giovedì 3 novembre 2016

IN ITALIA E IN EUROPA, I CONTI DI RENZI NON TORNANO PIÙ


di Massimo Colaiacomo


     La marcia controvento sta portando Matteo Renzi su un sentiero che si fa ogni giorno più stretto e più ripido. La polemica martellante contro l'Europa e la burocrazia di Bruxelles è un refrain quotidiano nei tour del presidente del Consiglio. Abilissimo nella comunicazione, Renzi sa trovare immagini di grande efficacia. Come ha fatto oggi, al Politecnico di Milano, quando ha osservato che "Norcia è la sede dell'Europa". Oppure, per ricordare, ai funzionari italiani a Bruxelles e ai governi che l'hanno preceduto, che l'Italia non è più la Bella Addormentata nella Ue dove troppo spesso le regole sono state scritte mentre i rappresentanti di Roma si limitavano a prendere appunti e mai a muovere obiezioni.
     Non mancano certo le ragioni perché Renzi mantenga il tiro alto sulla UE. La Legge di stabilità ha fatto storcere la bocca al commissario Pierre Moscovici e il silenzio impenetrabile della cancelleria tedesca è eloquente più di qualsiasi comunicato. Il presidente del Consiglio protesta, non certo a torto, per il diverso trattamento riservato alle banche italiane a causa di regole subir dai nostri governi e scritte forse a vantaggio e a beneficio di altri. Non meno legittima è la protesta vibrante di Renzi contro quei Paesi che sulla questione dell'immigrazione preferiscono girarsi dall'altra e continuano a maramaldeggiare sulle regole volute dai governi europei e da tutti accettate.
     Sono dossier spinosi, per i quali il governo italiano sta giocando una partita dura con la Commissione europea. La guerra combattuta sui decimali del deficit, incomprensibile forse all'opinione pubblica, è qualcosa che va oltre la semplice contabilità di bilancio. Essa è il tentativo disperato di Renzi di forzare quelle regole che non è riuscito a cambiare, nella convinzione, forse, che una volta aperto il varco l'Unione tutta dovrà ridiscutere quel capestro che è il "fiscal compact". È un obiettivo ambizioso ma, va anche detto, impossibile da raggiungere seguendo una strategia tipica della guerriglia come fin qui ha fatto il governo italiano.
     È pur vero, come sostengono le opposizioni, che incassare il placet dell'Europa per allargare la flessibilità dei conti significa accumulare nuovo debito da mettere sulle spalle delle future generazioni. Su questo sentiero sempre più ripido, però, Renzi rischia di finire ribaltato: la montagna del debito pubblico non è più affare delle future generazioni ma diventerà presto, una volta che la curva dei tassi riprenderà a salire, un affare di questa generazione, con tutte le conseguenze immaginabili sul piano sociale e del consenso politico.
     La Federal Reserve si prepara a ritoccare di uno 0,25% i tassi lunghi, lasciando invariato lo short-term per via di alcuni dati insoddisfacenti (il calo degli occupati a ottobre e il pay roll piatto dei lavoratori non agricoli). Tanto basta perché si avvii  un progressivo disallineamento fra le politiche monetarie delle Banche centrali, con quella americana che farà da apripista per una nuova stagione di rialzi dei tassi. La BCE ha garantito, almeno fino a marzo 2017, il proseguimento di una politica monetaria accomodante. Quello che accadrà dopo è al momento difficile da prevedere perché troppe sono le incognite, a cominciare dall'esito elettorale negli USA.
     Quello che sarebbe invece ragionevole fare, e che finora Renzi non ha fatto, è di mettere, come dicevano un tempo i contadini in previsione dell'inverno, del fieno in cascina, cioè mettere mano alla spesa pubblica con tagli incisivi e, dunque, dolorosi sul piano sociale e del consenso politico. L'opposto esatto di quanto finora fatto dal governo in carica. Assumere 10 mila dipendenti tra forze di polizia, medici e infermieri è un annuncio troppo ghiotto per tralasciarlo alla vigilia del referendum. E nessuna delle forze di opposizione ha alzato il dito per dire che no, così non va e i conti pubblici finiscono a ramengo. La spirale populista in cui è entrata l'Italia non ha eguali in Europa: Grillo, Salvini, Berlusconi e, in testa a tutti Renzi, sono troppo impegnati a cercare l'applauso facile e i voti, si tratti del referendum o delle prossime amministrative. Con il rischio per tutti, e per fortuna dell'Italia, che giunto Renzi al capolinea rifiorirà da qualche parte un nuovo Mario Monti. 
      

martedì 1 novembre 2016

SISMA, IL RISCHIO DI UN'UNITÀ NAZIONALE IN FUNZIONE ANTI-EUROPA



di Massimo Colaiacomo


     Sotto le macerie ancora fumanti dell'ultima scossa sismica che ha devastato un'ampia area dell'Italia centrale, la politica mostra e, se possibile, amplifica tutti i propri limiti. Da nessuno dei protagonisti, si tratti del presidente del Consiglio o dei leader di opposizione, è fin qui venuto un solo gesto capace di tradurre in atti concreti quel sentimento di unità nazionale che tutti invocano ma che nessuno manifesta se non con riserve mentali e calcoli politici. Sotto i riflettori il premier si muove a suo agio e il suo appello all'unità nazionale, giusto e perfino scontato di fronte a un dramma senza fine, ha lasciato intravvedere per un istante la possibilità di un rasserenamento del clima politico.
     Questa sensazione è durata lo spazio d'un mattino. Perché la mobilità, non solo fisica, del presidente del Consiglio ha occupato tutta la scena. Dopo un Consiglio dei ministri straordinario, con lo stanziamento di 40 milioni per la prima emergenza e il conferimento di nuovi poteri al capo della Protezione civile, Renzi si è recato a Norcia, ha rassicurato tutti che entro la primavera saranno pronti i moduli abitativi, nessuno sarà "deportato" e nel giro di poche settimane saranno pronti i container per ospitare quelli che scelgono di restare vicino alla propria. Nessun contatto ufficiale c'è finora stato con le opposizioni. C'è però un punto di convergenza molto forte e, in prospettiva, molto insidioso: Renzi, Grillo, Salvini e tutti, senza eccezione alcuna, sono pronti a ignorare qualsiasi osservazione dovesse arrivare dalla Commissione europea e dal Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, sulla legge di stabilità.
     Grillo si è portato avanti a tutti: pronti a sostenere il governo se davvero il suo obiettivo è infischiarsene di eventuali richiami della UE. Dal centrodestra non si sono levate, almeno fino a questo momento, critiche particolari: Brunetta e Gasparri si sono limitati a rimproverare Renzi per non aver convocato il tavolo di coesione nazionale e per aver fatto nomine senza interpellare le opposizioni. Per il resto, Salvini in testa, applausi al premier se intende procedere nella sfida all'Europa sulla legge di stabilità.
     Riaffiora, qui, ancora una volta, la debolezza strutturale e la povertà etica del nostro ceto politico, la sua istintiva e secolare vocazione a cogliere l'attimo per sottrarsi a obblighi e impegni. L'idea che i danni gravissimi provocati dal sisma, con la necessaria e doverosa opera di ricostruzione, siano il campanello che annuncia la ricreazione contro la politica di austerità si è fatta strada in un baleno e accomuna tutti, maggioranza e opposizione, in un afflato anti-europeista quale mai si era visto in Italia. Nessuno, soprattutto dall'opposizione, si è alzato per invocare un profilo più cauto nel rapporto con la Commissione; da nessuno è venuto il suggerimento di cambiare alcune delle poste di bilancio della Legge di stabilità - sgravi fiscali alle imprese e quattordicesime alle pensioni - per dirottare quelle risorse alla ricostruzione.
     Quanto la notte del 9 novembre 1989 il Muro di Berlino venne buttato giù, Helmut Kohl sapeva che si stava chiudendo una lunga stagione del '900 ma quella che si apriva era una pagina piena di incognite e andava scritta con un coraggio al limite della temerarietà. Fu, a suo modo, un terremoto della storia. La Repubblica Federale tedesca doveva accogliere 40 milioni di tedeschi della Germania dell'Est, ricostruire stazioni, ponti, strade, scuole, edifici pubblici e privati la cui manutenzione era ferma agli anni del dopoguerra. La Germania investì qualcosa come 1500 miliardi di euro (allora non c'era l'euro, ma la spesa fu stimata in circa 3 mila miliardi di marchi) e ancora oggi, a distanza di 27 anni, sullo statino di fine mese dei lavoratori tedeschi figura una trattenuta del 5% come finanziamento dell'immane opera di riunificazione della Germania.
     Una pagine della storia europea sulla quale poco hanno riflettuto gli europei. Quando ci si interroga sull'egoismo tedesco e sulla rigidità che appare eccessiva nella gestione delle regole di Maastricht, bisognerebbe ricordare quel tempo. Renzi non è, né mai diventerà Helmut Kohl, ma pensare che si ricostruiscono le zone terremotate solo prendendo a calci negli stinchi l'Europa significa non solo non avere una visione dei problemi, ma soprattutto di non aver mai coltivato nessun sentimento di orgoglio nazionale.

sabato 29 ottobre 2016

RENZI E ORBAN, LE DUE FACCE DELLA CRISI EUROPEA


di Massimo Colaiacomo


     "I want my money back", diceva, senza troppi giri di parole, Mrs. Margareth Thatcher all'indirizzo di Bruxelles. Chissà se Matteo Renzi si è ricordato della protesta inglese quando, l'altro giorno, ha reclamato, nel suo tour referendario, che l'Italia riceve dall'Europa 8 miliardi in meno di quanto versa. Rivolto poi al premier ungherese, Renzi ha sollecitato la burocrazia europea a tagliare i fondi a quei Paesi che rifiutano di adeguarsi alle direttive in materia di ridistribuzione dei profughi, diversamente, ha minacciato, l'Italia è pronta a usare il potere di veto nell'approvazione di ogni bilancio europeo. Immediata la replica di Viktor Orban: anche l'Ungheria è pronta a usare il potere di veto se non viene modificata la contestata direttiva sugli immigrati.
     In condizioni di relativa stabilità dell'euro e in presenza di una crescita sostenuta, la querelle fra Roma e Budapest verrebbe risolta senza troppi affanni da Angela Merkel con l'assistenza di Juncker e del commissario agli Affari sociali. Ma l'Europa vive un tempo eccezionale, l'Unione è scossa da spinte centrifughe e la Brexit, rimasta fino a oggi senza una risposta politica forte, rischia di essere soltanto il primo atto di una crisi senza orizzonte. Quando due Paesi, uno dei quali tra i fondatori, minacciano di usare il potere di veto per ragioni opposte ma simmetriche, vuol dire che la cabina di regia politica è vuota oppure il regista è impegnato a scrivere il canovaccio della prossima sfida elettorale in Germania. L'Italia renziana deve sforare il deficit e adduce come motivo l'imprevisto, massiccio arrivo di migranti (anche se il ministro dell'Interno rassicura gli italiani: nessun aumento rispetto al 2015) oltre ai danni materiali provocati dal sisma del 29 agosto. L'Ungheria del nazionalista Orban si rifugia nell'interesse nazionale, ha costruito un muro al confine con la Slovenia e avverte l'Europa: se l'Italia non sa controllare i flussi migratori, non può essere l'Ungheria a pagarne le conseguenze.
     Come si può intuire, il braccio di ferro fra Roma e Budapest rischia di essere il detonatore di una nuova crisi dell'Unione. Senza le conseguenze clamorose di una nuova exit, ma dalle implicazioni politiche che rischiano di essere ancora più devastanti. Matteo Renzi alza la voce perché, da un lato, ha colto il momento di grave debolezza istituzionale dell'Unione e, dall'altro lato, per coprirsi sul piano interno in vista del voto referendario soffia sull'antieuropeismo, cioè sull'arma che accomuna tutti o gran parte dei suoi oppositori. Fin dove può spingersi il presidente del Consiglio? E davvero Renzi può tornare a una linea di dialogo con l'Europa una volta superato, come legittimamente spera, il voto referendario?
     D'altra parte, non sono migliori le condizioni in cui si trovano a operare i due Paesi-guida dell'Europa. A Parigi e a Berlino si lavora alle prossime elezioni generali. Se Hollande ha chiuso  il suo ciclo, lo stesso non può dirsi di Angela Merkel che potrebbe candidarsi per il quarto mandato alla cancelleria. Francia e Germania hanno fin qui tenuto un profilo basso tanto sulle pretese italiane quanto su quelle ungheresi. Il fatto che nessuna reazione è finora venuta alle minacce incrociate di Renzi e di Orban non significa però che non ci sarà una presa di posizione, magari dopo il 4 dicembre. La cancelleria tedesca rimane concentrata, in ossequio a una linea di condotta decennale ma, a questo punto, anche per calcolo elettorale, sul rispetto delle regole e sul time-table per quanto riguarda il rientro del deficit e l'abbattimento del debito.
     Una linea che può sembrare eccentrica a occhi italiani, ma che, a ben vedere, rimane l'ultimo decisivo collante per tenere insieme l'Unione e non togliere senso politico alla moneta unica. Se all'Italia si riconoscono circostanze eccezionali, come già a maggio è stato fatto per Portogallo e Spagna, come negare domani ad altri Paesi di avere bilanci pubblici disallineati, per ragioni diverse, rispetto alle regole europee? È il cruccio che tormenta un grande europeista come Wolfgang Schaüble. Chi invoca il cambiamento delle regole sa, se è in buona fede, che sta chiedendo il cambiamento dei Trattati, un lavoro annoso e complesso che può essere affrontato solo partendo da quella coesione politica europea che oggi nessuno vede. 
  

sabato 22 ottobre 2016

REFERENDUM, RENZI GETTA BENZINA SUL FUOCO DELL'EUROPA


di Massimo Colaiacomo


     La legge di stabilità e la legge di bilancio sono le ultime due leve utilizzate dal presidente del Consiglio per imprimere una sterzata ai sondaggi che danno pressoché alla pari il fronte del SÌ e quello del NO sul referendum costituzionale del 4 dicembre. Il che non comporta per Renzi l'accusa automatica di cavalcare una sorta di populismo finanziario per contenere il populismo grillino. Per la semplice ragione che fra le opposizioni che applaudono alle riserve di Bruxelles sulla finanziaria del governo non ci sono esattamente fior di europeisti. Non a caso, né Salvini né Grillo usano la sospensione di giudizio della Commissione come una clava politica sul premier. Sono pochi a poterlo fare: Stefano Parisi, nel centrodestra, e Massimo D'Alema con Pierluigi Bersani a sinistra. Loro possono invocare le perplessità dell'Unione sulla finanziaria italiana come prova della inaffidabilità dell'esecutivo agli occhi dell'Europa.
     Tutto ciò contribuisce a intricare la matassa referendaria e le polemiche che corrono fra Roma e Bruxelles delineano nuove linee di frattura nello schieramento politico italiano, con il premier che lancia il guanto della sfida pensando di catturare consensi fra le forze populiste, e gli europeisti del NO che pensano, al contrario, di catturare l'attenzione degli altri governi alle loro ragioni. Renzi ha alzato la posta nella sua sfida all'Europa e ha scelto deliberatamente di gettare benzina sul fuoco di un'Unione percorsa dal vento della divisione: si tratti delle relazioni con Putin o della ridistribuzione degli immigrati, dell'approccio sulla Brexit o del rapporto deficit-Pil, non c'è argomento o dossier su cui l'Europa non coltivi un acerbo cupio dissolvi.
     Non trova altra spiegazione l'irrigidimento improvviso del governo italiano, più netto quello di Renzi, più sfumato, perché investito direttamente del negoziato, quello del ministro dell'Economia.  L'Italia non ha la forza, da sola, per cambiare le regole (che, poi, significa cambiare i Trattati: lavoro annoso), Renzi ha scelto allora di forzarle, mettendo i partner di fronte a un aut-aut: o accettate la legge di stabilità oppure se un richiamo deve esserci, allora va indirizzato ai Paesi che si rifiutano di applicare le decisioni della Commissione in fatto di ridistribuzione degli immigrati e alla Germania, il cui avanzo commerciale, da alcuni anni, è superiore al 6% del PIL, il che è espressamente vietato dai Trattati.
     Dal commissario Moscovici al presidente Juncker, si è scelto di reagire in modo diplomatico. Non c'è stata una hit back, a conferma della comprensione di Bruxelles per la sfida referendaria che attende il governo italiano. La Commissione UE, come si sa, aspetta anche la primavera inoltrata del 2017 per spulciare le carte della finanza pubblica dei singoli Paesi e c'è dunque tempo per chiedere quell'aggiustamento dei conti che sarebbe delittuoso pretendere da Renzi in piena campagna referendaria. Conti da aggiustare in ogni caso, quale che sarà l'esito del voto del 4 dicembre. Perché in caso di vittoria del NO, sia che Renzi rimanga a palazzo Chigi sia che Mattarella, preso il boccino della crisi di governo, decida un'altra investitura, sempre con Bruxelles si dovranno fare i conti.
     Questo percorso è obbligato e prescinde dall'esito del referendum. Si può comprendere come dal fronte del NO arrivi con insistenza la richiesta di nuove elezioni in caso di vittoria al referendum. Arriva da quella parte maggioritaria di anti-europeisti che preferisce la sfida elettorale piuttosto che impegnarsi in un braccio di ferro con l'Europa senza aver capitalizzato il risultato elettorale. Si tratti di Grillo o di Salvini, quando sarà tolta la sordina alle richieste di Bruxelles tutti gli alibi sono destinati a cadere. Si comprende la fretta messa ancora oggi da Giorgia Meloni quando ricorda che "il referendum non si decide nel centrodestra ma è il centrodestra che si decide con il referendum". Per la leader di Fratelli d'Italia, come del resto per il leader della Lega, subito dopo una vittoria del NO ci sono soltanto le urne. Anche per Berlusconi e Parisi le elezioni sono un passaggio obbligato, ma non prima di aver riscritto la legge elettorale, obiettivo per il quale ci vuole un esecutivo, questo o un altro. Sembra una differenza di lana caprina, ma in politica, si sa, è sulle sfumature che si consumano fratture insanabili o si costruiscono alleanze impensabili.