sabato 25 novembre 2017

CARLO COTTARELLI LEADER DEL PARTITO CHE MANCA ALL'ITALIA

Dopo il monito a partiti e Parlamento a fare di più per arginare la crescita fuori controllo del debito pubblico, l'ex commissario alla spending review, licenziato dall'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, spiega perché non si può tornare indietro dalla riforma Fornero. Con le elezioni alle porte, si scatena la hybris dei partiti e la competizione fra i diversi populismi lascia intravvedere un 2018 molto complicato per la finanza pubblica.


di Massimo Colaiacomo


     A chi si rivolge il prof. Carlo Cottarelli, fresco editorialista a La Stampa diretta da Maurizio Molinari, quando smonta, con argomenti semplici e comprensibili, la valanga di promesse elettorali  che da qualche giorno imperversa nell'informazione e sui siti? A Berlusconi, che promette in caso di vittoria del centrodestra, di portare a 1000 euro al mese "per tredici mesi" le pensioni minime, dentiere e cinema gratis per gli anziani? A Renzi e al PD che annunciano l'istituzione permanente del bonus bebè, la cancellazione (forse) del super-ticket sanitario, l'estensione degli 80 euro ai pensionati? A Di Maio e ai Cinquestelle, che promettono il reddito di cittadinanza di 780 euro a 4 milioni di disoccupati e alle famiglie "incapienti"? Alla Cgil di Susanna Camusso, che vuole ampliare la platea dei lavori cosiddetti usuranti e quindi l'accesso alla pensione a qualche centinaio di migliaia di lavoratori, aggirando la riforma Fornero? A Bersani, Speranza e D'Alema che vogliono la riforma del jobs act e la cancellazione del super-ticket? O, forse, si rivolge a Salvini che ribadisce ogni tre per due che l'abolizione della riforma Fornero sarà il primo atto di governo del centrodestra in caso di vittoria?
     È verosimile che il prof. Cottarelli si rivolga, con le sue analisi impietose ma realistiche, a tutti loro e a ciascuno di essi, ma, soprattutto, si rivolga al buon senso dei lettori de La Stampa per metterli in guardia dalle sirene del populismo. La piccola antologia delle promesse elettorali, largamente incompleta, è soltanto un anticipo dello stordimento elettorale cui saremo tutti sottoposti da qui al giorno delle votazioni. Essa è anche l'espressione compiuta di un Paese costretto a scegliere i propri governanti all'interno di un campionario di populismi che è difficile trovare negli altri Paesi europei.  La hybris dei partiti, difficile da tollerare in condizioni normali, diventa insopportabile quando si avvicina il giorno del giudizio elettorale. I moniti di Cottarelli ci ricordano le fragilità strutturali (e secolari) che bloccano lo sviluppo dell'Italia. Quando squaderna le cifre del debito pubblico e lancia l'allarme sulla sua sostenibilità, non lo fa certo per il piacere di calarsi nel ruolo di bastian contrario o per dare ragione al vice presidente dell'Eurogruppo, il finlandese Jyrki Katainen. Più semplicemente, Cottarelli ci ricorda che il giudizio sul debito è quello che viene dai mercati quando prezzano il rischio dei nostri titoli di Stato. L'Europa, la cancelliera Merkel o l'euro non hanno nulla a che vedere con il "rischio Italia" perché esso precede tutto il resto, essendo retaggio di politiche economiche di bilancio sempre pensate e attuate in chiave elettoralistica.
     Forse sarà il caso per i sondaggisti, attesi a un superlavoro nei prossimi mesi, di indagare più a fondo sulle ragioni che hanno portato negli ultimi anni metà degli elettori a disertare le urne e che si preparano a confermare il loro disamore per il mercato delle promesse elettorali. Magari si potrebbe scoprire che le persone preferiscono sentirsi raccontare di impegni concreti e realistici, di qualche sacrificio da fare, o magari di una quota dei loro risparmi da destinare per via forzosa al rifinanziamento del debito pubblico attraverso l'acquisto di Titoli di Stato "matusalemme", con scadenza a 30 o 50 anni. E quindi di tagli (veri) alla spesa pubblica. E dopo, ma soltanto dopo un percorso simile, arrivare al taglio composto delle tasse.
     Perché la vera sfida a cui sono attesi i partiti è proprio questa. Quanti italiani sono disposti a credere che chiunque sarà il vincitore - ammesso che ci sia un vincitore - delle prossime elezioni, una sola di quelle promesse sarà attuata senza che il Paese riceva una scossa terribile sui mercati? Il prof. Carlo Cottarelli non è un nuovo Mario Monti. Monti venne chiamato quando la casa bruciava, ha circoscritto l'incendio ma non lo ha spento del tutto. Sotto la cenere di Monti torna a bruciare il populismo di Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini. La sfida sarà di vedere se alle urne andrà almeno il 50% degli elettori.

domenica 12 novembre 2017

RENZI NON SPIEGA MA COMPLICA LE VICENDE BANCARIE



di Massimo Colaiacomo
     La lettera del segretario del PD alla Stampa è un piccolo capolavoro di contraddizioni. Tralascio ogni commento sul tono derisorio usato da Renzi per definire il pezzo pubblicato ieri sullo stesso giornale a firma di Marcello Sorgi: ognuno argomenta come sa, e Renzi, evidentemente, sa argomentare in quel solo modo. Vengo al merito: al punto 2 della sua lettera Renzi nega ogni mancata collaborazione e rivendica al suo governo di aver agito "in modo concertato e coeso" e insieme alla Banca d'Italia "hanno cercato di affrontare le numerose sfide che si sono presentate in quei mesi".
     Più avanti, al punto 4, Renzi scrive: "Anziché continuare a evocare la vicenda Banca Etruria, su cui pure sarà interessante nelle prossime settimane ricostruire sul serio l'accaduto anziché usarla come comodo alibi per azzerare ogni critica, sarebbe interessante capire che cosa è accaduto nella vigilanza sugli istituti veneti. E non basta cercare di scaricare in modo irresponsabile le colpe sui predecessori, più o meno autorevoli, come qualcuno potrebbe immaginare di fare, contro la nostra opinione". La "reenactment" renziana vacilla sotto il peso delle sue contraddizioni dalle quali può uscire solo con un atto d'accusa i cui destinatari sono due: Ignazio Visco e il suo predecessore "più o meno autorevole" Mario Draghi. Renzi lancia il sasso e nasconde la mano.
     Affermare, e Renzi lo afferma, che governo e Bankitalia hanno cercato insieme di affrontare le numerose sfide, significa due sole cose: a) o il governo Renzi è stato almeno corresponsabile per i ritardi accumulati nelle iniziative legislative volte a impedire un aggravamento della crisi del sistema bancario; b) oppure le parole di Renzi sono un atto d'accusa a Visco, colpevole di aver mentito al governo sulle reali dimensioni della crisi. Quando la Commissione Casini affronterà il caso del MontePaschi di Siena, dovrà cercare risposte a due questioni: a) l'incarico di advisor conferito dal governo a Goldman Sachs, costato 600 milioni di euro ai contribuenti, per tentare un aumento di capitale e salvare l'istituto con le risorse del mercato; b) che cosa ha spinto il presidente del Consiglio Matteo Renzi, nel gennaio 2016, a sollecitare i risparmiatori all'acquisto di azioni MontePAschi ritenendo risanato l'istituto. Immaginare che anche in quest'ultimo caso si possa chiamare in causa Bankitalia sarebbe non più segno di irresponsabilità, ma sarebbe un atto di pura codardia e viltà politica.