venerdì 30 maggio 2014

UN SOLO ORDINE DA PALAZZO GRAZIOLI: RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE!

di Massimo Colaiacomo

A guardarla dall'esterno, Forza Italia è una barca squassata dai marosi. Imbarca acqua e, si presume, vedrà presto sbarcare o transitare su altre meno precarie imbarcazioni manipoli di parlamentari. Vista un po' più da vicino, è un partito di una noia mortale. Al suo interno sferruzzano tricoteuses impettite e giovinotti dalle speranze appannate in cerca di repentino riscatto. E un capo al quale, come diceva Flaiano "l'insuccesso ha dato alla testa". Berlusconi è colpevole agli occhi dei suoi, di quelli che gli giurano fedeltà eterna, di rifiutarsi di porgere la testa al filo d'ascia di Mastro Fitto.
La cerchia di quelli che gli giurano fedeltà ben oltre la soglia dell'eternità, lo incalza con veemenza: resistere, resistere, resistere!!! gli consigliano con esortazioni di borrelliana memoria. Sennonché il copyrighter se ne è andato in pensione, ma B. non ci sente. Il suo problema è uno solo: che fare se mollo? Può l'uomo che ha tracciato traiettorie ardimentose per ogni dove nel globo acocntentarsi del piccolo mondo di Cesano Boscone? E una volta mollati gli ormeggi, i cortigiani in disarmo di che cosa mai potranno riempire le loro giornate? A chi potranno rifilare le loro stilettate?
Qualcuno gli suggerisce di fare politica. Si fa presto a dire politica! E che cosa è? Per esempio riprendere una frase di Ignazio Visco in cui si accenna all'aumento delle tasse sulla casa e poi tutti in coro, ma in fila sulle agenzie, spernacchiare Renzi che sostiene di non aver aumentato le tasse sulla casa. Splendido. Questa sì che è politica con la P.
Bene, a fine giornata tutti rinfrancati potranno dire di avergliene cantate quattro a quel Renzi lì che si permette di rivolgersi alla Merkel "con spirito costruttivo e in amicizia". Alla Merkel? Ma non è la leader della Cdu, quindi partner e fra i più importanti del Ppe di cui Forza Italia fa parte? E Renzi non ha portato il Pd dentro il Pse? Che sfacciato, devono aver pensato i consiglieri di palazzo Grazioli. Parla con quella che ha complottato contro il nostro amato e ha lavorato al golpe. Questo si chiama ferire l'orgoglio nazionale. Ben venga la Commissione d'inchiesta, può declamare Brunetta, così si vedrà la strategia di ampio respiro di questo complotto demo-pluto-giudaico-massonico che ha disarcionato il Cavaliere.
Già, la Commissione d'inchiesta è l'ultima e più aanzata delle barricate alzate a difesa del castello assediato. Così, tanto per guardare avanti con la testa all'indietro. E che cosa succederà una volta appurato che di complotto si è trattato? Semlice: si chiamano i Caschi Blu dell'Onu, si arrestano Napolitano e Monti, si dichiara guerra alla Germania e si mandano le teste di cuoio a prelevare Nicolas Sarkozy. E giustizia sarà così resa.

Sono quasi le 20. A palazzo Grazioli si accostano le persiane, si accende qualche lampada, si aprono le finestre per lasciar passare la brezza della sera. Non mollare, già. Perché mollare? Ecco, una bella rivista con questa testata. "Non mollare". Presidente, dice un cortigiano di recente acquisizione. "Temo che quella testata evochi un altro giornale. Lo fondarono Carlo e Nello Rosselli, insieme a Gaetano Salvemini". "Splendido, vorrà dire che compriamo la testata e uno di quei tre signori potrà dirigerlo ...". È ormai quasi notte. B. avverte una leggera fitta sulla milza. "Meglio questa, al femminile, dell'altro". Tutti ridono, il castello è salvo. Domani è un altro giorno.

martedì 27 maggio 2014

CENTRODESTRA RESTERÀ DIVISO CON BERLUSCONI IN CAMPO

di Massimo Colaiacomo

Il terremoto che ha scosso i 28 Paesi dell'Unione europea ha cambiato molto la  geografia del Parlamento di Strasburgo, ma soprattutto ha rivoluzionato in profondità gli equilibri politici all'interno dei singoli Paesi, non di tutti certo, ma sicuramente ha cambiato l'orizzonte politico in Italia.
Matteo Renzi è il trionfatore del voto. Beppe Grillo, sconfitto, è stato umiliato nelle sue ambizioni. Silvio Berlusconi ha recitato probabilmente l'ultimo spartito della sua lunga stagione. La sua nota a commento del voto, con gli accenti orgogliosi dello sconfitto che rilancia la scommessa, tradisce l'emozione di un grande protagonista che avverte la fine del lungo viale attraversato in tanti anni, ogni volta salutato da applausi scroscianti e successi sonanti. Ora non è più così e non sarà mai più così, come sa il grande combattente di una vita. Il suo appello all'unità dei moderati, la ragione per cui scese in politica nel 1994, è in fondo l'ammissione di non esserci mai riuscito. Il centrodestra non è mai stato un progetto culturale e politico, come Berlusconi sa bene. Ha funzionato come una grande zattera accogliente in cui alleati fra loro diversi, con obiettivi e programmi talora radicalmente diversi, sono saliti per raccogliere vittorie tanto significative sul piano numerico quanto ingestibili sul piano politico-programmatico.
A Berlusconi interessava vincere, arte in cui è stato maestro insuperabile, ma le condizioni in cui coglieva grandi successi si trasformavano in altrettanti impedimenti a governare l'Italia.
L'unità dei moderati è un obiettivo non per l'oggi e neppure per il domani. Berlusconi la auspica, e in questo è sincero, ma sa bene che non potrà più esserne l'architetto. La diaspora di questi anni ha generato partiti e partitini nel campo del centrodestra, e ciascuno di essi è anche un piccolo covo di risentimenti quando non di rancore verso il padre politico. I moderati, termine diventato insignificante nel lessico politico, sono oggi la somma di identità molto diverse e talora inconciliabili 
La sua disponibilità alle riforme è per metà sincera. Se prima del 25 maggio Forza Italia disponeva ancora di margini negoziali verso Matteo Renzi, dopo il voto l'adesione alle riforme è un atto obbligato. Forza Italia non ha alternative a meno di considerare un'alternativa il baratro elettorale.
Il centrodestra si presenta come il campo di Agramante. Colonnelli senza più truppe si rimpallano la responsabilità di una sconfitta inattesa nelle sue proporzioni. Ma è il generale in piena confusione. Fa annunciare dal suo utimo scudiero che è pronto a firmare alcuni referendum della LEga Nord, partito vittorioso alle europee ma fresco di alleanza con Marine Le Pen. Ecco: alleati di Salvini e Le Pen e federatore dei moderati. Parliamo soltanto di una delle contraddizioni, e neanche la più vistosa, che stanno incrinando irrimediabilmente l'immagine di Forza Italia e la residua credibilità del suo fondatore. È ovvio che Berlusconi non potrà riunificare alcunché. L'unica condizione per tentare una operazione simile e necessaria è impraticabile per Forza Italia. Si parla qui dell'uscita di scena di Silvio Berlusconi. Finché lui resisterà il centrodestra sarà diviso. Faranno bene a prenderne nota i moderati rimasti in Forza Italia come rari nantes in gurgite vasto.

 

domenica 25 maggio 2014

SENZA L'EUROPA PUÒ ESISTERE L'EURO? A MERKEL LA RISPOSTA

di Massimo Colaiacomo

Gli euroconvinti si trovano a nord di Berlino. Sotto quel parallelo, la scena politica è dominata dalle forze euroscettiche. In modo clamoroso, è la forza antieuropeista di Marine Le Pen che si abbatte come un ciclone sui fragili equilibri francesi e ridicolizza un presidente della Repubblica ridicolo di suo. Vincono bene Merkel e i suoi oppositori. E non si tratta di un paradosso. È invece la prova che le politiche economiche imposte all'Europa attraverso il controllo pieno della leva monetaria e delle politica fiscale hanno fatto di Merkel il miglior difensore di una Nazione contro la quale si sono rivoltate le altre. Angela Merkel ha vinto in quanto custode degli interessi della Germania ma in questo modo ha incrinato un bel po' il cemento politico che teneva insieme 28 Stati nell'Unione europea e 17 nell'eurozona.
In Italia saranno letti con la lente di ingrandimento i risultati di ogni formazione e, secondo un triste costume nazionale, nessuno ammetterà mai una sconfitta mentre ciascuno sarà pronto a misurare il livello della propria vittoria. La disputa se il governo uscirà rafforzato o indebolito, o se Grillo è il vero vincitore o se Forza Italia ha perso ma meno di quanto Berlusconi temesse è un copione già scritto. Si potrebbe spegnere il televisore o il pc e andare a letto.
Interessa qui, invece, rilevare la rivoluzione della geografia politica prodotta dal voto. La Francia è il centro di un terremoto i cui danni è difficile misurare in queste ore. La riunione di crisi convocata per domani mattina all'Eliseo dal presidente Hollande è solo una prima presa d'atto di un equilibrio di potere ormai saltato. Si dirà che si trattava di un voto che non chiamava in causa il governo nazionale, ma quando il rovesciamento dei rapporti di forza si manifesta in modo così eclatante è difficile non pensare a contraccolpi anche sul governo nazionale.
Da questa sera, però, il governatore della Bce ha numerose frecce in più al suo arco. L'allentamento della politica monetaria su cui il board della Banca dovrebbe discutere nella riunione del 5 giugno smette di essere n'ipotesi per acquistare la concretezza di una realtà necessaria e urgente. Dopo anni di politiche messe in campo con lo scopo, si diceva, di salvare l'euro ora i mercati guardano a Mario Draghi come all'istituzione che deve salvare l'Europa.
Per la cancelliera Angela Merkel si profila insomma una vittoria di Pirro. Vinte le elezioni europee ora deve pagare il pedaggio che si era fin qui rifiutata di pagare. Il cambiamento delle politiche economiche avverrà, insomma, non per la vittoria della sinistra (sembra, invece, che la vittoria andrà ancora ai Popolari) ma per l'avanzata temuta ma non prevista in queste proporzioni dei movimenti euroscettici o apertamente ostili all'Europa. Si tratta di agire, e anche in fretta, prima che i movimenti euroscettici possano monetizzare la vittoria europea anche in elezioni politiche nazionali. 
Salvato l'euro, Merkel si trova davanti al bivio: come salvare il progetto dell'Europa politica e quali costi la Germania è disposta a tollerare per questo obiettivo senza il quale non avrebbe più senso la moneta unica?

     

venerdì 23 maggio 2014

GLI ITALIANI CHE AMANO L'EUROPA DOMENICA VANNO AL MARE (O AL CINEMA)

di Massimo Colaiacomo

Ancora poche ore e finalmente il sipario calerà sul "Truman show" della politica italiana. Con l'eccezione delle forze minori, capaci di argomentare pro o contro l'Europa, i tre partiti maggiori si sono rincorsi sulle piazze televisive e su quelle d'Italia beccandsi ferocemente su questioni di cortile. Grillo, Renzi e Berlusconi hanno alimentato la scena con la stessa, maniacale puntualità con cui Jim Carey, nel film Truman show, aveva accettato di vivere a sua insaputa in un reality in cui tutti i cittadini erano attori consapevoli con l'eccezione, appunto, del povero Truman.
Ha facile ragione chi sostiene che la metamorfosi subita dalla politica e la sua conseguente riduzione a reality è insieme causa ed effetto della perdita di consistenza dell'atto politico in sé. Al netto dello scadimento della qualità del ceto politico, probabilmente la più infima degli ultimi decenni, la politica gira a vuoto per l'abdicazione dal proprio ruolo di regolatore di conflitti e dalla funzione di motore del cambiamento. Ne è scaturita una forma di anestesia sociale con la conseguente affermazione di un indifferenziato rifiuto prima dei politici (vedi il grillismo) quindi della politica (vedi l'astensionismo massiccio di domenica 25 maggio).
L'euroscetticismo e le campagne anti-euro e anti-Europa sono soltanto il tentativo maldestro di un ceto politico fallito di nascondere le proprie responssabilità indirizzando altrove la delusione e la frustrazione del corpo sociale. In questo senso la politica si è assicurata una qualche sopravvivenza rispetto all'astensionismo annunciato, e poco importa se questa è stata conseguita trasformato il Paese più europeista fino agli anni Novanta nel più antieuropeista del presente.
Dare addosso all'Europa e alla Merkel indicandoli come i colpevoli principali delle difficoltà in cui agonizza la società italiana dovrebbe essere l'ultimo dei delitti consentiti a Berlusconi, Grillo e Renzi. Per queste ragioni chi crede sinceramente nel destino europeo dell'Italia deve disertare le urne domenica prossima con ciò sanzionando severamente un ceto politico colpevole di attentato alla dignità della Repubblica e di ogni misfatto perpetrato ai danni della Nazione non per la malvagità dei partners europei ma per l'inconcludenza e la codardia di chi avrebbe dovuto governare il Paese secondo il principio della realtà e ha invece preferito condurlo in un vicolo cieco.
Renzi, Berlusconi e Grillo dovrebbero riflettere su quel 78% di greci favorevoli all'Europa e all'Euro, contro appena il 53% di italiani. Un Paese martoriato come la Grecia non è stato saccheggiato dalla trojka economica (Fondo monetario internazionale, Commissione europea e BCE) ma è stato salvato dall'abisso in cui l'aveva condotto la classe dirigente greca colpevole di aver dissipato ricchezze immense a seguito dei Giochi olimpici del 2004 con regalie e donazioni sociali.
Quando Berlusconi, Renzi e Grillo invocano la fine dell'austerità mentono spudoratamente sapendo di mentire. Di quale austerità parlano? Di quella fiscale? Ma chi è che impone all'Italia di aumentare le tasse invece di riorganizzare lo Stato e la Pubblica amministrazione licenziando dove serve e ridurre gli stipendi non solo ai dirigenti ma a tutti i dipendenti pubblici? Sono scelte troppo pericolose per una politica pavida che si nutre di sondaggi quotidiani come i corvi delle carcasse di animali. La politica insegue il popolo e i suoi desideri, esorcizza la realtà e la travisa con promesse di benessere immediato e futuro: questo è il populismo.
Immergersi nella realtà per cambiarla e forgiarla secondo un disegno di respiro nazionale ed europeo, chiamando tutti i cittadini a rinnovare un oneroso biglietto di appartenenza alla Nazione: questa è la politica alta e nobile. I nostri politici lillipuziani criticano la Germania e la sua cancelliera, ma qualcuno di loro è a conoscenza del fatto che dal 1989 sulle buste paga dei lavoratori tedeschi figura una trattenuta del 5,5% del reddito lordo con la dicitura "spese per la riunificazione della Nazione"? Se la Germania è una Nazione e tale si sente e si muove sulla scena del mondo, come può essere questa una colpa?

 

giovedì 22 maggio 2014

MAI COME ORA IL POTERE È TUTTO DI CHI NON VA A VOTARE

di Massimo Colaiacomo

     Gli elettori hanno il potere di scegliere i parlamentari (nelle democrazie consolidate e di antica tradizione, scelgono i governi) e decidere con il loro voto la vittoria e la sconfitta di un partito. Possono votare "contro" qualcuno, e quindi dare il loro voto a tutti quei partiti che meglio rappresentano la sua antipatia. Possono votare a favore di "un" partito e allora decadono tutte le altre opzioni. La forza di Berlusconi, e la debolezza dei suoi avversari, è consistita per vent'anni nella sua riconosciuta abilità di trasformare ogni elezione in un referendum pro o contro la sua persona. Il 25 maggio, per la prima volta, cambia la strategia di voto. Il referendum non è più sulla persona di Berlusconi, ma è sul personaggio di Beppe Grillo. Personaggio e non persona, e non per caso.
     Grillo ha conquistato il centro del ring in quanto forza antisistema, predicatore di una palingenesi partorita sul web e suscitatrice di un potente sentimento distruttivo. Quel sentimento è radicato nel Paese e in strati ampi della popolazione ma non è stato generato da Grillo. Il comico genovese ha trovato un terreno ampiamente dissodato e arato dai fallimenti inanellati dai partiti tradizionali in vent'anni di politica inconcludente.
     Quel centro del ring vuole riconquistarlo ora Matteo Renzi, avversario temibile per Grillo, ma anche ultima e disperata carta giocata dai partiti per dimostrare al Paese che la politica sa e può autoriformarsi. La linea di conflitto è tutta qui: chi crede nella riforma di "questa" politica contro coloro che ritengono irriformabile il sistema. Tutte le altre opzioni, compresa Forza Italia, sono presenze accessorie in una battaglia combatta all'ultimo voto.
     All'ultimo voto significa che le speranze di vittoria delle forze politiche e di Grillo sono nelle mani degli elettori che andranno alle urne ma sono soprattutto nelle intenzioni di quelli che non andranno a votare. La forza dei rispettivi eserciti dipende dai soldati che non marcano visita il 25 maggio. Renzi motiva il suo esercito evocando la pericolosità di Grillo. Grillo motiva le sue truppe annunciando una vittoria all'orizzonte e la fine della partitocrazia. Berlusconi deve dividere le sue truppe per fronteggiare le insidie del grillismo da una parte e, dall'altra, ingaggiare uno sfibrante punch ball con il governo. Per l'uomo abbandonato dalla Provvidenza si tratta di una tenaglia mortale capace di trasformare il voto di domenica in un giudizio di Dio.
     È in questo quadro che si inserisce il potere di voto di chi non vota. Un potere straordinario come mai prima era capitato. Si tratta di una platea che si annuncia sterminata, vicino forse alla metà degli aventi diritto. Capire le loro motivazioni sarà decisivo per ricostruire un centrodestra credibile in Italia e in Europa. Perché il centrodestra e non altre formazioni? Per la ragione semplice che il conflitto fra sistema e antisistema si gioca sul dualismo Renzi-Grillo mentre Berluconi ha scelto di rimanere sulla linea di confine sulla quale, come si sa, si prendono fucilate da entrambi i campi avversi. Il suo non è però un neutralismo attivo, è piuttosto una scelta difensiva di chi punta in questo a salvare il salvabile. Come conferma la nomina di un amministratore straordinario, figura tipica nelle società che hanno avviato una procedura fallimentare. Berlusconi si trova nella condizione del generale Lapalisse per il quale i suoi soldati cantavano "un quart d'heure avanti sa mort il était encore en vie".

mercoledì 21 maggio 2014

OGGI IN SPAGNA DOMANI (FORSE) IN ITALIA


di Massimo Colaiacomo

    I movimenti dello spread sono paragonabili al campanello che il paziente sul letto d'ospedale suona per richiamare l'attenzione del medico, cioè la politica. In questa fase, però, non ci sono medici di turno e l'unico presente si limita a rassicurare il paziente: non abbia timori, si rilassi e stia sereno e tutto andrà a posto. In casi simili, ci sono due possibilità: tutto, come dice il medico, può andare a posto oppure il paziente si aggrava con ciò denunciando la sottovalutazione dei suoi problemi da parte del medico.
     La risalita del differenziale dei rendimenti fra Btp e Bund può essere, come sostiene il ministro Padoan, un rimbalzo atteso dopo la discesa ininterrotta che lo ha condotto da 200 a 150 punti base. Oppure può essere il campanello suonato dai mercati per ricordare all'Italia che le riforme sono ancora sulla carta e la fiducia accordata al governo Renzi non è illimitata e senza scadenze temporali. Per la verità Padoan ha riconosciuto il persistere di una fragilità strutturale del nostro Paese come una delle cause alla base della brusca inversione del differenziale dei tassi.
     Il punto è da tutti conosciuto ma anche da molti occultato: vuoi per viltà politica vuoi, anche, per evitare di parlare delle riforme, ancora tutte da fare, in piena campagna elettorale. L'Italia rimane così quel Paese pericolosamente in bilico fra la speranza di una ripresa e i timori di una deriva economica e sociale senza fine. Le riforme slittano e quando si realizzano, come quella del lavoro con il decreto Poletti, sono inadeguate, timide e suscettibili di nuove e più incisive riforme. Si veda la storia delle pensioni. Quante volte sono state ritoccate dopo il 1995? E quante volte ci è stato spiegato, dopo ogni riforma, che il sistema previdenziale italiano è il più solido al mondo? Salvo, s'intende, rimetterci le mani ogni volta che gli equilibri della finanza pubblica ci ricordano la loro precarietà.
     Ha ragione ancora il ministro Padoan a osservare che lo spread ha colpito tutti i Paesi eurozone. Non aggiunge, però, un dettaglio che vale più dell'insieme: perché lo spread sui titoli italiani schizza verso l'alto con una velocità sconosciuta ai titoli spagnoli o greci?
     Si arriva così al punto della questione. Il voto europeo porta sicuramente un elemento di nervosismo, ma i debiti pubblici nazionali non sono tutti uguali e i mercati lo segnalano prezzando diversamente il loro grado di rischio. I Bonos spagnoli salgono di 10 tick, i Btp italiani salgono di 20. Significa che la percezione del rischio è maggiore nel caso italiano. Rajoy ha fatto le riforme che servivano e la Spagna ha imboccato senza esitazioni la via della ripresa. La Banca centrale di quel Paese ha previsto una crescita del Pil dello 0,8% nel secondo trimestre quando in Italia si spera di tornare a qualche decimale sopra lo zero.
     Quali considerazioni politiche si possono trarre dal confronto con la Spagna? Una su tutte: l'Italia non ha fatto nessuna delle riforme strutturali sollecitate dall'Europa ma, prima ancora, dal buon senso. Il Paese continua in una deriva civile, prima ancora che economica e sociale, e il grillismo è la sua manifestazione incistata nel corpo sociale. Dalle forze "di sistema" non è stata fin qui accennata la pur minima reazione. Una campagna elettorale condotta contro l'austerità imposta dall'Europa non è stata mai neppure sfiorata da una domanda: quale austerità? Quali piazze sono state riempite da folle schiumati di rabbia per licenziamenti nel pubblico impiego o per tagli del welfare? È accaduto, invece, in Spagna, in Grecia e in Portogallo. Paesi sottoposti a cure da cavallo dai rispettivi governi e dalla UE. Può sembrare un paradosso, ma in quei Paesi è cresciuta un'adesione alla moneta unica e all'Unione europea molto più forte che in Italia. Il Paese più europeista, quando esserlo significava fare qualche convegno o celebrare la memoria di qualche personaggio, è oggi il più euroscettico. Greci, spagnoli e portoghesi, tutti in diversa misura sottoposti alle terapie d'urto della Commissione, sono diventati, secondo i sondaggi di Eurobarometer più europeisti dell'Italia. Il ceto politico italiano dovrebbe riflettere su questa circostanza più che sullo stipendio alle casalinghe o sull'abolizione dell'Iva dal cibo per cani e gatti.

lunedì 19 maggio 2014

LA GRECIA FUORI DAL POPULISMO E DENTRO L'EUROPA


L'Italia nei marosi del populismo e lontana dalle riforme

di Massimo Colaiacomo


     Sarà dunque il "partito del non voto" a decidere , questa volta più che nelle precedenti occasioni, l'esito del voto europeo. Si parla (si veda l'analisi di Luca Tentoni sul Giornale di Vicenza")di un bacino elettorale dalle dimensioni ignote ma, secondo gli ultimi sondaggi consentiti dalla bizzarra legge elettorale, non lontano dal 40-45% degli aventi diritto. Renzi, Berlusconi, Grillo dovranno guardare dentro la platea delle astensioni per capire le ragioni di vittorie o sconfitte clamorose. Le ragioni di uno sciopero elettorale di massa, comportamento diffuso un po' ovunque negli altri Paesi europei, in Italia ha radici recenti e abbastanza intricate.
     Ci sono, per un verso, ragioni tutte italiane, riconducibili alla situazione di crisi del sistema, che si ricollegano, amplificandole, a ragioni europee. L'Unione rischia di collassare sul piano politico. I meccanismi che disciplinano le decisioni del Consiglio europeo sono barocchi e il trasferimento di quelle decisioni alla Commissione europea avviene attraverso un ulteriore negoziato che si svolge attraverso una procedura duale per coinvolgere, a livello consultivo, il Parlamento europeo. Si tratta, come è facile intuire, di uno schema paralizzante per qualunque decisione, dalla più importante alla più ininfluente. Non va trascurato, in questo contesto, il ruolo atipico della Banca centrale europea. Priva del ruolo di lender last resort, la Bce opera attraverso un direttorio i cui membri pesano ciascuno per la quota di competenza del proprio Paese. Se parla il presidente della Bundesbank, le sue parole valgono il 18,5%, se a parlare è il presidente della Banca centrale spagnola, le sue parole valgono il 12,5% e così via. Se infine rimangono dubbi sulla politica dei tassi, allora Draghi alzerà il telefono per parlare con il cancelliere Merkel o il suo ministro delle Finanze Schauble.
     Da qualche tempo, il presidente Draghi parla molto con la signora Merkel e molto poco con il suo rappresentante nel direttorio. La conseguenza di questo è il permanere di tassi bassi e il probabile varo a giugno di un quantitative easing sul modello di quello voluto da Bernanke in America. Dopo aver minacciato nel luglio 2012 di essere pronto a fare whichever thing in difesa dell'Euro, fra qualche settimana Draghi potrebbe essere chiamato all'azione e fare davvero qualsiasi cosa. Insomma, a mettere mano a quei 1000 miliardi di euro per acquistare i titoli del debito dei Paesi periferici.
     Domanda: quei 1000 miliardi sono un firewall sufficiente per mettere al riparo la moneta europea? L'Euro, insomma, si salva perché la Bce, autorizzata da Berlino, acquista debito sul mercato primario, oppure quei soldi servono per "comprare tempo" e consentire ai Paesi ritardatari (leggi Italia) di fare le riforme sempre annunciate e sempre rimaste nel limbo delle intenzioni?
     L'Italia non ha le carte in regola per chiedere alcunché ai partner europei. Quanto fatto finora dal governo Renzi è meno del minimo sindacale richiesto. Le riforme sono il collutorio al quale ricorrono le forze politiche per fare qualche gargarismo nelle occasioni speciali. Nessuno dei populisti in campo - si tratti di Berlusconi, Renzi o Grillo - ha fin qui trovato il coraggio della verità, cioè raccontare agli italiani che i cambiamenti necessari sono socialmente sanguinosi e presuppongono una transizione, nel mondo del lavoro e dell'economia, fatta di tagli di spesa, licenziamenti nel pubblico impiego senza più la dorata via d'uscita del prepensionamento. Si parla di misure adottate in Spagna, in Grecia, in Portogallo in questi Paesi si preparano a cogliere frutti importanti.
     I populisti italiani tacciono su queste circostanze. Si appagano di concedere un bonus di 80 euro a chi lavora, o di promettere dentiere gratis e cibo per cani esente Iva. Oppure di dare un reddito di cittadinanza di 1000 euro a tutti i cittadini o lo stipendio di 800 euro alle casalinghe. La moltiplicazione dei pani e dei pesci è destinata a impallidire di fronte a questi fuochi d'artificio.
     Così stando le cose, come non giustificare lo scetticismo con cui i partner europei guardano all'Italia? Come sorprendersi se la Germania coltiva una crescente diffidenza? Gli antieuropeisti sono cresciuti e sono più forti laddove più debole è stato il ciclo riformatore.
     Grillo e Le Pen sono campioni di antieuropeismo in due Paesi che meno di altri hanno fatto riforme. A conferma di questo, può essere utile lanciare un occhio a un recente sondaggio condotto in Grecia. Del campione di cittadini interpellati, soltanto il 25% si è detto favorevole a uscire dall'Euro. Il restante 75% è diviso fra molto favorevole (46%) e abbastanza favorevole (29%) a conservare la moneta unica.
     Si sta parlando qui della Grecia, cioè del Paese che è stato il cuore dell'incendio europeo e ha pagato prezzi sociali altissimi. Bene: dopo un percorso di lacrime e sangue, i greci hanno scoperto, e capito, quanto sia utile e positivo per loro trovarsi nell'Unione europea e avere in tasca la stessa moneta dei tedeschi o degli olandesi. In Italia è accaduto il processo contrario: meno riforme si sono fatte e più lontana è stata avvertita l'Europa. Con ciò confermando che la medicina diventa tanto più amara quanto più si allontana il momento della sua assunzione.

sabato 17 maggio 2014

DOPO IL 25 MAGGIO LA SFIDA È COLMARE IL VUOTO LASCIATO DA FORZA ITALIA

                                                          di Massimo Colaiacomo

     Il 26 maggio non si devono contare più i voti delle liste, e la guerra dei decimali combattuta nel passato questa volta sarà soltanto un episodio marginale e ininfluente. Quel giorno la politica ripartirà semplicemente guardando ai partiti che occupano le prime tre posizioni. E se dalle urne usciranno confermati i sondaggi, la classifica sarà: Pd, M5s, Forza Italia. Che cosa può significare un risultato simile? Significa che tutto è cambiato in profondità e la politica come l'abbiamo vista in questi venti anni è finita in soffitta. Significa che Forza Italia, quale che sarà la percentuale dei consensi, non ha più un ruolo politico da svolgere, nel centrodestra come nel Paese. Berlusconi, naturalmente, spera di ottenere il massimo anche se le sue speranze andranno deluse. Ha sbagliato tutto quanto poteva sbagliare in campagna elettorale. Se il punto forte sono state le dentiere per gli anziani e il cibo per cani senza Iva, è facile capire come l'ex Cav abbia raschiato il fondo del barile. È un pugile cotto. È lesso.
     Con quel risultato, Forza Italia sarà condannata alla disgregazione più o meno rapida, per poche ma valide ragioni. Vediamole.

1) con il Pd vincitore e Grillo seconda forza, il bipolarismo visto fino a oggi cambia natura. La linea di conflitto non sarà più destra-sinistra, ma sarà una più primitiva logica sistema-antisistema, cioè Pd-Grillo. Renzi non può allearsi con Forza Italia, senza perdere pezzi del Pd e scheggiare quel che resta di Forza Italia. Oltretutto, una simile scelta rafforzerebbe ulteriormente lo schema sistema-antisistema. Né Alfano, qualora dovesse superare il 4%, potrà accettare l'ingresso di Forza Italia come imposizione del Pd.

2) dopo il 26 maggio, Forza Italia perde ampi spazi di manovra in Parlamento, cui si aggiunge la perdita di rappresentanza delle vaste categorie sociali, le cosiddette "partite Iva", tenute per anni al carro del berlusconismo mai arrivato a destinazione.

3) l'Italicum sta congelato per qualche tempo ma non è detto che sarà abbandonato. Per la ragione che il secondo posto di Grillo è quanto di più provvisorio si possa immaginare. La sorte della riforma elettorale dipende in larga misura dalla velocità con cui il campo di centrodestra saprà ricostruire la propria unità o quanto meno delineare un equilibrio convincente tra le forze sopravvissute al dopo- Berlusconi o generate proprio dalla fine del berlusconismo.
     Si può osservare che svolgiamo ragionamenti costruiti attorno al "se". In questo caso, però, ragioniamo con un periodo ipotetico di primo grado, vale a dire si parla di circostanze altamente realizzabili a seguito dell'esito elettorale.
     Le insidie per il governo Renzi non vengono soltanto dal probabile flop elettorale di Forza Italia. Perché anche un cambio di strategia di Grillo, al momento imprevedibile, potrebbe rivelarsi fatale per il Pd e, di conseguenza, per il governo. Di fronte a un successo elettorale che dovesse portarlo a ridosso del Pd, Grillo potrebbe essere tentato di offrire una qualche disponibilità sulla legge elettorale o sulla riforma del Senato. Nulla che avesse a che fare con la politica di governo, è ovvio. Ma tanto basterebbe per mandare gambe all'aria lo schema fin qui seguito, costringendo Renzi a muoversi in un quadro parlamentare più ampio. Qui si parla invece di un periodo ipotetico di terzo grado perché il cambio di strategia porterebbe Grillo a rinunciare alla propria natura di partito antisistema per calarsi, anima e corpo, all'interno di uno schema parlamentare tradizionale.
     Al di là di ogni congettura, l'unica certezza è al momento il cambiamento rilevante dello scenario dopo il voto europeo. Un cambiamento che si porta appresso due conseguenze: l'irrilevanza politica di Forza Italia, al netto del residuo peso parlamentare ancora utile ma da spendere nel giro di poche settimane, prima che le spinte centrifughe dissolvano i suoi gruppi parlamentari; l'accresciuto potere di Matteo Renzi, accresciuto ma in qualche modo imballato vuoi per la perdurante diaspora del centrodestra e vuoi, almeno al momento, per la confermata natura antisistema del grillismo.

mercoledì 14 maggio 2014

LA SOVRANITÀ NAZIONALE SVENDUTA DA UNA POLITICA VILE

di Massimo Colaiacomo

     Lo sfaldamento del discorso pubblico, come prevede il copione, si accentua sempre in prossimità delle scadenze elettorali. Da questo punto di vista non devono preoccupare gli squilli di guerra che si levano dal campo terremotato di Forza Italia. Dopo il voto Berlusconi farà le riforme con Matteo Renzi, riforme tanto confusamente importanti quanto politicamente inutili e irrilevanti. Qualche problema in più dovrebbe avere Bo, chiamato a gestire una annunciata vittoria politica e nell'impossibilità di ripetere il copione di un anno fa. Il comico genovese non può continuare a menare il can per l'aia in attesa di avere quella maggioranza assoluta che non avrà mai. Se non trova una risposta strategica nuova e credibile, anche per Grillo le cose sono destinate a complicarsi. Non si può annunciare impunemente la palingenesi della politica e della società e rinviare ogni volta l'appuntamento a una data imprecisata. Anche perché è difficile galvanizzare milioni di elettori e pretendere la loro mobilitazione permanente.
     È curioso, invece, assistere alla polemica che si sviluppa attorno alle rivelazioni dell'ex segretario americano al Tesoro sulla presunta congiura europea contro Berlusconi. L'ex premier ha colto la palla al balzo e ha trasformato la circostanza in un assist per la sua campagna elettorale. Con benefici, però, che saranno molto modesti e non certo per l'imperizia comunicativa di Berlusconi al quale tutti riconoscono un'abilità straordinaria. La ragione è molto più prosaica: quella stagione è chiusa da alcuni anni, almeno dal 2009, e quelli che vediamo scorrere sono i titoli di una coda ancora lunga. Ma Berlusconi appartiene al passato, volenti o nolenti.
     Nelle polemiche sul "complotto" ricorre sempre più spesso il richiamo alla "sovranità nazionale" violata, secondo un nazionalismo all'amatriciana, ora dalla Merkel ora dall'Europa ora addirittura da Napolitano. Riemerge anche in questo caso la viltà di un ceto politico inadeguato e indegno dell'Italia. La povertà intellettuale di politici improvvisati, sprovvisti del benché minimo senso dello Stato e ignari della storia della propria Nazione, è una coltre spessa che annebbia la vista a molti ma non a tutti gli italiani. Mai una volta che uno dei tanti leaderini che popolano il teatrino della politica si sia fermato a riflettere e a considerare se i primi e più accaniti attentatori alla sovranità nazionale non siano stati i governi che da vent'anni in qua non hanno mosso un dito per arginare il debito pubblico, vero e unico metro per misurare il livello di sovranità di una Nazione.
     La sovranità nazionale dell'Italia è stata oltraggiosamente ferita e svenduta da Berlusconi, Monti, Letta, Renzi che hanno lasciato e lasciano che l'Italia abbia i suoi 2.100 miliardi di euro di debito pubblico. Mai nessuno di loro che abbia considerato la possibilità di chiedere un sacrificio a tutti gli italiani, in nome dell'orgoglio nazionale, per abbattere di un quarto o di un terzo quel debito, di modificare i meccanismi generatori di spesa per impedire che si riformi. Se una Nazione è "il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che si è disposti a compiere per rimanere insieme" quale occasione migliore per ricostruire (e, forse, costruire per la prima volta) la Nazione e la Repubblica Italiana? Messe così le cose, è facile per Grillo mietere consensi quando chiede il voto per mandarli tutti a casa. Ma Grillo, si sa, ha la forza per mandare a casa un plotone di pigmei. Qualcun'altro, al suo posto, deve trovare la forza per rimettere in piedi una Nazione con le misure di finanza straordinaria necessarie, le sole che possono restituire la sovranità nazionale all'Italia.

martedì 13 maggio 2014

NESSUN CASO GEITHNER, RIMANE IL CASO ITALIA

di Massimo Colaiacomo

La ricostruzione dei fatti dell'estate-autunno 2011 da parte dell'ex segretario americano del Tesoro, Timothy Geithner, è una tempesta in un bicchier d'acqua. Rischia, invece, per il pricipio dell'eterogenesi dei fini, di sospingere con più decisione Forza Italia verso una deriva estremista e antieuropeista. Geithner non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già non si sapesse. Per certi versi, è più ricco di particolari il libro dell'ex premier spagnolo Zapatero.
Berlusconi non godeva di buona stampa in Europa, e non solo per la linea di politica economica alquanto ondivaga. Il personaggio, come sanno i suoi famigli e i suoi amici, ci ha messo del suo per costruire una vasta letteratura dominata dal gossip e amplificata dalla pruderie e dal moralismo bigotto dei suoi avversari. Calata la polvere su quella stagione, le questioni sul tappeto sono soltanto di natura politica. Berlusconi ha sottoscritto una serie di impegni gravosi con la Bce, con la Commissione europea e ha rifiutato il commissariamento della trojka impegnandosi a varare quelle riforme mai fatte negli anni in cui governava con un'ampia maggioranza.
In Forza Italia, piuttosto, dovrebbero porsi altre domande. Ad esempio: uscito di scena Berlusconi (o liquidato, secondo una vulgata eroica, dal complotto) i governi successivi che cosa hanno fatto di più e di diverso rispetto ai governi di Berlusconi? Poco, molto poco. È cresciuto il debito pubblico, e crescerà ancora nel 2015 fino al 134,9%, inferiore soltanto a quello della Grecia. La disoccupazione resta a livelli socialmente inaccettabili e, secondo il Def, passerà dal 12,8% di quest'anno al 12% soltanto nel 2017, con un recupero impercettibile di 0,8 punti in tre anni ben lontano dal ritorno sotto le due cifre vaticinato con spavalderia da Renzi già per il prossimo anno.
È difficile da accettare l'idea, ma nessuno esponente del ceto politico ha scelto di rivolgersi al Paese per raccontare la nuda verità: le condizioni di fondo dell'Italia si sono aggravate e i miglioramenti marginali fin qui registrati sono più l'effetto di una robusta recovery globale che non il risultato delle riforme strutturali. Il decreto sul lavoro che la Camera licenzia questa sera è una foglia di fico messa su una questione che era in cima alla lettera della Bce trasmessa il 5 agosto 2011 al premier Berlusconi. Non ci sono riforme incisive sul lavoro, né si annunciano di particolare efficacia i ritocchi nella Pubblica amministrazione in progrmma per il prossimo mese.
Il ceto politico, complice la campagna elettorale, non ha messo la testa su nessuno dei dossier decisivi per imprimere quella svolta da tutti invocata ma da nessuno mai desiderata. Dove le riforme strutturali sono state fatte (Spagna e Grecia) le piazze si sono riempite di folle schiumanti di rabbia. Riformare significa molte cose, alcune socialmente dolorose come lo sfoltimento dei ranghi della Pubblica amministrazione con il licenziamento del personale in esubero, evitando di ricorrere ai pre-pensionamenti. Significa privatizzare le circa 8000 aziende municipalizzate e, dunque, scontare anche in questo caso migliaia di dipendenti in esubero da licenziare. Significa rivedere il Sistema sanitario nazionale e prendere atto che una Nazione con 60 milioni di abitanti non può permettersi 20 sistemi sanitari quante sono le Regioni, con altrettanti apparati burocratici. Mario Monti prima, poi Enrico Letta e ora Matteo Renzi hanno appena sfiorato la copertina di questi dossier senza neppure aprirli.
Domanda: ci sarà mai un leader politico capace di riportare il Paese alla realtà delle cose? Il sospetto è che gli italiani siano più consapevoli e molto più avanti del Parlamento nella presa d'atto che è una Via Crucis quella che deve affrontare l'Italia se vuole ritrovare la via dello svilppo. Per fare operazioni simili, con costi sociali elevati, manca la materia prima: un ceto politico che non sia vile come quello visto all'opera in questi ultimi decenni e capace di caricare sulle proprie spalle la responsabilità di queste operazioni. Mariano Rajoy lo ha fatto in Spagna negli ultimi due anni e i risutlati si vedono. La sua riforma del lavoro con la flat tax che consente alle imprese di assumere giovani con un costo del lavoro lordo di 1250 euro mensili e un netto di 1000 euro per il lavoratore è un bell'esempio di come si fanno le riforme.
Se, invece, il ceto politico italiano pensa di porre le basi dello sviluppo acquistando dentiere per gli over 70 o aumentando le pensioni minime a 1000 euro, si torna alla domanda iniziale: contro Berlusconi ha complottato l'Europa, la Spectre, o vale per lui il celebre verso di Gregory Corso "America today is America greatest threat". Ecco, togliere America e scrivete Berlusconi o Renzi o 

 

martedì 6 maggio 2014

UN PAESE SENZA

(Omaggio ad Alberto Arbasino)

di Massimo Colaiacomo

Un Paese senza memoria
Un Paese senza storia
Un Paese senza passato
Un Paese senza esperienza
Un Paese senza grandezza
Un Paese senza dignità
Un Paese senza realtà
Un Paese senza motivazioni
Un Paese senza programmi
Un Paese senza progetti
Un Paese senza testa
Un Paese senza gambe
Un Paese senza conoscenze
Un Paese senza senso
Un Paese senza sapere
Un Paese senza sapersi vedere
Un Paese senza guardarsi
Un Paese senza capirsi
Un Paese senza avvenire?

Datato 1980, il libro di Alberto Arbasino uscì nella collana dei Saggi blu dell'editore Garzanti. "Un Paese senza" era un tuffo nell'antropologia becera e appassionata di un Paese perennially dismayed, costretto alla replica dei propri 'trip' e ubriacato dai contorsionismi di una vitalità che si vuole scambiare per vita sociale, ordinaria e tranquilla. La visionarietà profetica di Arbasino conteneva tutti i "Genny 'a carogna" in via di distillazione e attaccati come acari puntuti sulla superficie dell'Italia, essendo l'Italia un Paese di superficie e niente d'altro.
Le pareti della Repubblica, o quello che di esse è rimasto in piedi, hanno vacillato sotto la tracotanza e il vitalismo ribaldo di Genny 'a carogna e Stefano Folli, da analista acuto ma anche rabdomantico, vi ha letto la metafora della crisi morale che ha aggredito e debilitato il tessuto della nazione. Le reazioni della politica, tardive e stucchevolmente impettite, nel tentativo di circoscrivere lo sconcertante episodio dello Stadio Olimpico hanno finito per amplificarne la ferocia metaforica. È triste sentire un presidente del Consiglio esortare le società calcistiche ad accollarsi le spese per l'ordine pubblico dentro e intorno agli stadi. Tristissimo sentire dal presidente della Repubblica che le società non devono più trattare con gli ultrà, come se la soluzione al degrado della vita civile potesse venire dalla fine di ogni trattativa senza sapere che cosa fare degli ultrà, e perché ci sono gli ultrà e che cosa fanno nel tempo che precede l'esplosione della loro ferocia. Le istituzioni e la politica sono esattamente come Beppe Grillo le vede: impotenti di fronte alla realtà che non sanno più leggere né interpretare; ridicoli nei loro richiami impastati di retorica fritta e vuota. Sono il simulacro di una vaporosità inutile, una bolla d'aria che volteggia sul deserto di una società disintegrata e forse mai esistita e riconosciuta nella sua identità.
Che cos'è la Nazione? si chiedeva Ernest Renan, nel 1882, in una straordinaria lezione al Collège de France in cui esaminava gli antefatti che avevano portato la Francia alla catastrofe del 1870.  "La nazione è dunque - era la risposta di Renan - una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato , ma si riassume nel presente attraverso un fatto tngibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L'esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni".
Come si potrebbe attualizzare la lezione, se una lezione c'è, del grande storico conservatore francese per adattarla all'Italia? Ripetere i plebisciti del 1860? Bandita la parola Nazione, perché l'ortodossia storiografia del marxismo ha stabilito che essa è sinonimo e filiazione diretta del fascismo infischiandosene del nazionalismo democratico e risorgimentale di Giuseppe Mazzini, l'Italia si è degradata al rango di Paese. Il discorso pubblico non ha mai tollerato che quella parola, altrove pronunciata con orgoglio impettito, forse retorica, ma capace ancora di suscitare sentimenti negli animi meno meschini, venisse pronunciata nelle occasioni solenni e dunque rituali.

La deriva civile dell'Italia è racchiusa in quei profetici "senza" messi in colonna da Alberto Arbasino 34 anni fa. Lo smottamento della società è lo specchio fedele dell'afasia politica. Pensare di ricostruire il sentimento di una Nazione mettendo 80 euro in busta paga non è un'operazione ardimentosa ma soltanto un espediente meschino per garantire la sopravvivenza di un ceto politico vittima della propria ignavia e incapace di rivolgersi agli italiani per richiamare ciascuno alle proprie responsabilità e ai propri doveri. Renzi vuole riformare la società e cambiare verso, ma una società, qualsiasi società, prospera soltanto se può appoggiarsi sulle pareti solide di una Repubblica. Oggi l'Italia è "Un Paese senza Repubblica". 

domenica 4 maggio 2014

LE PAURE DI BERLUSCONI DIETRO IL RILANCIO DEL PRESIDENZIALISMO

di Massimo Colaiacomo
        Silvio Berlusconi ha rilanciato, dalle colonne del Corriere della Sera, la sua proposta di riforma in senso presidenzialista e nello stesso tempo ha assicurato che non verrà meno l'accordo trovato con Renzi sulle riforme istituzionali. In campagna elettorale ogni mezzo è buono per richiamare l'attenzione e, si spera, il consenso degli elettori. Né ai politici viene fatto l'esame di coerenza fra le affermazioni fatte e gli atti parlamentari compiuti o che annunciano di voler compiere. All'interno di questa cornice la propaganda elettorale deve convivere con la tattica politico-elettorale, con tutti i rischi e le contraddizioni del caso.
Per dire: Berlusconi ha confermato, nella lettera al Corriere, la sua lealtà all'accordo politico con Renzi. Il che significa che Forza Italia è pronta a votare la riforma che prevede la non elettività del Senato; la riforma elettorale in senso bipolare e infine la revisione del Titolo V, malamente riformato dal centrosinistra nel 2001.
Gli elettori, come si diceva, non sono chiamati a dare un voto alla coerenza dei loro leader politici. Però, nel caso di Berlusconi, potrebbero essere tentati di sanzionare l'incoerenza fra i propositi annunciati, gli atti politici compiuti e quelli che si annuncia di voler compiere. Si può essere d'accordo sulle riforme di Renzi, che conservano l'impianto parlamentarista, e, insieme, chiedere la riforma presidenzialista che quello schema rovescia radicalmente? Per spiegarsi meglio: un presidente eletto direttamente dal popolo presuppone un Parlamento forte e autorevole, con i singoli parlamentari eletti direttamente dal popolo e capaci  perciò di contrapporsi al Capo dello Stato o quanto meno di costituire quella balance of power senza la quale la riforma presidenzialista diventerebbe, come diceva Scalfari, un pasticcio di allodola e cavallo. Un presidente forte e autorevole non può rivolgersi a un Senato espressione di paesini e Comuni, non elettivo, e limitato nei suoi poteri legislativi.
La riforma presidenzialista proposta da Berlusconi non è incoerente in sé, lo è in rapporto agli atti politici fin qui compiuti dal suo proponente. La proposta di Berlusconi può avere due precisi significati: può essere tattica elettorale, quindi sparare più alto per distinguersi dal carro riformista guidato da Renzi; se invece avrà un significato strategico, vuol dire allora che Berlusconi si prepara, dopo il voto, ad affossare l'accordo con Renzi.
In sostanza, la lettera del presidente di Forza Italia al Corriere della Sera, in attesa di sapere se si articolerà in una proposta parlamentare, si presenta al momento come un diversivo, un espediente per rincuorare le truppe sfiduciate e riunirle attorno a una bandiera riconoscibile. Al momento quella proposta ha un valore puramente elettoralistico. Non è detto che sia ancora così dopo il 25 maggio. Berlusconi, insomma, prova a costruire una possibile via di fuga rispetto a un risultato che si preannuncia tutt'altro che entusiasmante. Dietro la bandiera del presidenzialismo Berlusconi cerca di nascondere le paure e i timori legati al risultato elettorale.