sabato 22 ottobre 2016

REFERENDUM, RENZI GETTA BENZINA SUL FUOCO DELL'EUROPA


di Massimo Colaiacomo


     La legge di stabilità e la legge di bilancio sono le ultime due leve utilizzate dal presidente del Consiglio per imprimere una sterzata ai sondaggi che danno pressoché alla pari il fronte del SÌ e quello del NO sul referendum costituzionale del 4 dicembre. Il che non comporta per Renzi l'accusa automatica di cavalcare una sorta di populismo finanziario per contenere il populismo grillino. Per la semplice ragione che fra le opposizioni che applaudono alle riserve di Bruxelles sulla finanziaria del governo non ci sono esattamente fior di europeisti. Non a caso, né Salvini né Grillo usano la sospensione di giudizio della Commissione come una clava politica sul premier. Sono pochi a poterlo fare: Stefano Parisi, nel centrodestra, e Massimo D'Alema con Pierluigi Bersani a sinistra. Loro possono invocare le perplessità dell'Unione sulla finanziaria italiana come prova della inaffidabilità dell'esecutivo agli occhi dell'Europa.
     Tutto ciò contribuisce a intricare la matassa referendaria e le polemiche che corrono fra Roma e Bruxelles delineano nuove linee di frattura nello schieramento politico italiano, con il premier che lancia il guanto della sfida pensando di catturare consensi fra le forze populiste, e gli europeisti del NO che pensano, al contrario, di catturare l'attenzione degli altri governi alle loro ragioni. Renzi ha alzato la posta nella sua sfida all'Europa e ha scelto deliberatamente di gettare benzina sul fuoco di un'Unione percorsa dal vento della divisione: si tratti delle relazioni con Putin o della ridistribuzione degli immigrati, dell'approccio sulla Brexit o del rapporto deficit-Pil, non c'è argomento o dossier su cui l'Europa non coltivi un acerbo cupio dissolvi.
     Non trova altra spiegazione l'irrigidimento improvviso del governo italiano, più netto quello di Renzi, più sfumato, perché investito direttamente del negoziato, quello del ministro dell'Economia.  L'Italia non ha la forza, da sola, per cambiare le regole (che, poi, significa cambiare i Trattati: lavoro annoso), Renzi ha scelto allora di forzarle, mettendo i partner di fronte a un aut-aut: o accettate la legge di stabilità oppure se un richiamo deve esserci, allora va indirizzato ai Paesi che si rifiutano di applicare le decisioni della Commissione in fatto di ridistribuzione degli immigrati e alla Germania, il cui avanzo commerciale, da alcuni anni, è superiore al 6% del PIL, il che è espressamente vietato dai Trattati.
     Dal commissario Moscovici al presidente Juncker, si è scelto di reagire in modo diplomatico. Non c'è stata una hit back, a conferma della comprensione di Bruxelles per la sfida referendaria che attende il governo italiano. La Commissione UE, come si sa, aspetta anche la primavera inoltrata del 2017 per spulciare le carte della finanza pubblica dei singoli Paesi e c'è dunque tempo per chiedere quell'aggiustamento dei conti che sarebbe delittuoso pretendere da Renzi in piena campagna referendaria. Conti da aggiustare in ogni caso, quale che sarà l'esito del voto del 4 dicembre. Perché in caso di vittoria del NO, sia che Renzi rimanga a palazzo Chigi sia che Mattarella, preso il boccino della crisi di governo, decida un'altra investitura, sempre con Bruxelles si dovranno fare i conti.
     Questo percorso è obbligato e prescinde dall'esito del referendum. Si può comprendere come dal fronte del NO arrivi con insistenza la richiesta di nuove elezioni in caso di vittoria al referendum. Arriva da quella parte maggioritaria di anti-europeisti che preferisce la sfida elettorale piuttosto che impegnarsi in un braccio di ferro con l'Europa senza aver capitalizzato il risultato elettorale. Si tratti di Grillo o di Salvini, quando sarà tolta la sordina alle richieste di Bruxelles tutti gli alibi sono destinati a cadere. Si comprende la fretta messa ancora oggi da Giorgia Meloni quando ricorda che "il referendum non si decide nel centrodestra ma è il centrodestra che si decide con il referendum". Per la leader di Fratelli d'Italia, come del resto per il leader della Lega, subito dopo una vittoria del NO ci sono soltanto le urne. Anche per Berlusconi e Parisi le elezioni sono un passaggio obbligato, ma non prima di aver riscritto la legge elettorale, obiettivo per il quale ci vuole un esecutivo, questo o un altro. Sembra una differenza di lana caprina, ma in politica, si sa, è sulle sfumature che si consumano fratture insanabili o si costruiscono alleanze impensabili.



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