venerdì 13 marzo 2020

L’ITALIA GUARDA IL DITO DI LAGARDE MA NON VEDE LA LUNA

di Massimo Colaiacomo

     Christine Lagarde poteva risparmiarsi certe affermazioni alquanto ruvide sullo spread la gestione della cui ampiezza non rientrerebbe, così ha fatto intendere, fra i compiti della Bce. Quest’affermazione, come tutti hanno potuto constatare, ha scatenato un generale panic selling sulle Borse mondiali ma ha spezzato le gambe in particolare a Piazza Affari caduta di oltre il 16%. In questi casi, come usa dire, sono stati “bruciati” centinaia di miliardi. Un’affermazione temeraria e infondata, poiché i miliardi bruciati riguardano eventualmente i venditori, che registrano perdite più o meno notevoli, non certo i compratori che si preparano a fare buoni affari.
    Se si guarda con più ragionevolezza e meno emotività all’affermazione di Lagarde non si può trascurare un aspetto importante che non è subito balzato all’attenzione degli osservatori. La presidente della Bce ha voluto richiamare gli Stati dell’eurozona a farsi carico delle responsabilità e delle decisioni conseguenti e ineluttabili per fronteggiare l’emergenza sanitaria da coronavirus e le sue imponderabili conseguenze economiche. Se c’è un leader politico a doversi sentire chiamato sul banco degli imputati dall’affermazione di Lagarde, questa è Angela Merkel. Non sappiamo come gli analisti hanno interpretato la sua affermazione di qualche giorno fa. La Germania è pronta a sostenere tutti gli sforzi economici necessari contro il coronavirus. Ecco il punto cruciale, il bersaglio contro cui erano indirizzate ieri le parole di Lagarde: la Germania “è pronta”. E l’Europa? E la Commissione europea?
     Lagarde non ha negato, come si è pensato in un primo momento, la disponibilità della Bce a sostenere i bilanci pubblici, in particolare di quei Paesi, come l’Italia, più colpiti dalla diffusione del contagio e dunque più vulnerabili nell’attività delle sue filiere produttive. No, la presidente della Bce ha voluto mettere la Commissione europea e i singoli Stati di fronte alle loro responsabilità politiche. Decidete voi, è stato in sostanza il suo messaggio, se e in che misura ritenete opportuno valicare i bastioni del deficit e del debito pubblico fissati nel Trattato di Maastricht. Una denuncia dell’inadeguatezza delle scelte politiche quale mai si era vista o sentita prima d’ora. Ma anche assolutamente in linea con il suo predecessore Draghi del quale Lagarde si limita a sviluppare le conseguenze del suo whatever it takes. Con una chiosa importante: la Bce è impegnata da anni nel ruolo di supplenza della politica comunitaria, ora è il momento che sia la politica ad assumersi la responsabilità di scelte e decisioni non più rinviabili. E il discorso tocca il cuore della politica tedesca, sorda a ogni richiamo di ridurre il suo surplus commerciale. E colpisce l’egoismo dei Paesi di Visegrad, riottosi, al pari dell’Europa del Nord, a superare le colonne d’Ercole dei parametri di Maastricht.
    Vista sotto questa luce, l’affermazione di Christine Lagarde può ragionevolmente iscriversi fra i combattenti per un’Europa davvero politica e non soltanto tenuta insieme dalle politiche monetarie della Bce.

mercoledì 26 febbraio 2020

LE DIFFICOLTÀ DI CONTE E LE DIFFICOLTÀ DI CHI VUOLE SOSTITUIRLO


di Massimo Colaiacomo


     L'arte della comunicazione è finita sul banco degli imputati come il responsabile principale del panico provocato dal coronavirus. Quell'arte, è il caso di ricordarlo, è stata maneggiata con troppa disinvoltura prima dall'opposizione, con Salvini che lamentava il ritardo nella chiusura dei voli dalla Cina o la mancanza di obbligatorietà della quarantena. Sulla scia di Salvini, si è subito inserito il governo con il presidente del Consiglio impegnato nell'ultimo week end con a drammatizzare al massimo il pericolo coronavirus con provvedimenti draconiani come l'isolamento di 60 mila persone e il fermo totale di ogni attività produttiva o ricreativa o ludica nei due focolai individuati per estenderla poi a tutto il Nord Italia.
     In questo bailamme il coronavirus è stato via via degradato a semplice pretesto per combattere l'ennesima battaglia politica tra il leader della Lega e il presidente del Consiglio, con l'aggiunta non irrilevante di Matteo Renzi a sostegno di Salvini. Quello che non è riuscito a fare con la prescrizione, votare contro il governo e, in successione, presentare una mozione di sfiducia al ministro Bonafede, Renzi pensa ora di riguadagnare cavalcando la palese inadeguatezza mostrata dal governo nella gestione dell'emergenza sanitaria.
     Salvini e Renzi appaiono ancora questa volta meno divisi sulla strategia di accerchiamento al presidente del Consiglio. Per la verità Conte ha fatto molto poco per non prestare il fianco alle critiche delle opposizioni. La gestione dell'emergenza coronavirus lo ha convinto ad accettare una sovraesposizione mediatica con la conseguenza, però, di mostrare in modo clamoroso le contraddizioni di un governo che ha drammatizzato l'allarme, prendendo misure micidiali per l'economia del Nord,  salvo dopo 48 ore fare marcia indietro e minimizzare i rischi sanitari dell'emergenza.
     Giuseppe Conte è chiamato ora a uno sforzo straordinario per arginare le conseguenze economiche di quanto è accaduto. Uno sforzo che presuppone, per riuscire, una maggioranza talmente coesa nel programma e nelle scelte da fare al punto da trasmettere al Paese e all'Europa l'immagine di un governo completamente diverso da quello fin qui visto. Si tratta di superare difficoltà non da poco, a cominciare dalla diffidenza suscitata nei governatori del Nord improvvidamente messi nel mirino dal presidente del Consiglio nel tentativo di scrollarsi da dosso ogni responsabilità. Si tratta, impresa ancora più complicata, di convincere l'Unione europea a concedere margini di flessibilità nei conti pubblici ben superiori a quelli pur previsti dalle attuali regole per situazioni di emergenza, come fu il sisma del 2016 e oggi il coronavirus.
     Conte sa di non disporre di una maggioranza simile. Sa che è passato il momento in cui avrebbe potuto dar vita a un gruppo di "responsabili" perché la corrosione accelerata della maggioranza ha reso oggi più plausibile uno scenario alternativo per il quale il voto dei "responsabili" avrebbe un peso politico maggiore e maggiore visibilità. Per questo motivo Forza Italia, e al suo interno Mara Carfagna, esclude ogni prospettiva di dialogo e di sostegno all'attuale esecutivo.
     Di altro segno, ma non meno impervie sono le difficoltà degli assalitori di Conte. È vero: ieri Salvini, dopo l'apripista Giorgetti, ha fatto balenare una disponibilità della Lega, meno vaga che in passato, per un governo di scopo a condizione "che ci sia una data per il voto". È di tutta evidenza che siamo in presenza di un atto politico vero, mascherato dietro un po' di tattica. Il governo di scopo per andare al voto nel 2021, è la richiesta di Salvini. Ma, si può obiettare, se il governo non avrà raggiunto lo scopo, si potrà andare ugualmente alle urne nel 2021? Lo scopo di un governo "senza Conte" è cambiato rispetto a un mese fa: non più la legge elettorale, il ridisegno dei collegi e poi tutti alle urne. No, lo scopo è oggi molto più impegnativo: fronteggiare una recessione già annunciata a fine 2019, ma resa oggi micidiale dopo l'emergenza coronavirus. Un governo di scopo potrebbe mai raddrizzare la barca e rimetterla sulla linea di galleggiamento in 12 mesi? Ecco la domanda, e il cruccio, che assale i sostenitori del governo di scopo. Dal quale sembra sottrarsi Giorgia Meloni, convinta che il logoramento di Salvini e di Forza Italia porterebbe nuovi consensi a Fratelli d'Italia. E lo stesso PD si dice indisponibile per ovvie ma non sempre plausibili ragioni. Perdere voti verso il M5s, che resterebbe fuori, significa per Zingaretti mandare in fumo quel poco fin qui fatto.
     Non sono poche le grane che devono affrontare i sostenitori del "fine Conti". Dopo l'emergenza coronavirus sembra farsi largo una prospettiva alla quale né Conte, né Salvini né Zingaretti avevano pensato: che la legislatura andrà fino alla scadenza naturale (Salvini si rassegni), ma che molto probabilmente non sarà Conte (si rassegni anche lui) a tagliare il traguardo.         

lunedì 29 luglio 2019

LA MOZIONE ANTI-TAV INSIDIA PER SALVINI
E CANTO DEL CIGNO PER M5S

Le strategie parlamentari utilizzate dalla maggioranza giallo-verde per non soccombere sotto il peso delle proprie contraddizioni sono in via di esaurimento. All’orizzonte, però, non si intravvede nessuna alternativa capace di ridare slancio alla legislatura o quanto meno di contenere gli effetti dirompenti generati dalla dialettica esasperata dentro la maggioranza. La mozione presentata al Senato dal M5s contro il Tav minaccia, a questo punto, se non di risolvere il prolungato braccio di ferro con la Lega quanto meno di incanalarlo su binario nuovo e diverso rispetto a quello visto dal 2 giugno 2018.
I boatos parlamentari raccontano infatti di un Salvini attivissimo sul piano della diplomazia parlamentare. Il ministro dell’Interno avrebbe sondato o fatto sondare i vertici di Forza Italia e del Pd per comprenderne l’orientamento di voto sulla mozione, partendo dall’ovvio presupposto di un voto contrario essendo entrambi partiti favorevoli al Tav. che cosa avrebbe cercato Salvini? Secondo alcuni, il leader leghista avrebbe argomentato con Forza Italia e con il Pd sull’utilità di un loro voto di astensione, che, è bene ricordare, al Senato equivale a un voto contrario e, di conseguenza, darebbe via libera alla mozione pentastellata con il risultato di bloccare nuovamente il Tav.
Tralasciando l’abnormità del risultato, avendo il Mit spedito la lettera con cui il governo ha dato via libera all’opera appena cinque giorni fa, rimane abbastanza fumoso lo scenario politico che potrebbe scaturire da una simile circostanza. Una spaccatura tanto clamorosa, con il M5s che tornerebbe padrone in Parlamento, e con il presidente Conte costretto a quel punto alle dimissioni, per andare in quale direzione? E perché mai Salvini dovrebbe puntare a tale esito non avendo la certezza del voto anticipato?
Viene da chiedersi come potrebbe il Pd accettare un accordo a tal punto suicida, in caso di voto anticipato, senza essersi prima assicurata la prosecuzione della legislatura con un altro governo “tecnico“. Questo potrebbe, effettivamente, essere il nocciolo di un’intesa: un governo tecnico che faccia la finanziaria per portare al voto il prossimo febbraio. Salvini avrebbe preso molti piccioni con una fava: altri dovrebbero accollarsi l’onere politico di una legge di stabilità quanto meno problematica; metterebbe un certo arco di tempo fra la crisi e il voto così da poter attaccare il M5s è sbiadire i mesi passati insieme al governo; avrebbe il tempo necessario per assistere alle ultime contorsioni di Forza Italia e imbarcarne quei naufraghi titolari di qualche gruzzolo di voti personali.
Un piano, insomma, troppo perfetto e tutto in discesa perché gli avversari si prestino docilmente alla sua realizzazione. Più verosimile appare invece l’intenzione di PD e Forza Italia di sminare il terreno parlamentare sul Tav, bocciando la mozione grillina e lasciando così al governo attuale peso di scrivere la legge di stabilità. Con il che lasciando a Salvini la decisione non facile di affossare il bilancio, il ministro Tria e il governo. A quel punto, per, il governo tecnico per la stesura del Bilancio diverrebbe una scelta obbligata, che Salvini dovrebbe subire e senza più la capacità di incidere. Una campagna elettorale urlata contro l’Europa sarebbe anche l’ultima spiaggia per il leader che volle incoronarsi re contro tutti.

lunedì 22 luglio 2019

I TORMENTI DEL PD, IL DILEMMA DI SALVINI E L'ARBITRO MATTARELLA


di Massimo Colaiacomo


     Può essere una riflessione ad alta voce, senza per questo anticipare un disegno politico, ma le parole al Corriere della Sera di Dario Franceschini, ministro nel governo di Matteo Renzi e oggi ben distante dall'ex leader, hanno cosparso quest'afosa mattinata di luglio di ipotesi politiche a una prima occhiata strampalate, salvo, a guardarle più da vicino, scoprire che sono assai meno bizzarre. Il succo del ragionamento dell'ex ministro è semplice: nessun governo Pd-M5s, però non è da trascurare la ricostituzione di un arco costituzionale, come era nella prima Repubblica, per stendere un cordone sanitario, allora attorno al Movimento sociale, oggi attorno a Matteo Salvini e alla Lega.
     Viene facile da commentare: se non è zuppa è pan bagnato. Franceschini muove da una considerazione che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire lo sfarinamento inarrestabile della maggioranza al punto che il governo è un sopravvissuto rispetto a un'alleanza finita già da qualche mese. La crisi politica non è stata fino a oggi formalizzata perché i suoi protagonisti non hanno ancora scritto un canovaccio sulla possibile uscita, e non potranno scriverlo fintanto che non avranno almeno intuito un punto di caduta. Per Salvini e Meloni, ma anche per Zingaretti e Berlusconi, la via d'uscita, almeno sulla carta, è semplice e lineare: si torna alle urne. Di fronte a uno schieramento così compatto per la fine della legislatura, che cosa è che frena Salvini dal provocarla?
     Come spesso succede in politica, le variabili finiscono per prevalere sul disegno dei leader e, di conseguenza, possono cambiare a tal punto il traguardo da tramutare un'agognata vittoria in una cocente sconfitta. Salvini e Meloni sono i due protagonisti che tutti i sondaggi danno con il vento in poppa, dunque sono loro più degli altri a poter trarre vantaggio dal voto anticipato. Però, Salvini ha assaporato il gusto amaro della vittoria alle europee, una vittoria dannunziamente "mutilata" perché se è vero che gli ha portato una dote elettorale cospicua, ha scoperto poi a sue spese che quei voti sono stati congelati nel capiente freezer dell'Unione europea. Inservibili a lui, inservibili a Ursula Von der Leyen, eletta invece con i voti decisivi dei grillini. Sconfitti sul piano elettorale, ma vincitori sul piano politico. Grazie alla regia di Giuseppe Conte e, forse, da remoto, di David Casaleggio.
     Perché sulle ambizioni e i progetti dei protagonisti, oggi dei litigi quotidiani domani, forse, di una crisi politica formalizzata, incombe il silenzio dell'arbitro istituzionale. Sergio Mattarella, si sa, non ama uscire dai solchi ben delimitati della Costituzione né ha mai tentato, almeno fino a oggi, di farsene un interprete creativo. Il suo scrupolo istituzionale ne ha fatto un custode fermo e determinato, limitandosi ogni volta a registrare la volontà politica dei singoli leader e a comporre il conseguente quadro di sintesi. Così è nato il governo giallo-verde, risultato di un "contratto" fra il partito vincitore, il M5s, e il terzo partito per numero di consensi. Un'alleanza, come Mattarella non si stancherà di ripetere ai suoi interlocutori, nata in Parlamento e grazie alla trattativa fra due partiti. L'unica in grado di esprimere una maggioranza in Parlamento, poiché il centrodestra, primo nei consensi elettorali, non disponeva della maggioranza alla Camera e al Senato. Né Salvini né Di Maio si erano presentati uniti agli elettori. Questo aspetto ha pesato e peserà naturalmente nelle valutazioni che farà il Quirinale il giorno in cui Salvini dovesse decidersi a far calare il sipario.
     Zingaretti ha ragione di dire che il PD è indisponibile a entrare in una nuova maggioranza, senza prima passare dalle urne. Non essendo chiaro il punto di caduta di un'eventuale crisi, come sbilanciarsi offrendo una disponibilità politica che potrebbe ritorcersi contro il PD in caso di voto anticipato? In questo caso, Zingaretti deve fronteggiare la fronda dei renziani, irriducibili nel rifiuto a qualsiasi intesa con il M5s. Un'opposizione tautologica, dal momento che lo stesso Zingaretti chiede le urne in caso di scioglimento. Evidentemente, sotto la chiarezza di ciò che brilla in superficie si muovono disegni più articolati, ancora inespressi. Di fronte ai tormenti del PD e al dilemma di Salvini se convenga una corsa elettorale, con tutte le incognite del Russigate, o un aggiornamento del "contratto" di governo, l'arbitro istituzionale non può che osservare. E registrare, quando si manifestano con chiarezza, le volontà dei singoli protagonisti. Come ha fatto, qualche giorno fa, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti recandosi al Quirinale per esprimere la sua indisponibilità a fare il Commissario europeo. Una scelta, a dire il vero, un po' singolare poiché Giorgetti avrebbe dovuto manifestare la sua volontà al presidente del Consiglio, unico titolare del potere di indicazione presso la UE. Ma Giorgetti ha preferito rivolgersi a Mattarella, considerato evidentemente un arbitro più vigile e distaccato rispetto alle sorti del governo.




lunedì 15 luglio 2019

DIETRO IL "CASO SAVOINI" C'È UNA POLITICA ESTERA SENZA DIREZIONE


di Massimo Colaiacomo

     Le indagini avviate dalla procura di Milano faranno il loro corso, fra colpi di scena più o meno risolutivi, e tutta l'attenzione mediatica sarà focalizzata sulla dimensione giudiziaria del "caso Savoini". Più indietro, e ancora parzialmente in ombra, rimane una questione forse più grave anche se di minore impatto sul piano della cronaca. Si sta parlando della politica estera del governo giallo-verde, dell'improvvisazione e delle acrobazie con cui si muove sulla scena europea e internazionale privo come è di una direzione. Prima l'accordo con la Cina, voluto e perseguito con abnegazione dal vice premier grillino Luigi Di Maio, poi la visita di Salvini a Washington e il semaforo verde dato ai principali dossier cari alla Casa Bianca (Tap in cima a tutti). Quindi l'incontro con Vladimir Putin, a Roma, lo scorso 4 luglio (en passant, è l'Independence Day, festa nazionale americana) con la rinnovata promessa di Salvini al leader russo di impegnarsi per rimuovere le sanzioni occidentali a Mosca. Frammezzo a questi "giri di valzer", l'unica direzione presa con una qualche determinazione è l'allentamento dell'ancoraggio dell'Italia all'Unione europea.
     Ai tempi della Triplice Alleanza (siamo nel 1880-1882) i governi italiani, nella fattispecie il governo Rudinì, strinsero accordi con Germania e l'Impero austro-ungarico in chiave difensiva rispetto alla Triplice Intesa (Russia, Francia, Inghilterra). Mentre l'Italia siglava la Triplice Alleanza, lo stesso governo firmava un protocollo segreto con il governo francese per la spartizione della Tunisia. Fu da comportamenti come questo che il cancelliere von Bulow potè definire la politica estera italiana come la politica di un Paese che amava fare "giri di valzer" con chiunque potesse tornare utile. Quell'Italia aveva ancora qualche giustificazione per tanta incoerenza: il Risorgimento si era concluso ma le terre irredente erano rimaste tali e dunque i governi italiani si ritenevano autorizzati a sposare i comportamenti più obliqui per raggiungere lo scopo.
     Più difficile, onestamente, trovare una qualche spiegazione alla politica estera del governo Conte. È vero che la politica estera italiana è stata spesso il terreno di scontro della politica interna (il caso più clamoroso fu Sigonella, con Spadolini e Craxi schierati su posizioni contrapposte pur essendo nello stesso governo), ma mai era successo che si mettesse in discussione l'appartenenza del Paese al sistema di alleanze internazionali che si identifica in qualche modo con la stessa nascita della Repubblica. Il lento e graduale disancoraggio dall'Europa (anche se è più retorico che concreto) sta spingendo l'Italia verso il largo ed espone il Paese alla mutevolezza dei rapporti fra le grandi potenze (Russia, Stati Uniti e Cina) senza peraltro avere gli strumenti diplomatici e la forza politica ed economica per reggere l'urto di interessi troppo sovrastanti.
     Se il "caso Savoini" può essere ragionevolmente riassorbito nella sua dimensione giudiziaria, sarà opportuno non sottovalutarne il suo significato sul piano della politica estera. Come ha scritto autorevolmente Stefano Folli (la Repubblica, lunedì 15 luglio) Salvini dovrà mostrare un sussulto di realismo e votare per l'elezione di Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione europea, senza curarsi troppo se i voti della Lega saranno aggiuntivi e non decisivi. È la sola carta di cui dispone il leader leghista per sottrarsi ai marosi delle tempeste internazionali. È evidente che un voto del genere costringe Salvini a una doppia capriola, perché si ritroverebbe a votare una candidata scelta da Macron e Merkel, cioè dai suoi nemici giurati. Questo è il prezzo necessario da pagare per essersi esposto in politica estera senza avere uno straccio di strategia, un canovaccio da seguire con il risultato di aver minato gravemente la credibilità residua dell'Italia.
     

sabato 29 giugno 2019

L'ITALIA BRANCOLA NEL BUIO SENZA UNA POLITICA "CENTRISTA"

Da Calenda a Carfagna e Toti, la confusione è grande: non si costruisce un partito "di centro" per concessione di qualcuno, neppure avrebbe senso un partito che nasce per allearsi a uno schieramento escludendo a priori ogni altra alleanza. La nascita di un partito moderato, liberale, di ispirazione cristiana costa fatica e tempo. E presuppone la ricostituzione di una tavola di valori e di un programma chiaramente riconoscibili e nettamente distinti da destra e sinistra


di Massimo Colaiacomo


     Angelo Panebianco ha spesso affrontato il tema del "grande vuoto" nella politica italiana, per riferirsi all'assenza ormai decennale di una politica "centrista" in grado di rappresentare e declinare sul piano legislativo gli interessi di quel vasto spettro sociale un tempo noto come "classe media", un ceto via via marginalizzato sul mercato del consenso politico. Non c'è molto da aggiungere alle analisi fin qui fatte e che individuano nella caduta delle protezioni sociali, conseguente a una globalizzazione ridotta a pura dimensione finanziaria, e nella relativizzazione dei valori sociali e dell'etica pubblica le cause principali della deriva politica e sociale che ha colpito l'Italia.
     È evidente come rispetto all'Europa, gli esiti della crisi finanziaria del 2008-2009 hanno avuto in Italia conseguenze molto peculiari o più radicali rispetto ad altri Paesi. È vero, il populismo sovranista si è affermato nei Paesi un tempo comunisti dell'Est Europa, ma le caratteristiche dei governi di Viktor Orban in Ungheria o di Andrej Babis nella Repubblica Ceca solo in minima parte sono sovrapponibili con quelle del governo Salvini-Di Maio. Diverse sono le storie nazionali e il rigurgito nazionalista in quella parte d'Europa dopo mezzo secolo di dominio comunista sovietico sono una reazione quasi naturale. Nessuno di loro è sfiorato dall'idea di uscire dall'Europa da cui lucrano rigogliosi aiuti finanziari. Le politiche di bilancio a Budapest o a Praga sono naturalmente rigoriste, così come sono rigide e ingenerose le loro politiche sociali.
     Il nazional-populismo italiano ha un retroterra del tutto diverso. Esso si è affermato come reazione alla predicazione decennale, ieri di Matteo Renzi, l'altro ieri di Silvio Berlusconi, che denunciava nell'Europa e nei parametri "stupidi" di Maastricht (copyright Romano Prodi) la causa unica ed esclusiva delle difficoltà italiane. Con l'aggiunta, tutta grillina, della corruzione endemica degli apparati pubblici italiani. Come dovrebbe orientarsi una forza "centrista", e quindi storicamente e culturalmente europeista, in un panorama dove dell'Europa restano soltanto le macerie?
     Come, per stare a fatti concreti, una forza di centro e cristianamente ispirata può rielaborare politiche di solidarietà sociale senza utilizzare solo la leva fiscale, ormai inutilizzabile? Attraverso la riaffermazione del principio di sussidiarietà, si diceva fino a qualche tempo fa. Ma questo principio, che vede nella responsabilità della persona il primo motore della vita sociale, non può davvero agire e fermentare senza un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale. Meno tasse e dunque un uso piò oculato dei servizi sociali, collettivi o individuali, che vanno erogati gratuitamente a tutti i cittadini disoccupati. Dove non riesce con le proprie forze il cittadino, arriva il Comune e via via fino all'inter vento dello Stato. Ma perché questa "catena della solidarietà" funzioni davvero e non sia inutilmente onerosa per il contribuente è altresì necessario immaginarla dotata di una burocrazia ridotta al minimo e priva di ogni potere di controllo ex ante.
     Una forza genuinamente centrista ed europeista guarda al futuro europeo dell'Italia ma volge anche lo sguardo indietro per indagare sulle radici di un debito pubblico che ha ipotecato la vita delle prossime generazioni. Quelle radici sono tutte ed esclusivamente italiane, e nulla hanno a che vedere con l'Europa o con il Trattato di Maastricht. La vocazione populista del ceto politico italiani è molto più antica della stagione berlusconiana e di quella più recente di Renzi. Essa affonda nella DC post-degasperiana perché quello di De Gasperi era un partito saldamente ancorato alla visione liberale dominante nei Partiti popolari europei, e in quello tedesco in particolare.
     Lo spazio per una simile forza politica è oggi occupato abusivamente da chi si è appropriato di un'identità non sua, magari sfruttando abilmente slogan e parole d'ordine che evocano una visione semplificata della realtà. Il successo di Salvini e anche di Di Maio è stato reso possibile dall'abilità mostrata nel semplificare la complessità della realtà. I problemi esplodono però quando con la stessa semplificazione si vorrebbe legiferare. In tal caso, la realtà complessa non entra nella camicia di forza del populismo.