giovedì 30 luglio 2015

GIUSTIZIALISTI ALL'ASSALTO, MA RENZI GIOCA UN'ALTRA PARTITA



di Massimo Colaiacomo

     Il rifiuto dell'Aula del Senato di concedere gli arresti chiesti dalla Procura di Trani per il senatore del Nuovo centrodestra Antonio Azzollini è una pagina importante nella vita del governo Renzi. Lo è per due motivi: perché i senatori hanno votato senza precisi ordini di scuderia, ribaltando il voto della Commissione favorevole all'arresto; perché il Pd ha visto allargare al suo interno la frattura fra le "minoranze" e la maggioranza renziana.
     Ora la vicenda può essere letta nel modo malizioso di molti commentatori come un testacoda del Pd sulla giustizia. Per sostenere, secondo il retroscenismo tanto cara all'informazione italiana, che Renzi non poteva mettere a rischio la sua maggioranza perdendo il sostegno del Ncd nel caso il Senato avesse concesso gli arresti. Le opposizioni hanno cavalcato fino in fondo la tesi dell'uso strumentale del voto, accusando il Pd di aver ceduto ai ricatti di Alfano. Se un foglio come il Giornale arriva ad accusare Renzi di essere nelle mani di Alfano, dopo che per mesi aveva sostenuto una tesi assolutamente opposta, significa che la prima strumentalizzazione del voto di ieri in Senato l'hanno fatta stamane i giornali.
     Non è difficile replicare a chi accusa il PD di essere diventato "garantista per necessità", che anche molti giustizialisti lo sono stati, o diventati, per necessità: Renzi per non ritrovarsi con una maggioranza in fibrillazione, i giustizialisti per lucrare voti e consensi a ogni tornata elettorale. Ha sorpreso che anche Forza Italia, per bocca del suo capogruppo alla Camera, si sia ritrovata su posizioni grilline. Vedere nel voto del Senato l'avvio di uno snaturamento del Pd, come sostiene Brunetta, e non invece l'apertura di un confronto serrato che forse per la prima volta ha visto soccombere le componenti giustizialiste, è un giudizio quanto meno affrettato, se non miope, sicuramente strumentale.
     Se i senatori, o almeno quelli fra di essi che hanno letto le carte processuali sulla vicenda Azzollini, hanno votato per tutelare la maggioranza contro l'evidenza giudiziaria, che cosa dire di quelli che, convinti del contrario, hanno votato a favore dell'arresto al solo scopo di creare ostacoli al governo? È più ragionevole ritenere che il PD abbia deciso di perdere il monopolio giustizialista cedendolo ai grillini, alla Lega e in genere alle componenti radicali del quadro politico. Vicende parlamentari come quella di ieri in Senato sono soltanto la conseguenza dell'assedio che le componenti di sinistra radicale hanno messo al governo pensando, di qui a qualche tempo, di avere forza sufficiente per farlo cadere.
     Giustizialismo, referendum sul jobs act e sul ddl scuola, sono altrettanti capitoli dello sforzo che la sinistra riconducibile genericamente al vecchio mondo comunista sta compiendo nel tentativo di riorganizzarsi. Manca però di una base sociale perché la sfida lanciata da Renzi è tutta concentrata sulle politiche economiche e fiscali e su questo terreno la vecchia sinistra balbetta, impotente a sfornare una ricetta alternativa che non sia l'urlo al cielo di un Varoufakis.
     Tangentopoli è alle spalle degli italiani, anche se rimangono vive le procedure e intatta la capacità della magistratura di condizionare l'agenda politica del Paese. È cambiato però il clima, ed è cambiato con l'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica. Tenere viva quella stagione quando è venuto meno il motore primo che l'aveva alimentata è un'impresa difficile per chiunque, si chiami Grillo o Salvini. Renzi gioca un'altra partita e punta tutte le sue carte sull'economia. Se vince, la giustizia diventerà un terreno di confronto "normale". Se perde, i suoi oppositori, sprovvisti di ricette alternative, dovranno aggrapparsi alla solita "questione morale", cioè a quanto di più immorale ci sia in una democrazia. 
     

giovedì 16 luglio 2015

TSIPRAS, LA METAMORFOSI DI UN TRIBUNO

     Il premier greco, diversamente dalle nostre previsioni, ha sorpreso tutti: ha accettato le dure ricette imposte dalla Bce, non si è dimesso, è andato in Parlamento a cercare una nuova maggioranza e l'ha trovata. Il suo obiettivo: salvare la Grecia, anche a costo di polverizzare il suo partito e rinnegare il programma con cui vinse le elezioni a gennaio. Un percorso opposto a quello di Berlusconi che non riuscì, nel novembre 2011, a trasformarsi da tribuno a leader preferendo passare la mano a Mario Monti e votando tutte le leggi che lui, Berlusconi, non era stato in grado di proporre


di Massimo Colaiacomo

     Alexis Tsipras non si è scansato davanti al toro della trojka: lo ha preso per le corna, lo ha portato nel Parlamento greco e lo ha domato con un voto a larga maggioranza. Per farlo ha spaccato il suo partito, si è messo alle spalle il trionfo elettorale di gennaio, ha calpestato l'esito del referendum che aveva bocciato il "piano Juncker" ed è salito, con piglio cesarista, sulla tolda di comando. Ha salutato l'esuberante e inconcludente ex ministro delle Finanze e ora si prepara ad affrontare una navigazione burrascosa, in Europa ma soprattutto nel suo Paese.
     Nella liturgia cara alla sinistra, Tsipras è un traditore. Ma nella liturgia europea, ormai largamente prevalente, Tsipras è un "miracolato", un ribelle redento sulla via di Bruxelles. Fra la notte di domenica 12 e l'alba di lunedì 13 luglio a Bruxelles si è compiuta una conversione il cui significato, prima ancora che politico, ha un valore iconologico. Mai prima di allora un premier greco era stato per tanto tempo e tanto intensamente a contatto con altri capi di governo di Stato e mai prima di quella notte aveva tanto a lungo conversato e litigato con un cancelliere tedesco. Quelle 17 ore trascorse in quella vasta comunità che una letteratura populace disprezza come euro-tecnocrazia hanno restituito alla Grecia un leader profondamente mutato nella sua visione delle cose non certo nel loro significato.
     Tsipras ha compreso che cosa significhi essere il leader di una nazione. Ha capito che un leader non è tale perché strappa applausi a folle osannanti o perché riporta successi elettorali. Tutte condizioni necessarie in democrazia e all'interno dei confini nazionali. Oggi essere leader, in un Paese europeo, presuppone la capacità di mettere gli interessi del proprio Paese davanti allo stesso Paese, e mettere una distanza, che può essere anche distorsiva, fra il senso della propria missione e il consenso degli elettori. Perché un leader che vive di sondaggi è destinato a essere travolto dai sondaggi, diversamente da chi esercita la statesmanship incurante del consenso.
     Dal consenso plebiscitario tributato da una piazza ribollente alla sfida di un potere da esercitare in condizioni di solitudine il passaggio non è facile per nessuno. Molti preferiscono evitarlo, come è accaduto a Silvio Berlusconi. Il quale, nel novembre 2011, evitò di prendere il toro per le corna, cioè sfidare il Parlamento con un programma di tagli alla spesa, e preferì passare la mano a Mario Monti per votare uno per uno tutti i provvedimenti presi da Monti. In quell'occasione è tramontata definitivamente ogni capacità di leadership di Berlusconi. Il tribuno non seppe trasformarsi nel leader che le circostanze richiedevano.
     È ovvio che la sfida davanti a Tsipras e alla Grecia è soltanto all'inizio. Il debito greco è da tutti riconosciuto unbearable e nessun soggetto politico o istituzionale può muovere un dito per ristrutturarlo in conto capitale. Si può riscadenzare, forse, si possono negoziare le condizioni dei tassi, ma un haircut è impossibile perché è un debito verso istituzioni (Bce e Fmi) non autorizzate dai loro regolamenti a effettuare prestiti monetari. La Grexit è un'opzione che non piace a nessuno, ma è anche una ipotesi non del tutto tramontata. Si sa come la pensa Schaüble, europeista indomabile e arcigno, che la preferisce a qualunque altra soluzione che dovesse protrarre all'infinito il dramma greco. Il dilemma davanti a cui si trova l'Europa è questo: come chiudere una volta per tutte la vicenda del debito greco. La strada diventa a questo punto ininfluente, perché l'unica cosa sicura è che l'eurozona rischia di saltare se si trascina nell'incertezza come ha fatto in questi sette anni di crisi.

lunedì 13 luglio 2015

IL SENSO DI SCHAÜBLE PER L'EUROPA

di Massimo Colaiacomo

     I commenti su chi ha vinto e chi ha perso occuperanno ancora per qualche giorno le pagine dei giornali per descrivere la conclusione del duro negoziato fra la Grecia e la Germania, con il contorno degli altri leader europei. Quando la polvere sarà calata, forse si comincerà a guardare oltre la competizione sportiva per cogliere altri profili di una pagina né brutta né bella, ma sicuramente decisiva, nella non breve storia dell'integrazione europea e, magari, si daranno valutazioni un po' diverse sull'opera dei singoli protagonisti. 
     La lunga notte di Bruxelles ha messo in luce un aspetto in particolare: in assenza di una comune visione politica, per non dire di politiche fiscali, sociali e di bilancio ancora tutta da costruire, che cosa può tenere insieme 19 Paesi che hanno nel portafoglio la stessa moneta? Niente altro che un elenco lungo e noioso di regole e pagine altrettanto puntigliose di Trattati. Tutto questo ripugna al sentimento comune, tanto è vero che grazie e contro quei Trattati e quelle regole sono sorti movimenti antieuropeisti e antieuro un po' ovunque, e per molti di loro ci sono stati cospicui consensi elettorali. L'Europa così come è - si sente ripetere - non piace più a nessuno. L'euro - è la litania più gettonata - è una gabbia al cui interno i deboli diventano emaciati e i forti si rinvigoriscono. E via di questo passo.
     Tutto ciò contiene una verità, superficiale quanto si vuole ma innegabile. Ma la verità della situazione non basta da sola a spiegare le cause, non meno vere, che hanno portato all'impasse attuale. Per esempio, si guardi alla questione dei debiti. Quanti Paesi hanno applicato, nei tempi e nei modi previsti dai Trattati, l'opera di risanamento dei conti pubblici da tutti riconosciuta cruciale, al momento di firmare quei Trattati oggi contestati, per avviare solide politiche di crescita? Il Patto di stabilità e crescita, per esempio, da tutti accettato e votato dai Parlamenti nazionali, spiega per filo e per segno come, passando per operazioni incisive di riduzione del debito, si arriva a favorire una crescita del Pil non inflazionistica. Tutti i governi hanno accettato quel Patto e le sue clausole, ma quanti lo hanno implementato nelle rispettive politiche nazionali? Pochi, e nemmeno la "virtuosa" Germania è esente da pecche anche se, va detto per verità di cronaca, è stato il primo e per molto tempo il solo Paese ad avviare per tempo profonde riforme economiche e sociali, nel 2002, con il governo del socialdemocratico Schröder. Riforme realizzate violando per due anni la soglia del deficit, su concessione degli altri partner. Di quelle riforme tutti hanno potuto vedere i risultati. Greci, spagnoli, irlandesi, portoghesi, italiani - insomma il gruppo dei cosiddetti Paesi Pigs - hanno lasciato che il tempo divorasse i buoni propositi annunciati ma sempre rimasti sulla carta. Alcuni di loro si sono mossi, con grave ritardo, quando già nell'opinione pubblica era diffusa la percezione che i sacrifici sarebbero stati evitati.
     È stato bruciato tempo prezioso per quei Paesi ma quel tempo d'inerzia dei governi è diventato la culla dei movimenti antieuropeisti e antieuro. Grillini, lepenisti, Podemos e leghisti hanno lucrato successi elettorali importanti e crescenti nel tempo, in misura direttamente proporzionale alle politiche di austerità, a mano a mano che queste uscivano timidamente dal limbo delle intenzioni per diventare con ancora maggiore timidezza atti di governo. Uno di questi movimenti antieuropeisti è diventato addirittura forza di governo ad Atene. Siryza e il suo leader Alexis Tsipras sono nati ad Atene non per colpa dell'Europa o di Angela Merkel, ma come risultato dell'ignavia dei governi ellenici. Si può dire che Siryza è il prodotto del fallimento dell'intera classe dirigente greca. Si dirà: ma allora perché movimenti antieuropeisti sono sorti anche in Finlandia, in Germania, in Belgio e in Olanda? Per le ragioni esattamente opposte a quelle di altri movimenti: il Nord Europa vive con sofferenza la presenza di Paesi visti come il regno della "pigrizia" e del "dolce far niente". Qui, nell'aria mediterranea, si vive come una provocazione insostenibile il rigore finanziario d'impronta teutonica.
     Al punto che nell'immaginario collettivo, con l'aiuto anche dei "media", si sono scambiati ruoli e personaggi del dramma greco. Wolfgang Schaüble, europeista della prima ora, animato da un'incrollabile fede nel comune destino del Continente, è uscito raffigurato soltanto come un ostinato ragioniere che difende l'arida verità dei numeri. Al suo posto, la flessibile cancelliera è apparsa come la mediatrice attenta alle differenze e preoccupata di salvare il salvabile. Pochi si sono chiesti se è più genuino un europeista preoccupato che tutti i Paesi siano messi nella condizione paritaria per cogliere le opportunità di un risanamento duro dei conti pubblici o, al contrario, chi ritiene che siano tollerabili concessioni e distinzioni, insomma un'Europa a geometria variabile, per risultati e tempistica.
     Schaüble ha riaffermato, con più vigore di chiunque altro, che l'adesione piena e convinta allo spirito dei Trattati insieme al loro rispetto puntiglioso, è la premessa in grado di accelerare tutte le politiche di convergenza senza le quali non ci sarà mai un'autentica unione politica. Mentre la cancelliera si batteva per salvaguardare la sua immagine in Germania, Schaüble si è battuto per salvare l'Europa e, un po', anche per salvare la Germania da se stessa.

domenica 12 luglio 2015

ORE DRAMMATICHE PER L'EUROPA, TSIPRAS DOVRÀ FARSI DA PARTE (COME BERLUSCONI NEL 2011)


di Massimo Colaiacomo

     La mediazione della Francia per tenere la Grecia dentro l'Euro grazie al piano scritto dai tecnici del governo di Parigi è dunque fallita lasciando sul terreno una scia di diffidenza e di crescente irritazione da parte di Berlino, ma non solo. Perché la leggenda di "Berlino inflessibile" e madre di ogni austerity è svanita nella nottata di ieri. Con Berlino ci sono, oltre ai tradizionali alleati come Finlandia e Olanda, anche i Paesi "giovani" dell'Unione come Slovacchia, Lettonia, Estonia per non dire della piccola Malta. Tutti loro hanno alzato le mani di fronte agli ultimi dati squadernati sul tavolo da Eurostar che fotografano il debito pubblico greco al 200% del Pil, dunque in drammatica crescita rispetto al 125% fotografato all'inizio di questa crisi, circa un mese fa.
     Il debito greco non può essere tagliato, e non per l'intransigenza di Berlino o per la malasorte, ma perché si tratta di un debito verso istituzioni finanziarie come l'Est (European stability Mechanism) la cui natura pubblica impedisce qualsiasi haircut sul debito. Può essere riscadenzato nei termini, alleggerito nei tassi di interesse, ma tagliarlo sul conto capitale è impossibile perché significherebbe per ogni governo dover chiedere altri soldi ai propri contribuenti.
     Che cosa, dunque, impedisce all'Europa di accogliere il piano Tsipras? È la fiducia, hanno risposto all'unisono i ministri finanziari di Malta, Slovacchia, Finlandia e, con toni più felpati, lo stesso ministro Padoan. La fiducia è sinonimo di credibilità, cioè dell'affidabilità di un leader politico a essere creduto negli impegni che assume. E Alexis Tsipras, nonostante sia accompagnato da un nuovo ministro delle Finanze in sostituzione dell'imprevedibile Varoufakis, in questo momento non gode più della fiducia dei partner europei. Questo significa che a Bruxelles, alla Bce come a Berlino aspettano di vedere non solo un nuovo ministro delle Finanze ma soprattutto un nuovo premier.
     Tsipras è stato eletto nel gennaio di quest'anno da una larga percentuale di greci, pur senza disporre in Parlamento della maggioranza assoluta dei seggi per avere la quale ha dovuto allearsi con un movimento neo-nazista come Alba Dorata. Cambiare il premier perché inaffidabile per gli europei è una ferita alla sovranità della Grecia. Questo sul piano formale. Sul piano della sostanza, però, le cose sono messe in modo diverso, molto diverso.
     La maggioranza comunista-neonazista che governa ad Atene ha violato tutte le regole alle quali si era sottoposto il precedente esecutivo guidato da Antonis Samaras. Quelle regole sul rispetto dei parametri di Maastricht, come quelle sul Memorandum per il rientro dal debito fanno parte della quota di sovranità ceduta liberamente dalla Grecia, come dagli altri Stati membri dell'eurozona, per partecipare alla moneta unica. La loro violazione configura una riappropriazione indebita di quote di sovranità cedute in cambio di benefici finanziari. Mantenere quei vantaggi e pretendere di violare le regole non è possibile, sul piano della logica formale e del buon senso.
     È un alibi fin troppo comodo rovesciare sulla wicked couple Merkel-Schaüble la responsabilità del fallimento greco. Perché le premesse delle ore drammatiche che vive la Grecia e con essa l'Europa sono state poste "liberamente" dagli elettori greci e da loro ribadite, sia pure in modo ingannevole, con il referendum. Questo nodo può essere sciolto soltanto da Alexis Tsipras: con le sue dimissioni rapide e la nomina di un nuovo esecutivo, magari tecnico, per il quale da Bruxelles si potrebbe richiamare in servizio Venizelos. Esattamente come accadde in Italia nel novembre 2011. La vicenda greca, che si è svolta in modi più lineari, e insieme più assurdi, è la prova, quattro anni dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, che non c'è stato nessun complotto se non quello impietoso dei numeri. Tsipras ha presentato un piano di riforme molto debole e troppo diluito nel tempo mentre le riforme attese da alcuni lustri andrebbero implementate nell'arco di pochi giorni. Tsipras non ha la forza politica per farlo ma, si può immaginare, non troverà neanche alleati nel centrodestra greco disposti a concedergli il loro appoggio senza pagare un prezzo. Il prezzo da pagare sono oggi le dimissioni di Tsipras.

sabato 11 luglio 2015

TSIPRAS SULLE ORME DI RENZI, CORSA VERSO IL CENTRO


di Massimo Colaiacomo


     Siryza, il partito di sinistra radicale, si è spaccato nella votazione notturna con cui i Parlamento greco ha autorizzato il governo di Alexis Tsipras a negoziare un terzo piano di aiutidi circa 74 miliardi di euro, offrendo in cambio tagli di spesa e nuove tasse per complessivi 12 miliardi di euro nel biennio 2015-2016. Se la Grecia resta nell'euro sarà stato grazie ai voti delle forze moderate che la notte scorsa hanno appoggiato il piano di Tsipras. È stato il primo, ma non unico passaggio drammatico nella politica greca. Difficile capire la conclusione della vicenda politica nazionale anche se non è da escludere a priori un collasso politico per l'attuale governo. Le possibili vie d'uscita non sono molte: in quel caso, o il presidente della Repubblica darà vita a un governo di larga coalizione oppure sciogliere il Parlamento per nuove elezioni.
     È un terremoto nella politica greca ed è un duro colpo alle schiere degli euroscettici e degli anti-euro in continua espansione, soprattutto nell'Europa mediterranea. Sarà interessante indagare un giorno sulle ragioni che hanno visto l'Europa meridionale diventare la culla dei populismi d'ogni specie, da Siryza alla Lega e a Fratelli d'Italia, da Forza Italia al Front National, da Podemos a Ciudadanos.
     La vicenda greca ha confermato una volta di più che è saltata la tradizionale linea di divisione destra-sinistra nelle politiche nazionali, sostituita dalla linea di frattura fra europeisti (critici, entusiasti o scettici, ma comunque europeisti) e antieuropeisti o antieuro. Tsipras ha dovuto sacrificare l'unità del suo partito per salvare la prospettiva europea del suo Paese. Matteo Renzi ha dovuto fare la stessa operazione politica in Italia per mandare in porto alcune riforme, pasticciate quanto si vuole, ma fatte per la prima volta dopo decenni di inconcludenza. Diversamente da Tsipras, Renzi ha perso "pezzi" del suo partito, il Pd, e deve sostituirli in corsa con "pezzi" di altri partiti, soprattutto di Forza Italia, ex-grillini ed ex-leghisti. Il centrodestra greco, diversamente da quello italiano, nella sua componente europeista è rimasto unito come dimostra il voto compatto dei parlamentari di Nea Democratia e di To Potami al piano di Tsipras e l'isolamento in cui si ritrovano i neo-nazisti di Alba Dorata. In Italia, invece, il centrodestra è dominato dagli antieuro duri della Lega e di Fratelli d'Italia mentre le forze residue di Forza Italia marciano compatte verso l'irrilevanza non essendo più quel partito né carne né pesce.
     Dalla vicenda greca si possono ricavare alcune insegnamenti anche per l'Italia. Il primo è che senza le forze centriste e moderate ogni progetto di riforma dell'Unione è destinato ad arenarsi nelle secche di un dibattito ideologico. Il secondo insegnamento è che i margini di manovra delle forze moderate sono maggiori quando esse non si lasciano risucchiare nel vortice del populismo, come sembra essere il caso di Forza Italia la cui immagine è stata resa evanescente dall'assedio dell'antieuropeismo brutale di Matteo Salvini. Se qualche parlamentare di Forza Italia si esprime con vigore è per scavalcare Salvini nell'antieuropeismo, come è il caso del capogruppo Renato Brunetta.
     Ad aggravare la crisi del partito che per vent'anni è stato l'autobiografia della Nazione, c'è l'idiosincrasia fra le affermazioni e i comportamenti concreti dei suoi parlamentari. Forza Italia vota con il PPE a Strasburgo, ma si corregge subito in Italia per non urtare Matteo Salvini. Tanta ambiguità è la conferma dell'inesistenza di ogni linea politica. Forza Italia non è finita per le capacità di Matteo Salvini (tutte da verificare, a parte la forza dei suoi decibel): è finita come finisce ogni partito politico, per la semplice ragione che il suo leader non ha più voglia di combattere e i suoi dirigenti ne hanno ancora meno, preoccupati come sono di conservare le loro posizioni di rendita. C'è un grande spazio elettorale perché Matteo Renzi possa giocare la partita delle riforme con una certa disinvoltura, a dispetto dell'opposizione interna tanto agguerrita quanto inconcludente. 

venerdì 10 luglio 2015

TSIPRAS FA UN BAGNO DI REALTÀ E I POPULISTI EUROPEI RESTANO ORFANI


di Massimo Colaiacomo

     Non è dato sapere, nel pomeriggio di venerdì 10 luglio, quale esito avrà la vicenda greca anche se gli sviluppi più recenti lasciano intravvedere un qualche accomodamento con l'Europa dopo la presentazione del piano di riforme con cui Alexis Tsipras impone sacrifici per circa 13 miliardi nel biennio 2015-2016. Si apre invece un altro capitolo, imprevedibile nei suoi sviluppi, sul piano interno alla Grecia. L'ala sinistra di Siryza ha già fatto sapere che il piano di Tsipras è inaccettabile, con il che  ha messo un punto interrogativo sul voto del Parlamento. Tsipras si prepara a un vasto rimpasto della maggioranza, lasciato intravvedere già all'indomani del referendum quando ha convocato una riunione con i partiti di centro Nea Democratia e To Potami.
     Che cosa ha spinto il controverso tribuno, diventato in poche settimane il leader dei populisti europei, a una virata tanto impegnativa quanto politicamente mortificante? Che cosa lo ha indotto, dopo aver vinto il referendum con cui ha convinto i greci a respingere il piano di Juncker, a presentarne uno dai costi sociali se possibile ancora più rilevanti? Analisi troppo sofisticate non portano lontano, e la prima risposta, la più istintiva, dice: il desiderio di conservare il potere, anche a costo di rimetterci la faccia.
     La vicenda greca ha provocato onde d'urto all'interno della politica dei Paesi mediterranei ma pare che non abbia smosso più di tanto le posizioni degli altri partner europei, tanto dell'eurozona quanto dell'Unione. La favola del popolo che si è espresso liberamente così esaltando la democrazia diretta si è dissolta con la velocità della luce e il maremoto populista che minacciava di squassare le già sfibrate istituzioni europee si è trasformato all'improvviso in un'onda di ritorno che colpisce Tsipras e i suoi imitatori italiani, francesi o spagnoli.
     In gioco non c'è soltanto il futuro dell'Unione. Perché la vicenda greca, e le modalità con cui Tsipras l'ha condotta fino al referendum, avevano messo in gioco il destino dei governi spagnolo, portoghese, irlandese e, perché no, anche quello italiano, cioè quegli esecutivi che le regole e i Trattati li hanno rispettati pagando anche un prezzo elettorale. Se Tsipras fosse riuscito a estorcere condizioni di favore sempre negate ad altri, l'Europa sarebbe crollata sulle sue gambe e Mariano Rajoy doveva prepararsi a un bagno elettorale annunciato in novembre. La prospettiva non appare ancora ribaltata, ma Rajoy può ragionevolmente pensare di impostare la sua campagna elettorale senza più lo spauracchio di una Grecia vincitrice al tavolo europeo
     Colpisce in tutto questo il vuoto politico di Forza Italia. Un partito che esiste soltanto quando si tratta di difendere il boss dai suoi guai giudiziari ma per il resto completamente vuoto di idee, reso acefalo dalla paura del populismo aggressivo di Matteo Salvini che, di fatto, scrive lo spartito per tutto il centrodestra italiano. La posizione berlusconiana "né con Tsipras né con l'Europa" ricorda i neutralisti che non si schierarono sulla partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale. Una posizione perdente allora, e addirittura mortale da reggere oggi in Europa. La filastrocca del capogruppo Brunetta, addirittura propenso a tenere un referendum, su Tsipras che avrebbe messo il re a nudo, sull'Europa da riformare e da rifondare, è intellettualmente debole e politicamente catastrofica. Forza Italia è di fatto isolata nella famiglia dei Popolari europei al cui interno sostiene una posizione minoritaria, senza capo né coda, ma soprattutto viene a trovarsi spiazzata rispetto a un altro leader del popolassimo, quel Mariano Rajoy attorno al quale Angela Merkel vuole costruire un fortilizio in vista del voto di novembre.
     Come si esprimerà Forza Italia sulle elezioni spagnole? Sosterrà Rajoy, che le regole europee le ha accettate con tutte le loro conseguenze, per trovarsi oggi stretto fra una ripresa vigorosa e l'assedio di Podemos, oppure sosterrà i populisti di Podemos che vogliono riscrivere i Trattati e finirla con le regole di Maastricht? Se provate a girare questa domanda a qualche esponente autorevole di Forza Italia la risposta sarà "né, né". Tipica di un partito che non ha più nulla da dire.


domenica 5 luglio 2015

IL CENTRODESTRA ESISTE GRAZIE A SALVINI, MA GRAZIE A SALVINI NON SARÀ PIÙ FORZA DI GOVERNO

di Massimo Colaiacomo

     "Nec tecum nec sine te vivere possum": può sembrare una bestemmia, ma il verso di Ovidio, riferito a una donna vagheggiata più che reale, si adatta alla perfezione per descrivere lo stato dei rapporti tra Silvio Berlusconi (non Forza Italia, poiché il partito non esiste più) e lo scalpitante leader leghista Matteo Salvini. "Né con te né senza di te posso vivere" è infatti il dilemma in cui si macerano Berlusconi e i suoi consiglieri costretti a subire l'iniziativa di un partito ferocemente antieuropeista e antieuro, con qualche sfumatura di razzismo e, soprattutto, anti-liberista e localista. Esattamente l'opposto di quello che Berlusconi immaginava, vent'anni fa, dovesse essere Forza Italia.
     Da quello che rimane di Forza Italia non si accenna nessuna reazione all'offensiva politica di Salvini. Come quel pugile sul punto di soccombere alla potenza e all'agilità superiore dell'avversario, Berlusconi cerca di "abbracciare" Salvini per bloccarne l'azione. Ma lo fa con scarsa convinzione e forse senza più l'energia di un tempo. La verità crudele è che lontano dal governo ormai da quattro anni, Forza Italia ha registrato un crollo verticale nei consensi come riflesso non soltanto della lontananza dal potere ma soprattutto come risultato di una mancata elaborazione di cultura politica.
     Il punto debole, taciuto non si sa se per comodità o per cecità, è infatti il vuoto di elaborazione culturale e, di conseguenza, la scomparsa di ogni orizzonte programmatico dai radar di Forza Italia. Berlusconi cerca, come può, di supplire a questo vuoto immaginando di riunire 100 bravi ragazzi a Villa Germetto e di porre così le fondamenta di un rilancio. Iniziative simili, però, sono utili soltanto per nascondere il vuoto politico in cui sprofonda il partito. Sotto un certo aspetto, Berlusconi conferma proprio in questo modo di essere "vecchio" nelle idee perché vent'anni dopo continua a credere che i "volti nuovi" siano l'unico, possibile rimedio a una crisi politica del suo partito che imporrebbe, per profondità e dimensioni, ben altri scatti di fantasia e ben altre iniziative.
     Forza Italia è un partito (?) diventato agnostico sui grandi temi, si tratti del futuro dell'Europa o dell'euro. Non che avesse prima una grande fede, ma dopo lo smottamento elettorale a favore della Lega ha ulteriormente accentuato la sua diffidenza sia verso l'Europa sia verso l'euro. Da un anno a questa parte, Berlusconi si trova nell'insolito ruolo di inseguitore di Salvini sperando così di ridurre l'emorragia elettorale mentre nella realtà può solo accentuarla. Il punto vero è che se il centrodestra ha un volto riconoscibile sulla scena politica è solo perché Salvini "ci mette la faccia", come si dice nel nuovo politichese fatto di luoghi comuni (più beceri dei luoghi comuni della cosiddetta prima Repubblica). Ma proprio il volto di Salvini è la garanzia che il centrodestra non toccherà più palla nel governo dell'Italia.
     Se a Bruxelles siedono "criminali usurai" secondo Salvini e Giorgia Meloni, o "terroristi" della finanza secondo Yanis Varoufakis, Berlusconi non può replicare per due ragioni: perché nel suo intimo è convinto che in parte sia così; poi, perché difendere Bruxelles o la costruzione europea significa per lui difendere l'odiata Angela Merkel. La personalizzazione della politica, si sa, è una caratteristica di Berlusconi ma è stato ed è anche il limite più vistoso della sua azione "impolitica" o "anti-politica". L'estraneità di Berlusconi rispetto alle élites politiche europee è tutta qui: è nella caratura populista del personaggio, preoccupato solo dei sondaggi, e lontano mille miglia dalla forza di carattere di un Rajoy o di un Cameron che dei sondaggi se ne infischiano perché sanno che quelle cifre fotografano gli umori delle persone e gli umori durano lo spazio d'un mattino. I leader sono tali perché hanno la forza, nel medio periodo, di cambiare le tendenze dei sondaggi non perché fanno quello che i cittadini si aspettano che facciano ma perché hanno l'abilità di convincere i cittadini che è bene e saggio quello che stanno già facendo. Ecco la differenza fra un leader democratico e un populista. Il centrodestra oggi fa capo al populista Salvini, ma se vuole tornare al governo dell'Italia deve trovare un leader coraggioso.

venerdì 3 luglio 2015

GRECIA, COMUNQUE FINIRÀ L'EUROPA NON SARÀ PIÙ LA STESSA

di Massimo Colaiacomo


     Le tifoserie pro e anti-Tsipras vivono nell'attesa spasmodica del voto. Il referendum voluto dal premier ellenico è destinato a cambiare, e a cambiare in profondità, le logiche che hanno fin qui tenuto insieme i 28 Stati dell'Unione. Il referendum greco è uno spartiacque fra un presente che va stretto a molti Stati, in sofferenza per rispettare vincoli e parametri considerati, molto a torto e poco a ragione, intollerabili, e un futuro che nessuno è fin qui riuscito a immaginare se non come vaga propensione a una più forte crescita per riassorbire più rapidamente la disoccupazione accumulata in questi anni di crisi e di deflazione.
     Naturalmente questo è solo un aspetto della partita politica complessiva che si gioca in Grecia ma il cui significato investe tutta l'Europa e, in particolare, quei Paesi come Spagna e Portogallo, che, a differenza della Grecia, hanno somministrato le ricette dolorose della trojka economica e ne hanno ricavato alcuni benefici economici anche se non subito tradotti in benefici sociali. La vittoria del sì al piano di rientro del debito avrebbe un valore politico notevole, perché significa che il sentimento di appartenenza all'Europa va oltre la moneta che si ha nel portafoglio ma coincide piuttosto con la consapevolezza di avere un destino comune. Sotto un altro aspetti il "sì" dei greci avrebbe un alto significato simbolico per un Paese come la Spagna, chiamato alle urne in novembre, perché il premier Mariano Rajoy si vedrebbe confortato nelle sue scelte politiche che gli sono costate fino a oggi diversi punti percentuali nel consenso elettorale. Accettare il piano dei creditori da parte dei greci, consente a Rajoy di avere una carta formidabile contro la Syriza spagnola, cioè il movimento di Podemos, trionfatore alle ultime elezioni amministrative.
     La vittoria di Tsipras, e dunque del "no", avrebbe implicazioni significative sul piano interno e su quello internazionale. Anche a voler tralasciare gli studi sfornati in queste ore dalle agenzie di rating sui costi che questo esito avrebbe per i singoli Paesi europei, la vittoria del "no" avrà come prima conseguenza un irrigidimento dei creditori verso Atene. Per Fondo monetario internazionale, Bce e Commissione economica verrebbe meno il terreno per un accordo. Draghi, in particolare, come dovrà regolari con il quantitative easing e con il flusso di liquidità non ancora bloccato verso le banche elleniche? Come continuare a tenere in vita artificiale la Grecia, dopo che il default tecnico è stato già accettato sui mercati, in assenza di un piano di riforme strutturali irrinunciabili?
     Sono molte le incognite legate a una vittoria del "no", ma poche sono le certezze legate alla vittoria del "sì". L'idea che l'Europa dovrà rimettere mano ampiamente ai trattati che l'hanno fin qui costruita e tenuta in piedi si è fatta strada in tutti i governi, a cominciare da quello tedesco. Il "piano dei cinque presidenti" (Jean-Claude Juncker della Commissione europea; Mario Draghi della Bce; Jeroen Dijsselboem dell'Eurogruppo; Donald Tusk dell'Unione europea; Martin Schulz del Parlamento europeo) prevede una forte accelerazione nelle politiche di integrazione ma, soprattutto, indica un obiettivo ambizioso: avere, entro il 2025, un ministro del Tesoro europeo.
     Questo piano è stato reso noto soltanto pochi giorni fa, quando le trattative fra Grecia e Ue segnavano il passo e lasciavano intravvedere un precipitare della situazione. È il colpo d'ala necessario per ridare una prospettiva all'Europa. Se sarà sufficiente è presto per dirlo. Indicare un obiettivo, e i tempi per raggiungerlo, ha però un grande significato politico inequivocabile: le politiche di convergenza messe in atto nei singoli Paesi devono accelerare e i parametri, buoni o cattivi che siano, vanno rispettati o comunque resi produttivi entro il 2025. Comunque finirà il referendum, l'Europa dopo il 5 luglio 2015 non potrà più essere la stessa vista fino a oggi.
     La politica italiana, il centrodestra in particolare, ha fino a oggi vacillato rispetto alla vicenda greca. A parte la sinistra Pd e quelli che ne sono usciti, il centrodestra ha riservato le sorprese maggiori in fatto di antieuropeismo, almeno fino alla parziale e tardiva correzione imposta da Berlusconi con la lettera al "Giornale". L'idea di essere trainati dall'antieuropeismo di Matteo Salvini, fino allo scontro con il PPE, di cui pure Forza Italia fa parte, ha allarmato Berlusconi anche se non ha cambiato di una virgola la posizione del segretario leghista il quale come massima concessione al suo alleato ha scelto di stare zitto per qualche ora, almeno fino al risultato elettorale. Una vittoria del "no" verrebbe salutata da Salvini con il giusto entusiasmo di chi sa possibile, da quel momento, di poter dominare incontrastato sulle truppe sparse di Forza Italia. La vittoria del "sì" al referendum porterà, al contrario, a una inevitabile resa dei conti nel centrodestra fra i populismi variamente denominati (Lega, Fratelli d'Italia e parte di Forza Italia) e i riformisti di impronta liberale o conservatrice. Ma consentirebbe, finalmente, di capire che cosa è il centrodestra italiano e se ha ancora qualche chance di tornare a essere forza di governo.