domenica 21 ottobre 2018

DI MAIO E SALVINI HANNO SCELTO LA LINEA DI GALLEGGIAMENTO, FINCHÉ TIENE


di Massimo Colaiacomo


     Era scontato un compromesso politico Lega-M5S sulla scivolosa questione del condono fiscale. Messa da parte la questione sull'origine del controverso comma in cui si prevedeva di scusare anche i soldi "residenti" all'estero, si trattava di capire chi è che dovesse fare un passo indietro. In apparenza è stato Salvini, nella sostanza le cose sono rimaste immutate anche se, sul piano contabile, defalcare una quota di condono lascerà evidentemente un buco nei conti pubblici con evidente aggravio per le stime del deficit. In fondo, eliminare il controverso comma sulla non punibilità dell'evasione fiscale, ha consentito a Di Maio di salvare la bandiera della legalità, e a Salvini di portare a casa un condono di tipo per così dire "sovranista". Un accordo che accontenta le esigenze dei due vice-premier ma nello stesso tempo semina un velo di diffidenza nei rapporti personali. Di Maio e Salvini saranno resi più guardinghi, ma non al punto da mettere in discussione la maggioranza e il governo.
     Né la Lega né il M5s hanno un interesse immediato a provocare una crisi che li vedrebbe sul banco degli imputati perché verrebbero colti nel mezzo di un autentico percorso di guerra sulla manovra economica: il giudizio della Commissione europea; il re-rating di Fitch; soprattutto, però, il giudizio dei mercati finanziari. Tre occasioni per altrettanti inciampi. È dubbia l'idea che una bocciatura su tutto il fronte, consentirebbe a Lega e M5s di presentarsi alle europee nella veste di garanti della sovranità nazionale perché per la primavera del 2019 gli elettori avranno sperimentato gli effetti dello spread nella vita quotidiana. E all'elettore poco importa se la rata più alta del mutuo sia responsabilità della UE o di Moody's, perché al governo dell'italia ci sono Salvini e Di Maio e difficilmente la narrazione di un'Europa "mare matrigna" sarà sufficiente, da qui a maggio, a trattenere o addirittura accrescere il consenso elettorale dei popul-sovranisti.
     Perché allora le opposizioni parlamentari sono o appaiono così inadeguate, sicuramente deboli, prive di proposte alternative? Una ragione della debolezza non è soltanto nei numeri, perché la maggioranza giallo-verde non ha alternative in Parlamento. C'è una ragione più profonda che spiega la debolezza delle opposizioni e la forza della maggioranza che va oltre gli stessi numeri parlamentari: si tratta della speranza, al momento mal riposta, di FI da una parte e del PD dall'altra di assistere all'improvvisa implosione della maggioranza e quindi alla possibilità, per il Pd di aprire il dialogo con il M5s e, per Forza Italia di riaccasarsi con la Lega di Salvini. Si tratta di due illusioni e Salvini e Di Maio hanno tutto l'interesse che Forza Italia e PD le coltivino perché questo in realtà cementa ancora di più l'alleanza giallo-verde.
     C'è, in tutto questo, l'eccezione di Matteo Renzi. Al comizio conclusivo della Leopolda, l'ex premier ha confermato e sviluppato la strategia di un'opposizione senza quartiere alla maggioranza in carica. Soprattutto, ha rivendicato il merito di aver impedito ogni confronto con il M5s verso il quale ha ribadito il "non possumus" del PD. Nella logica renziana, l'opposizione al governo non ammette distinzioni fra M5s e Lega: due partiti populisti, ugualmente pericolosi, che porteranno l'Italia contro il muro. Renzi blocca ancora il confronto interno al PD ed è pronto a mettersi di traverso contro ogni suggestione di apertura al M5s. La sua polemica, neanche troppo velata, verso Dario Franceschini e quanti con lui confidano nell'apertura di un confronto con i grillini è la conferma del peso sempre notevole che Renzi ha tutt'ora nel PD. Per non perdere il quale, l'ex premier ha escogitato la creazione di "comitati civici", una sorta di evangelizzatori elettorali che formandosi fuori dal PD avrebbero più credibilità presso gli elettori. Renzi non si ritiene ancora fuori gioco e ha carte importanti a giocare nella partita surreale del congresso, da tenere all'inizio del prossimo anno secondo una parte del gruppo dirigente ma se possibile anche da rinviare, nella logica renziana. Mettere più tempo fra la sconfitta del 4 marzo e la battaglia per la segreteria, passano magari attraverso un risultato non strabiliante di Lega e M5s alle europee, sarebbe ottimo fieno da mettere in cascina per Renzi.
      
            

lunedì 1 ottobre 2018

DI MAIO E SALVINI OTTENGONO LO SCONTRO A LUNGO CERCATO CON L'EUROPA

L'egoismo della politica, le regole dei mercati, le attese dei cittadini: è un'equazione difficile quella che devono risolvere Commissione europea, BCE e Angela Merkel. Ma la soluzione si trova soltanto a Roma ed è tutta nelle mani di Salvini e Di Maio.

di Massimo Colaiacomo

     L'Europa non può concedere "trattamenti speciali" all'Italia perché altri Paesi potrebbero reclamarli e questo significherebbe la fine dell'euro. Sono parole come pietre quelle pronunciate in Germania da Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea, e riportate dall'ANSA con un lancio delle 21:18. Parole che non sembrano suscitare preoccupazione nel governo italiano se è vero che neanche mezz'ora e da palazzo Chigi filtra una replica, affidata alle solite "fonti", solo in apparenza conciliante ma in realtà dura e urticante perché vi si annuncia che il governo "frutto del voto democratico, è impegnato e determinato ad andare avanti nella direzione della manovra impostata". Una giornata avviata con il fiato sospeso per la reazione dei mercati, si è chiusa in un clima di scontro quale non si era mai visto fra gli organismi comunitari e un Paese membro dell'UE.
       La drammaticità del momento si coglie in due eventi: nel pomeriggio, il ministro Tria rientra da Lussemburgo, al termine del vertice dei ministri delle Finanze, e fa sapere che non parteciperà domani all'Ecofin, un vertice che si occuperà di un primo esame del Documento di economia e finanza italiani. In serata, la nota "ufficiosa" con cui palazzo Chigi replica ai moniti di Juncker non ha il consueto stile diplomatico con cui si è fin qui affidato al premier Conte il compito di smussare e assorbire le asprezze dialettiche nel rapporto con l'Europa.
     La sensazione palpabile è di un governo che ha deciso di tagliarsi i ponti alle spalle e andare allo scontro in campo aperto con l'Europa, incurante dei danni incalcolabili che possono derivare all'Italia ma altresì convinto dei cospicui vantaggi elettorali che potranno cogliere i due soci di maggioranza. Il "me ne frego" con cui Salvini liquida ogni domanda dei cronisti sul Def e sulle perplessità dell'Europa, è diventato in pochi giorni il mantra quotidiano del governo. A conferma della lucida consapevolezza con cui si vuole perseguire un disegno politico temerario, in un certo senso napoleonico, che mira a scardinare la costruzione europea svuotandone di significato e di valore le regole attorno a cui è stata costruita la sovranità monetaria europea.
     La dimensione polemica e anti-europea messa dal governo nella scrittura del Def finisce in questo modo per mettere in ombra il profilo sociale ed economico di un provvedimento concepito come un ponte, un traghettamento propagandistico fra le promesse del voto del 4 marzo, e la loro realizzazione in vista del voto europeo del 26 maggio 2019.
     Salvini e Di Maio non possono arretrare di fronte a questa sfida, per loro significherebbe rendere una vittoria "mutilata" quella del 4 marzo e gettare la spugna in vista dello scardinamento dell'edificio europeo. Il problema loro e dei sovranità in generale è che alla parte destruens, chiara ed evidente, non si affianca un progetto comune per ricostruire su basi nuove.
     L'egoismo della politica e la bulimia di consensi non prevedono, purtroppo, momenti di riflessione critica sui vantaggi o sui danni che una strategia di politica economica e sociale può arrecare al proprio Paese. Una volta denunciate le trame complottiste per fermare il"cambiamento" e l'affermazione della "manovra del popolo", una volta irrisi i "numerini" e lo "spread" buono "da mangiare a colazione", è evidente che la narrazione della realtà viene sopraffatta dalla sua manipolazione. La realtà come rappresentazione e proiezione dei desideri collettivi, alimentati da un'incessante e abile propaganda quotidiana, travolgono ogni residua capacità di giudizio critico. 
     Se anche Papa Francesco si spende per indicare nel lavoro, e non nel sussidio, l'unica dignità vera per ogni persona umana vuol dire che qualcosa di profondo si è incrinato nel sentimento collettivo di un popolo. Se tutto quello che è stato costruito dalla politica e dalla società prima del 4 marzo era indegno e inquinato dalla corruzione, dal malaffare, è difficile arginare la perdita di memoria storica e impedire la deriva etica e sociale dell'Italia.
     Se i "mercati" sono il luogo diabolico in cui si tessono trame ai danni dei poveri e degli ultimi, e non sono invece il luogo in cui ogni cittadino cerca di tutelare i propri interessi e mettere a frutto i propri risparmi, è difficile spiegare i guasti che a quegli interessi e a quei risparmi possono derivare da una sfida aperta alla regola primaria di ogni comportamento umano, la regola del buon senso.
     Queste contraddizioni, questa realtà ossimorica fanno da sfondo al travaglio della politica italiana di questi mesi e si riversano sulla società provocando un senso di smarrimento e di disagio che non sono mai stati forieri di un futuro positivo e utile.