martedì 31 gennaio 2017

PER FUNZIONARE LE COALIZIONI DEVONO NASCERE DOPO IL VOTO


di Massimo Colaiacomo

     Lo scontro all'ultimo sangue all'interno del PD, cioè del partito di maggioranza al governo, è il peggior viatico per andare al voto in tempi rapidi come vorrebbe il suo segretario. Senza una legge elettorale che lasci la porta aperta a governi di coalizione, si rischia di precipitare l'Italia in un tunnel senza uscita. Votare con il meccanismo risultante dalla sentenza della Consulta, significa accollarsi un "moral hazard" che il presidente Mattarella si guarderà saggiamente dall'assumere. Nessuno dei partiti in campo, da soli o in coalizione, è oggi nelle condizioni di raggiungere la soglia del 40% per beneficiare del premio di maggioranza. Un Parlamento allo sbando, con i conti pubblici fuori controllo e il sistema bancario ancora lontano dal risanamento, significherebbe l'uscita dell'Italia dall'euro o, quanto meno, l'arrivo della trojka nelle peggiori condizioni.
     Che cosa possono, ma soprattutto dovrebbero fare le forze politiche? Il quadro è disseminato di veti e di minacce, di ultimatum. Renzi vuole le elezioni come la rivincita del referendum. D'Alema minaccia la nascita di una lista se il PD sceglierà di andare al voto nei prossimi mesi. È un regolamento di conti spietato quello in corso fra due diverse generazioni politiche, divise non solo dall'anagrafe ma anche e, forse, soprattutto da due visioni profondamente diverse della politica. Se il PD è un vulcano in ebollizione pronto a esplodere, le alternative elettorali non sono più rassicuranti. Con il mondo dei Cinquestelle sempre più scosso da contraddizioni e convulsioni che Beppe Grillo e Davide Casaleggio faticano a ricomporre, costretti a minacciare espulsioni e multe per gruppi parlamentari sempre più fuori controllo. Nel centrodestra cresce, più sul piano mediatico che su quello politico, la spinta della componente cosiddetta "sovranista", vale a dire coloro che propugnano l'uscita dall'Euro e dall'Unione europea, due punti forti di contatto con il mondo grillino. Non l'uscita dall'Euro, ma una rivolta contro le regole europee, è il retroterra su cui Matteo Renzi vuole preparare la rivincita elettorale.
     Su questo sfondo turbolento non è difficile immaginare le prossime, tormentate settimane che attendono l'Italia e i nostri conti pubblici. Renzi semplifica fino all'irrisione, come è suo costume, la questione dello 0,2% di scostamento dal deficit programmato e rilancia, esattamente come un giocatore di poker, promettendo nuovi tagli di Irpef una volta tornato al governo. L'impressione che ricava Mister Average è di un ceto politico più simile a una maionese impazzita che non a dirigenti maturi e responsabili, in grado di parlare al Paese il linguaggio della verità.
     La questione elettorale va posta allora in modo diverso da come vorrebbero metterla giù Renzi e Berlusconi. Il punto non è come incentivare le coalizioni prima del voto, così da rendere possibile a uno dei competitori di tagliare il traguardo del 40% e incassare il premio di maggioranza. Messa in questi termini, finirebbe come già altre volte: uno straccio di accordo verrebbe siglato a destra come a sinistra, salvo, una volta al governo, scoprire che non esiste un programma condiviso. Berlusconi lo sa bene, avendolo sperimentato in passato ed essendosi per questo lamentato più volte dei vari Casini, Follini, Fini e compagnia cantando. Logica vorrebbe che imboccato il sentiero di una legge proporzionale, senza preferenze ma, soprattutto, senza capilista bloccati, ogni partito si riserva di stringere alleanze dopo il voto sulla base dei programmi. Con il che, si accetta il rischio di avere un governo "sovranista" con Salvini e Grillo, oppure un governo non ostile all'Europa con il PD e Berlusconi. Non si cita qui Renzi-Berlusconi perché per una legge proporzionale occorrono mesi di lavoro in Parlamento e l'andatura presa d Renzi è tale da far presagire che una volta doppiato il mese di giugno per lui si chiuderebbero tutti i giochi.

mercoledì 25 gennaio 2017

DOPO LA CONSULTA, LA POLITICA NON HA PIÙ ALIBI


di Massimo Colaiacomo

     La carovana di leader e aspiranti da oggi può correre verso le urne in modo ancora più disordinato e con la quasi certezza di non avere una maggioranza una volta cause le urne. La sentenza della Corte costituzionale ha mutilato il senso politico dell'Italicum, amputandolo  di quel ballottaggio e ha consegnato una legge, auto-applicativa per evitare la vacanza del potere di scioglimento delle Camere conferito dalla Costituzione al Capo dello Stato, quasi beffarda nel suo meccanismo. Il premio di maggioranza rimane intatto, cosa che ha entusiasmato Matteo Renzi, ma esso può essere assegnato soltanto al partito - più esattamente alla lista - che supera il 40% nell'unico turno di voto.
     Beffarda perché nessuno dei partiti attualmente rappresentati in Parlamento è in grado sulla carta di raggiungere il 40% dei voti validi al primo turno. Il che significa che o si creano coalizioni, omogenee nei programmi e nella capacità di esprimere un ceto politico all'altezza, prima del voto oppure si dovranno costruire coalizioni dopo il voto. In ogni caso, il traguardo ambizioso per non dire velleitario di conoscere la sera stessa del voto chi governerà l'Italia è stato rinviato a data da destinarsi. 
     È un'altra sconfitta di Matteo Renzi, dopo la sentenza sul jobs act e, soprattutto, dopo la débâcle del referendum. Rimane intatta l'esigenza, più volte richiamata dal presidente della Repubblica, di uniformare la legge del Senato a quella della Camera, il che significa che lo stesso premio di maggioranza andrebbe previsto per l'Aula di palazzo Madama, sempre che a conseguirlo sia la stessa lista dell'altro ramo del Parlamento. La strada verso il voto si fa oggettivamente più impervia per i fautori delle urne qui e ora. Ma la clessidra è stata rovesciata per il fronte opposto, cioè di coloro che sostengono la necessità di uniformare i meccanismi di voto: non possono traccheggiare in modo sconclusionato perché una volta chiusa la finestra elettorale di giugno, sarà tutta loro la responsabilità di dare una legge elettorale pena la severa condanna degli elettori.
     Gli italiani sono meno sprovveduti di quanto li facciano Salvini e Meloni, e, per quanto imbufaliti con la politica, non sono ciechi abbastanza per consegnare a Grillo quel 40% che ne farebbe il padrone dell'Italia. Difficilmente l'onda politica di questa sentenza potrà sfiorare il governo Gentiloni che appare, a un primo esame, uscire rafforzato nei suoi presupposti. L'esecutivo è alle prese con emergenze straordinarie e se Gentiloni pensa a durare, come ha detto con candore domenica sera, ospite di Fabio Fazio, saranno i capigruppo d Camera e Senato a doversi caricare la responsabilità di trovare un'intesa sulla legge elettorale.
     Questa circostanza, normale in apparenza, rappresenta in realtà un ulteriore tassello nella strategia del governo per durare. Già in passato si è visto quanto sia difficile tenere separate convergenze su temi specifici e di interesse generale da un ampliamento di fatto della maggioranza che sostiene il governo. L'accusa di Salvini a Berlusconi di puntare a un "inciucio" è abbastanza ridicola, e, in prospettiva ribaltabile. Perché come ha ammesso Giorgia Meloni, ove dovesse mancare un vincitore chiaro, M5s potrebbe trovarsi costretto a governare con Lega e FdI. Qualcuno prima o poi spiegherà agli italiani perché quello di Berlusconi con il PD dovrebbe essere considerato un "inciucio" e invece una scelta saggia l'eventuale alleanza di Salvini e Meloni con Grillo.
     Vero è che la redazione di una nuova legge elettorale che non sia il Mattarellum è già di per sé foriera di un ribaltamento delle alleanze come sono state fin qui costruite. Scrivere una legge elettorale ha significato quasi sempre prefigurare alleanze possibili e opposizioni opposizioni irriducibili. Il copione dovrebbe ripetersi anche questa volta, ma fra i contraenti delle intese non ci sarà Matteo Renzi. È lui infatti l'unico leader costretto, forse ancora più di Grillo, a correre in solitudine dopo aver tagliato i ponti alla sua sinistra e messo in difficoltà i suoi alleati centristi fra i piedi dei quali ha gettato l'indigesto Mattarellum. Renzi è l'unico fra i leader politici ad avere bisogno del voto a giugno: ne va della sua stessa sopravvivenza politica. 

giovedì 19 gennaio 2017

I CONTI DI BRUXELLES NON COINCIDONO CON QUELLI DI PALAZZO CHIGI E DEL PD


di Massimo Colaiacomo


     Non è una doccia fredda la lettera di richiamo arrivata da Bruxelles al governo italiano con la richiesta di un aggiustamento fiscale pari a 0,2 punti del deficit. Si tratta di circa 3,4 miliardi di euro da trovare entro la fine di febbraio, diversamente la Commissione europea aprirà la procedura d'infrazione prevista in questi casi. La reazione del governo, sostenuto dal presidente della Repubblica, è stata risentita quanto basta: Gentiloni ha trovato inaccettabile il doppio standard della Commissione, severa con i conti italiani e più tollerante con il surplus commerciale della Germania. Meno tranchant il presidente della Repubblica. L'Europa non può limitarsi al controllo occhiuto dei conti pubblici, è il succo delle parole di Mattarella, e lasciare l'Italia sola a fronteggiare il problema dell'immigrazione. Il dramma del nuovo sciame sismico, reso più intenso dalle estreme condizioni meteo, ha messo in qualche modo la sordina alle polemiche incrociate fra Roma e Bruxelles destinate, però, a non spegnersi molto presto.
     Quello che tanti analisti temevano, e cioè il conto che inevitabilmente l'Europa avrebbe presentato una volta superato il voto referendario, è la nuova realtà nella quale dovrà muoversi il nuovo governo. È l'eredità, e neanche la più ingombrante, lasciata da Renzi a Paolo Gentiloni anche se il testimone, sul piano negoziale, è rimasto nelle mani del ministro Padoan. I richiami di Bruxelles possono essere derubricati a un fatto tecnico (la differenza di 3,4 miliardi può essere colmata, difficile solo farlo ricorrendo a mini-imposte comunque mascherate) sul piano europeo, ma sul piano politico domestico essi hanno una rilevanza da non sottovalutare. Il governo Gentiloni, bollato dalle opposizioni come un esecutivo "fotocopia", si trova di fronte a un bivio: o ingaggiare un braccio di ferro con Bruxelles, l'ennesimo di una stagione troppo lunga, oppure accusa ricevuta e mette mano alla Legge di stabilità del suo predecessore. Non è difficile intuire come questa seconda ipotesi si carichi di un valore politico notevole. Perché dopo il Jobs act, su cui il governo si prepara a fare le correzioni richieste dalla Consulta, ritoccare anche la Legge di Stabilità significa accettare correzioni di rotta non irrilevanti alla stagione del renzismo.
     Eco di questo si trova nell'intervista di Massimo D'Alema al Corriere della Sera. I giudizi dell'ex premier sugli anni di Renzi sono corrosivi come è nello stile dell'uomo (Renzi "adeguato" per fare il segretario e il candidato premier), ma ancora più taglienti sono sulle prospettive politiche. D'Alema sottolinea il garbo istituzionale di Gentiloni e il tratto umano che lo dispone a un dialogo più agile. Ma è sulla legge elettorale che il tatticismo di D'Alema si esalta. A sorpresa si dice convinto, d'accordo con Renzi, che il Mattarellum sia un sistema preferibile rispetto al proporzionale su cui Berlusconi sembra irremovibile. I calcoli di D'Alema sono fin troppo scoperti: la melina del leader di Forza Italia per andare al voto il più tardi possibile e il suo tentativo di riaprire un tavolo con Renzi sulla legge elettorale, sono la ciambella di salvataggio a cui Renzi è pronto ad aggrapparsi per non perdere la centralità residua che gli consente l'attuale situazione.
     D'Alema intende così tagliare la strada a ogni possibile accordo fra Renzi e Berlusconi e rilancia il Mattarellum perché, con il mix di maggioritario e proporzionale e in assenza di ballottaggio, esso costringerebbe il PD a costruire alleanze alla sua sinistra e dunque a chiudere definitivamente il sipario sul partito della Nazione, travolto dalla tempesta referendaria. Avendo serenamente dichiarato il suo obiettivo di sbarrare la strada a un ritorno di Renzi a palazzo Chigi, D'Alema liquida con poche parole il ruolo di Berlusconi, interessato a non ostacolare il governo Gentiloni al solo scopo di meglio tutelare le proprie aziende sotto attacco di Vivendi.
     Ma sui ragionamenti dalemiani, come sui propositi di Berlusconi e sul nuovo passo di Renzi, più prudente o meno affrettato di prima, incombe, come accade ormai da anni, la spada di Damocle della Commissione europea sul deficit eccessivo. Il pallino è nella mani di Padoan, ma anche in quelle politicamente abili di Gentiloni. I governi italiani che vanno a Bruxelles a battere il "pugno sul tavolo" sono un'immagine logora e stucchevole, il cui scarso successo dovrebbe indurre questo esecutivo a cambiare approccio. Moscovici ha mostrato una pignoleria insolita, da attribuire, secondo un'interpretazione maliziosa, al suo desiderio di candidarsi alla vice presidenza della Commissione. Ma il controllo occhiuto del deficit è figlio di un debito pubblico che corre a briglie sciolte da alcuni anni, tranne rare pause (l'ultima è stata del governo Prodi, nel 2006-2008). Far quadrare i conti, o comunque trovare un difficile compromesso con Bruxelles, avrà un impatto politico sul giudizio dei tre anni di Renzi. Per uno di quei strani paradossi della politica, il governo che si vuole "fotocopia" dovrà poco alla volta aggiustare il meccanismo del renzismo fino, forse, a renderlo irriconoscibile. E il tutto, avendo alle spalle la stessa maggioranza del precedente governo. In un quadro dominato da incertezze non facilmente risolvibili, Renzi ha scelto di frenare la corsa verso il voto. La prima, meditata decisione della sua arrembante stagione.  

venerdì 13 gennaio 2017

EUROPA SENZA BUSSOLA, DIVISA E PARALIZZATA DI FRONTE A PUTIN

Anti-americanismo e filo-russismo dominano fra le forze anti-sistema, in Francia come in Italia. Perché manca un "sistema Europa"


di Massimo Colaiacomo

     Salvini e Grillo in Italia, Marine Le Pen in Francia e Frauke Petry in Germania, Pablo Iglesias in Spagna e Geert Wilders in Olanda, sono, per citare soltanto i maggiori, predicatori convinti ed entusiasti della fine dell'Unione europea e sanno, con la loro predicazione, di dare fiato a un sentimento molto diffuso nell'opinione pubblica del Continente. Capire come immaginano questa fine, e quale alternativa disegnano per l'Europa, dovrebbe essere compito primario per gli attuali ceti dirigenti desiderosi di mettere in campo i rimedi necessari per scongiurare che si realizzi tale disegno. Sempre che, è ovvio, esistano i rimedi e il tempo necessario. 
     Attribuire a Vladimir Putin o all'avvento di Donald Trump alla Casa Bianca la causa di queste spinte centrifughe, potenti più di quanto non rilevino le cronache quotidiane, è un'analisi superficiale. La malattia che corrode l'Europa è nata dentro l'Europa, e, purtroppo per noi, non c'è più il medico "americano" che corre al capezzale né si può immaginare che sia Vladimir Putin il sostituto. La strategia del leader russo non contempla alleanze, come è naturale per una potenza che la storia ha reso "naturalmente" imperiale, non foss'altro per la vastità del suo territorio. Diverso è il caso dell'America di Trump. La promessa agli elettori americani, che è insieme una minaccia ai cittadini e ai governi europei, di rivedere le relazioni interne alla Nato per chiedere all'Europa un maggiore concorso finanziario e militare nell'Alleanza, può essere l'annuncio di una rivoluzione nella strategia globale degli Stati Uniti. Distante dal suo alleato storico, per l'Europa diventa sempre più difficile contenere la vocazione naturale e istintiva del gigante russo a costruire una sfera d'influenza ai propri confini. E questo non è dovuto a un disegno malvagio di Putin, il quale è democratico come può esserlo un leader russo. Da Alessandro a Nicola I, da Stalin a Breznev, da Eltsin a Putin, la pressione, sovietica prima e russa oggi, sui confini europei è rimasta immutata, anche se diversi sono stati i mezzi per esercitarla.
     Quella di Vladimir Putin all'Europa è una sfida quasi obbligata. Una grande potenza come è la Russia si trova da 70 anni alle prese con un gruppo di Paesi che cercano una forma di unità politica senza esserci fino a oggi riusciti. 70 anni sono un "tempo lungo". La Russia ha ripreso il posto dell'Urss, il mondo ha conosciuto guerre e crisi epocali, la minaccia del terrorismo islamista si è annidata nella nostra vita quotidiana, ma l'Europa rimane un'opera incompiuta e, senza un atto di coraggio politico dei suoi leader, destinata a non essere mai realizzata. Vale però in politica la legge della fisica secondo cui non si dà un vuoto che non venga prima o poi riempito.
     Il "putinismo" avanza a grandi falcate in Europa, e trasmette scosse temibili perfino negli Stati Uniti, anche se fosse vera soltanto la metà delle cronache sulla cyberwar. Il veicolo della diffusione in Europa è il populismo: Grillo e Salvini sono i portavoce di Putin in Italia. Fallito il tentativo di entrare nel gruppo dei liberal-democratici nel Parlamento europeo, cioè in un gruppo storicamente filo euro, filoeuropeista e filoamericano, Grillo ha fatto un'inversione a U e annuncia adesso un referendum per l'uscita dell'Italia dalla Nato, pendant quasi perfetto al desengagement accarezzato da Trump. L'Europa balbetta e si divide sulle sanzioni alla Russia per la questione ucraina. In Francia, Marine Le Pen e perfino il moderato François Fillon fanno professione di amicizia con Putin, magari con un grado di entusiasmo inferiore a Matteo Salvini. Stiamo assistendo a un ribaltamento straordinario dell'atlante geo-politico che sta mandando a pezzi la speranza dell'unità politica europea. Ancora prima di insediarsi ufficialmente a Washington, si può dire che già da qualche settimana non esiste più "il mondo di ieri", cioè quell'alleanza fra le sponde dell'Atlantico su cui sono stati costruiti 70 anni di pace e di prosperità. 
     Che cosa può, e che cosa deve fare l'Europa o, più precisamente, il suo Paese leader che è la Germania? Può fare molto poco in una stagione elettorale che impegna i due Paesi maggiori, Francia e Germania. Ma dopo il voto, sul quale incombe la minaccia degli hacker del Cremlino, potrò fare ancora di meno. I movimenti populisti probabilmente non riusciranno ad eleggere Le Pen in Francia né a scalzare Angela Merkel dalla cancelleria, ma usciranno sicuramente rafforzati dalle urne. Viene da chiedersi, inoltre, che cosa potrà mai accadere sul piano sociale quando lo "scudo" di Mario Draghi verrà meno e l'euro tornerà una moneta vulnerabile, come vulnerabili torneranno i Paesi più indebitati come l'Italia. Se il tempo non scorrerà troppo velocemente, toccherà ad Angela Merkel, dopo la sua auspicabile riconferma, fermare le lancette e scuotere l'Europa dal torpore mortale.