sabato 29 marzo 2014

SULLE RIFORME L'INCOGNITA DEL VOTO EUROPEO

di Massimo Colaiacomo

Nessun cataclisma sconvolgerà il Pd quando il decreto Poletti su apprendistato e contratti a termine arriverà all'esame del Parlamento. Il decreto sarò approvato esattamente come è uscito dal Consiglio dei ministri tranne, è ovvio, la concessione di modifiche marginali alla minoranza interna. Il nucleo del provvedimento è intoccabile e il partito ieri lo ha confermato con un voto plebiscitario al segretario-premier. Quindi contratti a termine rinnovabili fino a 8 volte nell'arco di tre anni per togliere quelle ingessature che soffocano il mercato del lavoro, come ieri hanno detto all'unisono il governatore di BanKitalia e il ministro del Welfare.
Matteo Renzi ha voluto così confermare il ruolino di marcia della macchina governativa. Ha il controllo pieno del partito e lo sta accrescendo sui gruppi parlamentari. Tranne la minoranza civatiana e il gruppetto critico di Gianni Cuperlo, il resto dei parlamentari si è allineato come un sol uomo dietro il segretario-premier. Il che costituisce un indubbio vantaggio, sul piano parlamentare e politico. I provvedimenti del governo sul lavoro, graditi anche a Forza Italia, dovrebbero essere approvati entro i tempi previsti, al più tardi per metà maggio. Un PD compatto significa per Renzi affrancarsi dai voti di Forza Italia che diventano così residuali su una materia considerata sempre incandescente.
Il fatto di licenziare il provvedimento prima del 25 maggio, quando gli elettori andranno alle urne per rinnovare il Parlamento europeo, è un altro punto a favore della strategia del premier il quale aspetta quel voto per avere un primo significativo riscontro sulla sua persona e sulla strategia del governo. Renzi non ha rallentato nella sua marcia e il vento alle vele non è calato. Dai sondaggi arrivano risposte positive, con i consensi in costante ma non vertiginoso aumento a ogni giro di settimana. Si direbbe, insomma, che la navigazione procede spedita e senza intoppi.
Il patto con Silvio Berlusconi sulle riforme istituzionali ha retto alle prime prove ma l'incognita per Renzi si annida proprio in Forza Italia. Il voto europeo non si presenta sotto i migliori auspici per Berlusconi e le sue ultime sortite pubbliche hanno regalato l'immagine di un leader sempre combattivo ma anche visibilmente stanco. La lotta interna sulle candidature risolta con soddisfazione dello sfidante Raffaele Fitto e l'appello, finanche accorato nei toni, a Storace perché La Destra si presenti alleata di Forza Italia sono due spie dell'umor nero del leader di Forza Italia. Berlusconi presagisce l'arrivo di una tempesta per evitare la quale non ha ritenuto di spendere le energie e il ruolo di nessuno dei figli.

Un indebolimento eccessivo di Forza Italia al voto europeo, diciamo un risultato intorno al 20%, è paradossalmente destinato a pesare sul quadro politico molto più di un successo sonante del PD di Matteo Renzi. Per la ragione che il sistema della doppia maggioranza - quella di governo e l'altra per le riforme - ne uscirebbe completamente sghembo. È difficile per ora ipotizzare come un simile scenario possa ripercuotersi sul quadro politico. Un centrodestra molto indebolito nei consensi e frantumato nella sua rappresentanza sarebbe inevitabilmente destinato a riportare in alto mare il capitolo della riforma elettorale e le questioni fin qui accantonate (il voto di preferenza, le soglie di sbarramento) verrebbero riaperte dal Nuovo centrodestra e dagli alleati minori a quel punto indispensabili per la tenuta della maggioranza.

lunedì 24 marzo 2014

IL GOLLISMO "POPULACE" SI FA BEFFE DELL'EUROPA

E SILVIO NON TROVA PIÙ CONIGLI NEL CILINDRO

di Massimo Colaiacomo

Populace è un aggettivo, talvolta sostantivato nella traduzione, con meno connotazioni spregiative di quelle che immaginiamo. Marine Le Pen ha lavorato un paio d'anni in un laboratorio politico molto personale e alla fine ha trovato la formula alchemica che le ha aperto la strada verso un trionfo elettorale non imprevisto ma imprevedibile nelle sue dimensioni. Il razzismo in versione soft, mescolato alla guerra all'immigrazione, soprattutto maghrebina e musulmana, argomentata secondo i canoni del nazionalismo e del cattolicesimo vandeano: il tutto impastato e cementato grazie alla polemica virulenta contro l'Europa delle banche e della finanza.
Già per queste ragioni il lepenismo francese ha molte differenze rispetto al qualunquismo grillino. La destra di Marine Le Pen, al di là di come girerà il vento nei turni di ballottaggio, si è auto-sdoganata e può presentarsi agli occhi dell'elettorato francese nella dimensione di loyauté repubblicaine di cui è stata priva fino a oggi. Il ritorno della Francia all'interno del pensiero "esagonale"  è un colpo duro agli equilibri europei. Se il voto di ieri vuole essere un campanello d'allarme per l'Europa dei decimali e dei burocrati, c'è da temere che giungerà silenziato a Berlino e nelle altre capitali del Nord Europa. All'orizzonte torna a stagliarsi il fantasma di una rottura dell'Europa con la nascita di due distinte aree monetarie se si esclude il ritorno alle monete nazionali.
Il successo lepenista in Francia non può essere liquidato come il trionfo dell'estremismo. Con le percentuali a due cifre che sfiorano e superano il 40% in città grandi, la definizione di "estremista" va usata con cautela perché significherebbe avvalorare la tesi di una Francia ormai definitivamente perduta alla causa europea. Se nelle cancellerie europee si dovesse ragionare in questo modo, allora sì l'Europa sarebbe finita. Se, come è auspicabile, si rifletterà a freddo sul voto francese per trarne conseguenze di più ampia portata, allora c'è da sperare in un révirement del governo tedesco.

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Chi ha invece esaurito ogni possibilità di risposta alla crisi verticale del suo partito è Silvio Berlsconi. Dal fondo del suo cilindro non escono e non usciranno più conigli. La staffetta dinastica immaginata da qualche dirigente, e temuta da altri, non è molto diversa dal coperchio che si chiude sulla bara. Forza Italia è alla vigilia di un'implosione per ragioni incomprensibili ai suoi stessi dirigenti, troppo impegnati a "comunicare" e poco o scarsamente avvezzi a "elaborare" idee e programmi politici. Con il paradosso che anche risultati ragguardevoli (basti pensare all'approvazione della delega fiscale alla Commissione Finanze presieduta da Daniele Capzzone) vengono comunicati male, mentre si comunica peggio il girare a vuoto della politica.
Il torto più grande di Silvio Berlusconi è stato di aver confuso la comunicazione con la sostanza stessa della politica, con il risultato che ha sempre vinto senza mai riuscire a governare. La comunicazione fa vincere le elezioni, ma per governare bisogna mettere assieme le forze politiche e i programmi. L'Italicum è un sistema elettorale pensato e fatto per tagliare la "noia" della politica immaginando così di risolvere il problema delle "discussioni inutili" fra partiti alleati. La realtà si incaricherà, e molto presto, di mandare in crisi anche l'Italicum perché fare politica mettendo la sordina alla politica è un'operazione impossibile anche per il più bravo dei maghi. E l'Harry Potter di Firenze (non ce ne abbia l'Harry Potter originale, Marco Follini) ne farà le spese come prima di lui le ha fatte Berlusconi.

La questione non è se avere o non avere nostalgia della prima Repubblica, visto i disastri lasciati nella finanza pubblica. La questione più drammatica è l'assenza di un ceto politico all'altezza dei momenti drammatici che l'Italia vive e vivrà nei prossimi mesi e anni. Un ceto politico capace di rappresentare e trasmettere un'idea di Nazione, di società, di portare a sintesi interessi sociali diffusi, legittimi e talvolta necessariamente in contrasto fra loro. Senza un'idea di Nazione è difficile stare in Europa e invocare la solidarietà altrui. È il percorso esattamente opposto a quello di Grillo il quale, per vincere, ha bisogno di camminare sulle macerie del Paese. Macerie che altri stanno preparando. Sotto questo aspetto, Grillo è assolutamente incolpevole. 

giovedì 20 marzo 2014

FORZA ITALIA OVVERO LA CONDANNA DELL'ETERNO PRESENTE

("Fa' oggi quello che temi di dover fare in futuro, così non dovrai temere il futuro", Sant'Agostino, Discorsi, 22, 6-7)

     Senza Berlusconi diventa un partito senza storia; con Berlusconi diventa un partito senza futuro: è la condanna di Sisifo toccata a Forza Italia, un quasi-partito immerso in un presente immobile cui è sempre mancato, per ragioni le più diverse, il guizzo finale per diventare la grande forza di raccolta dei moderati e liberali italiani. Poteva diventarlo anche dei riformisti, prima dell'arrivo di Matteo Renzi. Potrebbe diventarlo ancora, nel caso Renzi dovesse fallire e, ovviamente, Forza Italia continuare a esistere.
     Guardando la storia recente dallo specchietto retrovisore, Forza Italia si presenta come un'antologia di occasioni perdute, malamente perdute: dalle riforme costituzionali e di sistema alle liberalizzazioni, non c'è campo dell'attività politica in cui Berlusconi non potesse lasciare un segno, imprimere quei cambiamenti annunciati e attesi da larghe fette della società. Ha regalato un sogno agli italiani, lo ha perpetuato per venti anni agitandolo a ogni tornata elettorale ma riponendolo ogni volta nel cassetto in attesa di occasioni migliori. Ha potuto disporre di maggioranze oceaniche, nel 2001 e ancor più nel 2008, ma questo non gli ha consentito di dare gambe e forza reali a quel sogno.
     Berlusconi può invocare, e a ragione, di essere stato vittima di una persecuzione giudiziaria mai prima di lui tanto scientificamente studiata contro altri leader politici. Venti anni fa, Tangentopoli fu il più grande repulisti contro un sistema politico. Contro Berlusconi, c'è stata la più spietata caccia al politico che voleva cambiare il sistema. Contro il muro di gomma della conservazione, l'uomo di Arcore, sceso ieri simbolicamente dal cavallo, ha scelto la resistenza politica passiva e una resistenza giudiziaria indomita. Doveva, e poteva, fare il contrario: agire politicamente, trascinare il Paese in una battaglia riformista senza connotazioni o sbavature personalistiche. La battaglia per ora solo di parole annunciata da Renzi contro il debito pubblico "non perché ce lo chiede l'Europa, ma perché lo dobbiamo ai nostri figli" è il cambio di passo mancato a Berlusconi, forse da lui mai veramente cercato.
     Se ancora nel 2010 poteva parlare all'Italia e rassicurare che il suo governo "non lascerà indietro nessuno" e alla cassa integrazione ordinaria e in deroga erano stati destinati oltre 27 miliardi in tre anni, Berlusconi confermava in quel modo che l'Italia si governava con un decreto in una mano e il foglio dei sondaggi nell'altra.
     Che cosa si prepara a essere Forza Italia? E come potrà sopravvivere al suo fondatore o, meglio, al suo generatore? Se per le europee si cerca disperatamente un candidato con il cognome Berlusconi per ottenere una certificazione in vita, Forza Italia è ancora un partito oppure un esercito in rotta con il comando generale diviso e smarrito? Come può il capogruppo alla Camera rilasciare un'intervista la mattina in cui adombra una vasta maggioranza a sostegno di Renzi e prendere la parola il pomeriggio nell'emiciclo della Camera per sparare a palle incatenate contro Renzi? Qualcuno potrebbe insinuare che cambiamenti tanto repentini siano da ricondurre alla mutevolezza del leader, ma questo è un alibi sciocco perché Berlusconi sarà anche mutevole d'umore ma è anche dotato di una straordinaria intelligenza politica mai andata in affanno a dispetto delle vicende giudiziarie. La realtà più prosaica, forse, è quella di un partito alla disperata ricerca di sé stesso, di un ubi consistam capace di dargli un'identità provvisoria quanto si vuole ma di vitale importanza a mano a mano che sbiadisce l'identità di chi lo ha generato.

     

sabato 15 marzo 2014

LA SFIDA EUROPEA DELL'ITALIA, CHE COSA È CAMBIATO DA BERLUSCONI A RENZI

di Massimo Colaiacomo

Il presidente Renzi sarà domani a Berlino per spiegare alla cancelliera tedesca il significato dei provvedimenti da lui annunciati e che il governo si prepara a tradurre in disegni o decreti legge. Merkel si è fatta precedere dal suo portavoce Steffen Siebert il quale ha definito "ambiziose" le riforme di Renzi. Il termine è abbastanza vago, perché contiene insieme elogi e cautele: si tratta di vedere se e come le coperture indicate da Renzi saranno compatibili con il rispetto dei parametri di deficit e debito. Viene alla memoria l'immagine di Merkel e Sarkozy e del sorriso assassino che si scambiarono a Cannes, nell'ottobre 2011, allorché gli venne chiesto se avessero avuto fiducia negli impegni presi da Berlusconi al vertice europeo. Da allora sono passati tre anni e una domanda sembra d'obbligo: perché la Germania dovrebbe concedere oggi a Renzi quello che allora negò brutalmente a Berlusconi? Che cosa è cambiato da allora?
È cambiato tutto. Sarkozy e la sua tracotanza sono stati spazzati via da Hollande e si è alquanto incrinato l'asse Parigi-Berlino sulle politiche di austerità. Merkel è rimasta alla guida del governo ma ha dovuto riverniciare la Große Koalition del 2005 poiché la schiacciante vittoria elettorale non è stata sufficiente a consegnarle una maggioranza al Bundestag (quando si dice il modello elettorale tedesco!).
Soprattutto, dopo il 2011, ha preso a circolare per l'Europa uno spettro da nessuno previsto e fino allora sottovalutato: l'antieuropeismo. Il sentimento vago di ribellione alle regole di bilancio e all'austerità incarnata dal volto della cancelliera ha finito per prendere forma e sostanza dando fiato a movimenti di vera e propria ribellione. Così all'antieuropeismo tradizionale (si pensi alla Lega Nord in Italia) si sono aggiunte forze nuove, come il M5S. In Francia si è segnalata l'avanzata clamorosa del Front National di Marine Le Pen, erede e successore unico del padre Jean Marie: quel partito figura addirittura in testa ai sondaggi per le elezioni politiche. E dalle urne europee, il prossimo 25 maggio, potrebbe suonare qualcosa di più che un allarme per l'Europa. Trovarsi nel Parlamento di Strasburgo partiti antieuropeisti forti di un 23-28% dei consensi verrebbe letto come una sconfitta clamorosa per l'europeismo e nessuno esiterebbe ad intestarla alla Merkel e, ovviamente, alle sue politiche di austerità.
La Bce, nel luglio 2012, ha dato uno scossone alle pretese dell'Europa del Nord, nell'iconografia tradizionale indicata come l'area virtuosa, varando l'Omt (Outright monetary transaction), vale a dire la possibilità per la Banca centrale europea di acquistare in misura illimitata i titoli pubblici dei singoli Stati sul mercato secondario. L'ottimo Mario Draghi non ha dovuto sparare neanche un colpo dalla pistola. Quella decisione, come ha spiegato lo stesso governatore, altro non era se non l'acquisto di tempo (tre anni) per consentire ai Paesi ritardatari (Italia in testa) di fare quelle riforme strutturali attese dai mercati. Ciò significa che nella primavera 2015 la Bce rivedrà la sua decisione e per quella data Renzi dovrà aver fatto il lavoro che né Monti né Letta sono stati in grado di fare.
Matteo Renzi si presenta perciò al vertice di Berlino con Angela Merkel avendo al suo arco molte di quelle frecce che le circostanze, ma non solo, negarono a Silvio Berlusconi. È verosimile che lunedì, ascoltando il premier italiano che le squaderna i suoi progetti temerari per gli equilibri di bilancio, Merkel guarderà oltre le spalle del suo interlocutore per scorgervi le truppe tumultuanti e bellicose dell'antieuropeismo, mai prima d'ora così organizzate e agguerrite. Sono loro i migliori alleati della strategia pensata da Renzi per scardinare l'ortodossia tedesca sulla stabilità über alles. Può il governo tedesco, alla vigilia delle elezioni europee e con gli antieuropeisti agguerriti anche in casa, liquidare Renzi con una raffica di nein?

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Questa è la scommessa di Renzi. L'abilità machiavellica (in un fiorentino è dote quasi innata) ha portato il premier italiano a volgere in suo favore quella che è vissuta in questo momento come una minaccia. Renzi è salito in groppa alla tigre antieruopea e dice ai tedeschi che per domarla non ci sono alternative alla strada da lui intrapresa. In cambio dell'accettazione della sua visione border line sulla finanza pubblica, Renzi porta nell'altra mano le riforme strutturali: liberalizzazione del mercato del lavoro, dei servizi pubblici locali, tassazione delle rendite finanziarie, riforma degli ammortizzatori sociali. Merkel potrà chiedergli in aggiunta di fare quel lavoro socialmente sanguinoso, sia pure in dimensione ridotta, già fatto da Samaras in Grecia e da Rajoy in Spagna: ridurre il perimetro dei dipendenti pubblici. Insomma, licenziare. E Renzi, in cambio di questi impegni aggiuntivi, potrà mantenere le sue promesse da qui a luglio.

giovedì 13 marzo 2014

DA RENZI UN PROGRAMMA ELETTORALE CON TANTO FUMO E POCO ARROSTO

di Massimo Colaiacomo

Consumate tutte le possibili ironie su mega-show allestito a palazzo Chigi dal premier, con una conferenza stampa di 1 ora e 10 dopo un Consiglio dei ministri di appena 1 ora e 45 minuti, l'attenzione deve ora concentrarsi sul senso politico di quegli annunci e sulla loro concreta realizzabilità. Renzi non ha negato che il traguardo temporale della sua azione si spinge fino a luglio (rimborsi della PA), il tempo della campagna elettorale. Che cosa significa? Può significare molte cose: che se il voto europeo del 25 maggio dovesse rimanere sotto le attese (che, furbescamente, Renzi tiene ben nascoste), comincerebbe il count-down per il governo; oppure, se le cose andassero per il verso giusto, Renzi si mette sereno e lavora a un programma  sulle cose davvero realizzabili in un orizzonte temporale più ampio.
Potrà esibire agli elettori la riforma della legge elettorale, il cui dividendo elettorale però non è detto che sia appannaggio esclusivo di Renzi ma forse da condividere con Berlusconi e Forza Italia. In mancanza d'altro, il rischio per Renzi è che gli elettori percepiscano la presenza di Forza Italia come elemento indispensabile per fare qualsiasi cosa.
Entrando nel merito delle misure annunciate con titoli e qualche sommario, ma non ancora tradotte in provvedimenti, si può fare una considerazione di carattere generale. Il giovane Matteo Renzi ripercorre il sentiero ideologico di una sinistra antica e dirigista, abile e spregiudicata nel redistribuire la ricchezza che c'è ma incapace di crearne di nuova. Quale altro è il significato di 1000 euro all'anno per i redditi lordi sotto i 25 mila euro, e l'aumento dell'aliquota fiscale sugli investimenti finanziari dal 20 al 26%?
Di Renzi è antiquato e ideologico il linguaggio, al netto delle moine, degli hastag e di qualche calembour tipo lasvoltabuona. Sono espedienti per allocchi, e qualcuno in giro è rimasto anche se la crisi e la disoccupazione ha svegliato molti illusi. Renzi è vecchio, e ideologico, perché chiama rendite quelli che sono investimenti finanziari. Però capisce che per aumentare le tasse bisogna colpevolizzare chi detiene azioni o fondi di investimento. Dall'aumento fiscale sono esentati i Titoli di Stato, quelli, sì, strumento rifugio per un rentier gaudente e rassicurato da cedole fisse da qui al 2030 o 2040.
Però, come potrebbe aumentare le aliquote fiscali di Btp e Bot avendo l'Italia necessità di rendere allettanti i propri titoli agli occhi degli investitori? Bene, proviamo a rovesciare il ragionamento: come pensa Renzi di attirare capitali stranieri per le società quotate in Borsa se colpisce con maggiori tasse quegli stessi capitali? Si dice: con l'aliquta al 26% l'Italia si allinea agli altri Paesi europei. Falso. In quali altri Paesi, a parte l'Italia, è stata introdotta la Tobin tax? Tobin tax, aliquote al 26%, e spese burocratiche rendono l'investimento in Borsa in Italia oneroso più che in altri Paesi.
Paradosso non ultimo: il taglio dell'Irap del 10%, che vale all'incirca i 2,6 miliardi di maggiori introiti previsti con l'aumento dell'aliquota sugli investimenti, in molti casi produce zero effetti sulle società quotate. Molte imprese, si sa, sono a controllo famigliare. Bene, se un impresa detiene il 55 o 60% delle azioni, dovrà pagare il 26% di aliquota sul dividendo, salvo pagare un po' meno di Irap. I benefici del bilancio societario saranno compensati dai maggiori oneri a carico del principale azionista. Una partita di giro, in apparenza, in realtà un indebolimento della capacità di controllo dei grandi azionisti sull proprietà dell'azienda.
Le promesse di Renzi sono meno vaghe sul lavoro ma decisamente claudicanti sull'apprendistato. Bene l'estensione del contratto senza causale da 1 a 3 anni. Male, molto male, l'idea di limitare al massimo del 20%  la quota di apprendisti rispetto al numero dei dipendenti di un'impresa. Renzi immagina che un imprenditore, già votato al rischio di suo, sia un pazzo scatenato al punto da avere il 90% di apprendisti nel personale. Come potrebbe crescere un'impresa con così scarse competenze? Come potrebbe quell'impresa essere competitiva in un mercato che richiede conoscenze, qualità e affidabilità dei prodotti? Sfido Renzi a trovare un imprenditore, uno solo, che abbia un numero di apprendisti pari al 40 o 50% dei dipendenti. Non esiste al mondo impresa che metta a rischio la qualità dei suoi beni e delle suoi prodotti solo per sfruttare il basso costo del lavoro di un apprendista.

  Anche in questo caso, come si vede, Renzi agisce con la riserva mentale tipica di una sinistra che non sarà più comunist, come immagina Berlusconi, ma rimane sostanzialmente ideologica e lontana dal pragmatismo della modernità.

domenica 9 marzo 2014

QUOTE ROSA, ULTIMO SCHIAFFO A SOCIETÀ LIBERALE

APPELLO A BERLUSCONI E RENZI

di Massimo Colaiacomo

Le "quote rosa" sono l'ultima beffa in uno Stato che ha smarrito quei pochi e flebili tratti liberali, confusamente presenti nella società e solo marginalmente accolti nella Costituzione. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, contraenti di un patto che prevede la riforma della legge elettorale, del Titolo V e del Senato, possono regalare all'Italia un'occasione per alleggerirsi in parte di quella zavorra mortale che è il populismo. Le "quote rosa" costituiscono al contrario una resa al populismo più volgare, con la loro pretesa di introdurre per legge una "parità di genere" che va invece coltivata nella coscienza civile del Paese.
Nazioni libere come la Germania, la Danimarca, la Lettonia e la Norvegia hanno scelto donne ai vertici del potere esecutivo senza alcuna necessità di introdurre le quote. Pretendere di forzare con la legge un costume civile retrogrado e comportamenti collettivi colpevolmente ipocriti, non potrà modificare in nulla la condizione di smarrimento e di confusione della società.
Le "quote" di genere offendono prima di tutto il genere che si vorrebbe tutelare poiché ne decretano una naturale incapacità di affermazione sociale e politica. Esse aprono una ferita nella società italiana poiché ipotizzano la sua incapacità al cambiamento e alla crescita civile. Ancora più grave è il concetto di "quota" riservato a un "genere" perché, in questo modo, si apre la strada a nuovi, pericolosi equivoci. Senza alcuna intenzione provocatoria, anzi, allo scopo di rafforzare la natura liberale del nostro Paese, verrà un tempo in cui dovremo chiederci perché negare una quota di rappresentanza a tutti quei soggetti che non si riconoscono in nessuno dei due generi sessuali.
Rimane da chiedersi perché il "genere" sia meritevole di una tutela superiore ad altre fragilità sociali non meno rilevanti come possono essere l'appartenenza etnica o l'integrità fisica della persona, fragilità che incrociano il genere sessuale.

Non c'è un solo argomento valido per sostenere una battaglia il cui obiettivo non è la crescita civile del Paese ma soltanto di consentire ai partiti di sistemare partite interne e stipulare compromessi di potere sacrificando per questi un principio universale di libertà. L'Italia sarebbe l'unico Paese dei 28 dell'Unione europea ad avere le "quote rosa" per il Parlamento. Il che equivale ad ammettere non la nostra modernità ma l'arretratezza di una società incapace di riconoscere qualità e meriti delle persone a prescindere dal sesso.

sabato 8 marzo 2014

MARIANO RAJOY CORRE PIÙ VELOCE DI RENZI

UN CONSERVATORE RIVOLUZIONARIO, LA SPAGNA FUORI DAL TUNNEL

di Massimo Colaiacomo

La sinistra progetta le riforme, la destra le fa e le applica. Una conferma a questo aforisma, uno dei tanti attribuiti alla mente fertile di Winston Churchill, è venuta in questi ultimi mesi dal premier spagnolo Mariano Rajoy. Sulle pagine dei giornali che si stampano nell'asfittica provincia italiana sono uscite notizie con il contagocce, qualche trafiletto nelle pagine interne, ma le scelte del governo conservatore spagnolo hanno messo in moto un'autentica rivoluzione sociale ed economica. Mai preceduto da annunci, in pochi mesi Rajoy ha preso una serie di decisioni il cui impatto è stato immediato in certi casi e promette di essere ancora più incisivo nei prossimi mesi.
Stiamo parlando del Paese dove nel maggio 2011 esplose la rivolta degli indygnados, un movimento che in poche settimane contagiò giovani e disoccupati in molti dei Paesi europei alle prese con i morsi delle politiche di austerità. Di quella protesta quasi nessuno conserva più memoria. Rajoy ha resistito alla scossa sociale più potente dalla nascita della democrazia spagnola, nel 1976. I dati Eurostat fotografano un Paese ancora in grande affanno. La disoccupazione è intorno al 26% e tocca cifre del 50% fra i giovani under 35. A febbraio, però, per la prima volta dallo scoppio della bolla immobiliare, l'ufficio statistico di Madrid ha registrato 1.949 nuovi occupati. Una goccia d'acqua in un oceano di difficoltà, ma un risultato incredibile se si pensa che in Italia, secondo l'ufficio studi di Confindustria, nel 2014 la disoccupazione è prevista in crescita di 150-200 mila unità. Il miglioramento dell'occupazione in Spagna, quasi impercettibile in termini percentuali, arriva però in un mese che non vedeva il segno meno dal 2007. 
A novembre 2013 la produzione industriale ha messo a segno il salto più deciso da quasi tre anni a questa parte: +2,6% rispetto allo stesso mese del 2012. Buone notizie per Madrid dopo il ritorno al segno più del prodotto interno lordo nel terzo trimestre, trainato da esportazioni e, risultato impensabile per l'Italia, dalla rinascita della domanda interna.
L'occupazione è nel mirino del governo e Rajoy, il 25 febbraio, ha dato una frustata vigorosa. Un intervento energico, senza precedenti e da imitare in Italia: le imprese spagnole che assumono nuovi lavoratori potranno versare 100 euro al mese per due anni a condizione che dopo tre anni trasformino quel contratto a tempo indeterminato. Una flat tax di proporzioni straordinarie, destinata, secondo gli osservatori, a produrre benefici enormi e in tempi piuttosto accelerati.
La decisione di Rajoy non è certo estranea alle considerazioni e alle proposte avanzate da Luca Ricolfi nel suo editoriale su La Stampa di oggi. Il max job immaginato dall'autorevole analista ruota attorno alla necessità di abbattere del 60-70% il costo del lavoro per i nuovi assunti, lasciando intatta la ritenuta previdenziale ma riducendo drasticamente l'aliquota Irpef. Rajoy ha invece deciso di abolire ogni ritenuta fiscale sui redditi fino a 12 mila euro.
La Spagna, potrà obiettare qualcuno, ha margini di manovra di cui l'Italia non può godere. Madrid non sopporta il peso di un debito pubblico al 132,9% del Pil. Vero ma fino a un certo punto. Perché le condizioni del debito pubblico spagnolo, in rapporto alla ricchezza privata sono di gran lunga peggiori di quelle italiane. Il debito pubblico italiano ha un livello di sostenibilità superiore a quello tedesco o francese, se rapportato alla ricchezza delle famiglie. Sennonché, questo raffronto dovrebbe incutere qualche timore, nel senso che di fronte a una nuova tempesta finanziaria si potrebbe aprire la strada a una forma di "prestito forzoso" o, come nel caso di Cipro, al prelievo forzoso di una quota della ricchezza finanziaria privata.

Per rimanere alla Spagna, si deve osservare conclusivamente che l'esecutivo conservatore sta operando con coraggio rispetto alla gravità della crisi e agisce sulla leva fiscale tanto dal lato dei consumi quanto dal lato del contenimento della spesa pubblica corrente. Esattamente la strada che in Italia dovrebbe imboccare Matteo Renzi solo che avesse una maggioranza convinta in tutte le sue componenti.  

QUOTE ROSA? ALL'EUROPA INTERESSANO SOLTANTO LE QUOTE LATTE

di Massimo Colaiacomo

L'Europa progressista, cioè quella del Nord, protestante e riformista e avanguardista, non concepisce le quote rosa in nessun settore di attività. Erna Solberg (Norvegia), Helle Thorning-Schmidt (Danimarca), Angela Merkel (Germania), Laimdota Straujuma (Lettonia),  sono le donne primo ministro alla guida dei rispettivi Paesi. Paesi dove non solo non esistono le quote rosa, ma esse sono strenuamente avversate proprio in nome della parità di genere. In Spagna, le donne costituiscono il 38% dei parlamentari eletti alle Cortes e a nessun partito passa per la testa di istituire le quote rosa.
Il 20 novembre 2013 il Parlamento europeo, tempio riconosciuto del politically correct, ha approvato una direttiva, prima in forma di vincolo giuridico, poi derubricata a racocmandazione, con la quale si esortano i Paesi membri a prevedere, entro il 2020, il 40% di presenza femminile nei CdA delle aziende quotate senza obbligo per incarichi esecutivi. La stessa raccomandazione esorta ad anticipare quel traguardo al 2018 per le aziende pubbliche. La direttiva è stata ammorbidita per superare l'opposizione di dieci Paesi: Gran Bretagna, Germania, Olanda, Danimarca, Romania, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria.
In Italia le quote rosa ci saranno per il principio dell'eterogenesi dei fini. Le femministe potranno esultare e la presenza femminile in Parlamento aumenterà ma solo perché il Cavaliere utilizza le quote rosa come merce di scambio con Renzi: più donne per far passare l'emendamento salva-Lega o per affossare gli emendamenti per il ripristino delle preferenze. Nel do ut des si realizza l'ennesimo atto di cannibalismo di una politica ridotta a terreno di sempice business, con buona pace delle battaglie dei diritti civili. Le donne devono aumentare ope legis e non, come nel Nord Europa, per una più complessiva maturità civile della società. Merce di scambio per altri obiettivi per riscattarsi dalla condizione di merce. Merx fuit, merx erit (attendo correzione da padre Giorgio!)
L'Europa del Nord non concepisce altre quote all'infuori di quelle del latte. Per ragioni le più diverse. Nel mondo protestante il livello di ipocrisia sociale è tradizionalmente più basso rispetto a una società intrisa di residui cattolici (ma la differenza è destinata a crescere grazie all'apporto del gesuitismo sibillino del Papa). La trasparenza che in Italia si vuole raggiungere con le leggi altrove è un abito civile confezionato nel tempo. Così la cura del bene pubblico e degli interessi generali, considerati temi accessori nella lotta politica italiana ma, al contrario, decisivi negli altri Stati europei.
Con il via libera alle quote rosa, Berlusconi conferma di essere un liberale fra parentesi. Come potrebbe, infatti, un liberale genuino concepire un simile abominio sessista? Le quote rosa sono un parente lontano dell'antisemitismo da reprimere con forza di legge e non da costruire attraverso la diffusione della conoscenza e della storia. Il risultato, in questo caso, sarà di un antisemitismo che cresce come malapianta nella coscienza degli individui per essere dissimulato nelle occasioni pubbliche e solenni.
La legge elettorale andrà in porto attraverso aggiustamenti progressivi che la spoglieranno come si sfoglia un carciofo. L'ultimo bunker in cui Berlusconi e Renzi si sono rinserrati riguarda le soglie di accesso al Parlamento per i partiti e le coalizioni e il premio di maggioranza. Saltati questi, Renzi salterebbe un minuto dopo e Berlusconi riprenderebbe a smazzare le carte con il suo successore.

venerdì 7 marzo 2014

RENZI PERDE VELOCITÀ, MA SULLA LEGGE ELETTORALE SI GIOCA TUTTO

di Massimo Colaiacomo

Le questioni della parità di genere o del ritorno alle preferenze sono soltanto le due ultime trappole messe sul cammino della legge elettorale. Renzi sa di giocarsi tutto su questa riforma: mandarla in porto secondo le intese siglate con Berlusconi, oppure stravolgerla come vorrebbe una parte del Pd, ma non solo, potrà decidere il destino del governo e la sua capacità di realizzare le altre riforme attese dall'Europa.
La riforma elettorale non è, come si pensava, la scorciatoia attraverso cui Renzi pensa di ottenere lo scioglimento del Parlamento per andare al voto. Il premier la ritiene invece la pistola fumante da mettere sul tavolo della sua maggioranza per indurla ad accettare un percorso di riforme non facili e socialmente costose. Per cambiare il mercato del lavoro come per tagliare la spesa pubblica in modo incisivo, Renzi ha bisogno del tempo necessario perché almeno nella fase iniziale sono riforme destinate ad accrescere il disagio sociale già diffuso. Il tempo serve a Renzi per poter cogliere il dividendo elettorale di queste riforme, sempre che esse saranno realizzate.
Per cogliere questi obiettivi la legge elettorale è una leva decisiva nelle mani del premier. Senza, Renzi diventa prigioniero di una maggioranza già malmostosa e condannata nei prossimi mesi a coltivare le sue divisioni in vista della campagna elettorale europea.
Al premier va riconosciuto di non aver sbagliato il suo passo d'esordio sulla scena europea. Quell'accenno all'Italia che sa già che cosa fare per mettere ordine in casa senza bisogno di fare i compiti assegnati da altri, aveva un sapore quasi craxiano nel suo impasto di spavalderia personale e di orgoglio nazionale. La differenza con i suoi predecessori - da Berlusconi a Monti fino a Letta - non poteva essere più netta. Renzi ha risposto a Bruxelles esattamente come fece Mariano Rajoy, due anni fa. Di fronte all'ultimatum di Van Rompuy che imponeva alla Spagna di stare dentro il 5,8% del rapporto deficit-Pil, il premier spagnolo non esitò a infischiarsene e a riaffermare che per il 2012 a Madrid quel rapporto sarebbe stato intorno al 6,3%.
Dopo il vertice europeo e con l'annuncio che non ci saranno manovre di finanza pubblica per aggiustare i conti, Renzi si è tagliato molti ponti alle spalle e ha deciso che gli aggiustamenti di finanza saranno perseguiti d'ora in avanti soltanto attraverso riforme strutturali. Ha lanciato il guanto di sfida in Europa ma anche alla maggioranza che lo sostiene. L'Italia è rimasto uno degli ultimi Paesi dell'Unione senza nessuna riforma o con riforme sbagliate, come la legge Fornero. Si torna così al dilemma iniziale: può Renzi governare la sua maggioranza, e in particolare il Pd, senza la frusta di una legge elettorale che lo metta al riparo da piccoli e grandi ricatti? Se Renzi non riesce a tenere la barra dritta sulla riforma del Senato, non da abolire ma da cambiare radicalmente per farne la sede di rappresentanza delle autonomie locali, e a tenere il punto sulle soglie di accesso come sull'abolizione delle preferenze, per lui si chiuderanno molte porte e il quadro politico precipiterebbe nuovamente nel caos.