martedì 1 marzo 2016

DALLA PROCREAZIONE ALLA RI-CREAZIONE, GLI INCIAMPI DELLA MODERNITÀ


di Massimo Colaiacomo


     La polemica scatenata intorno a una vicenda specifica di "utero in affitto" e di procreazione per delega finirà nel nulla, come tutte le discussioni viziate dalla strumentalità politica. Ciascuno dirà la propria opinione, ogni soggetto politico accamperà le proprie ragioni, con un vocabolario più o meno ruvido, poi la palla deve passare, come sempre, al Parlamento per stabilire i confini legali della procreazione e delle adozioni da parte di coppie omosessuali.
     Colpisce, però, la povertà delle argomentazioni fin qui ascoltate "contro" l'utero in affitto. Si tratta, come nel caso della presidente della Camera, Laura Boldrini, di valutazioni che condannano l'aspetto per così dire "produttivistico" del corpo femminile, lo "sfruttamento" della povertà di quelle donne che offrono il loro grembo per "donare" figli a chi non può averli. Sono argomentazioni di grande miseria morale, che travisano completamente l'essenza della questione. Perché, se così fosse, una donna che non sia nell'indigenza sarebbe per questo legittimata ad usare il suo utero per donare il frutto ad altri?
     La posta in gioco è solo ed esclusivamente antropologica. Ha a che fare con il nostro tempo, con l'essenza di un'umanità irrimediabilmente smagliata, che ruzzola con felice incoscienza a ogni inciampo della modernità nella sua rincorsa alla perfezione illimitata della scienza. È stato un ateo come Tzvetan Todorov, fra i maggiori storici delle idee, a denunciare, alla fine degli anni '90, i frutti avvelenati dello scientismo e del positivismo sulla lunga notte del Novecento. Assolutizzare la verità scientifica fino a soffocare ogni giudizio etico: ecco il primo e micidiale inciampo dell'umanità entrata nel post-moderno. Se si assume che ciò che è scientificamente possibile è anche e sempre moralmente auspicabile, ecco che saltano tutti i limiti e l'uomo, uscito da sé, può contemplarsi per quello che non è o non vuole essere e ridisegnare il proprio spazio. Dalla funzione naturale ma remissiva di procreatore, l'uomo può così aspirare a farsi ri-creatore di un'altra vita.
    Il Rinascimento di Eugenio Garin e di Hugh Trevor-Roper era stata la stagione in cui l'uomo affermava una nuova visione della vita, finalmente antropocentrica dopo la separazione delle cose del Cielo da quella della Terra. Il culmine di quella rivoluzione si riassume bene nel monito che Marcello, guardia nel Castello di Elsinor, rivolge al collega Orazio: "ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante possa contenerne la tua filosofia". Una volta consacrata la legittimità dell'aspirazione prometeica, l'umanità ha potuto spezzare i vincoli in cui era costretta e riconciliarsi con la mondanità del proprio tempo.
     Varcate le colonne d'Ercole del nuovo tempo e rimossi i leoni che ne erano a guardia, la scienza si è impadronita della vita dell'uomo. Soprattutto ne ha messo in discussione il diritto alla "totalità" e "unità". "Allontanandomi da te, dall'unità, sono svanito nella molteplicità", rifletteva Sant'Agostino. Il Novecento ha messo il sigillo sulla perdita della totalità della vita (Claudio Magris) e spezzare la linea retta della procreazione, distruggerne il perimetro naturale, è l'ultimo grido del moderno Prometeo. Un grido rivolto verso il nulla, senza neppure un'eco di ritorno.