giovedì 30 gennaio 2014

SE NON BLOCCA LE RIFORME GRILLO TENTA LA VIA DELLA RIVOLTA SOCIALE

di Massimo Colaiacomo

La scena di "squadrismo parlamentare" mandata in onda dai deputati grillini nell'emiciclo della Camera ha fatto aggrottare anche il ciglio più imperturbabile. Il mix di violenza verbale e fisica, però, non è un inedito fra gli scranni di Montecitorio. La domenica delle Palme del 1953, quando nello stesso emiciclo si votava la cosiddetta "legge truffa", vennero alle mani Randolfo Pacciardi e Giancarlo Pajetta, due protagonisti di primo piano nel Parlamento dell'epoca. Ne seguì un parapiglia e anche allora, come ieri, fra i pacieri si registrò qualche commesso parlamentare ammaccato.
  Se si mette da parte il moralismo che fa schioccare indignazione su ogni cosa, si può dire che tutto sommato nulla di nuovo si è visto alla Camera. La legge elettorale è lo strumento decisivo per la raccolta del consenso e la successiva distribuzione del potere. Se qualcuno dei parlamentari d'oggi avesse mai sfogliato il bel libro di Giuseppe Maranini (Storia del potere in Italia, uscito, se ricordo bene, nel 1961) scoprirà che il grande giornalista scrisse un saggio di rara perizia sui meccanismi elettorali utilizzati, e sulle loro conseguenze pratiche, negli anni del Regno e poi nei primi 15 anni della Repubblica. Quel titolo era significativo: la storia del potere coincideva per Maranini con la storia dei sistemi elettorali. Tutti, nessuno escluso, sono stati sperimentati nell'Italia post-unitaria: il proporzionale puro, il doppio turno francese, l'uninominale, le liste bloccate di Acerbo. Poi il Mattarellum, il Porcellum e, ora, si proverà con l'Italicum.
Mai una volta è stata trovata la formula magica, che tutti dicono di cercare, capace di dare stabilità agli esecutivi. L'unica forma di stabilità - se per stabilità si intende un governo che dura l'intera legislatura e realizza il suo programmta - è stato il ventennio fascista. È una constatazione da rabbrividire. Davvero l'Italia non può conoscere altre forme di stabilità che non siano un regime dispotivo e totalitario? E perché nessuno dei sistemi elettorali fin qui sperimentati è mai riuscito ad assicurare quella convivenza civile fra opposti schieramenti nella quale prosperano e vivono, più o meno tranquillamente, altre democrazie in Europa?
La fiducia riposta dagli attuali protagonisti nel potere salvifico della legge elettorale ha un che di ingenuo e insieme di ipocrita. Berlusconi e Renzi sanno che non è la legge elettorale il grimaldello che apre le porte alla stabilità dei governi. È comodo, e molto utile, credere e far credere che sia così. Se davvero la stabilità riposasse in una tecnicalità elettorale, o nel dosaggio di alcuni ingredienti, nessuno ha provato a chiedersi a che cosa allora servirebbe la politica, la capacità di coalizzare partiti e movimenti per vincere le elezioni e governare il Paese.
Lo scopo della legge all'esame del Parlamento è chiaramente quello di bloccare l'avanzata grillina, giustamente temuta come una minaccia per gli equilibri politici democraatici. Renzi è convinto, molto più di Berlusconi, che la via delle riforme può essere sbloccata e così girare pagina. Grillo non può consentirlo. Se passano le riforme volute da Renzi, il sistema dimostrerà di aver trovato gli anticorpi alla sua dissoluzione e il grillismo apparirebbe in tutto il suo velleitarismo. Perciò Grillo deve combattere per impedire un disegno riformatore, improvvisato quanto si vuole, ma capace di vanificare la sua ragion d'essere una volta approvato.
Quello accaduto ieri a Montecitorio si presta invece a una considerazione più preoccupante. Se dovesse fallire lo stop al disegno di autoriforma del sistema politico, a Grillo non resterebbe altra strada se non la disobbedienza sociale da spingere fino al limite della rivolta. Troverebbe terreno fertile nel malessere sociale diffuso e in qualche caso profondo? È una domanda per ora senza risposta e il grillismo in versione "violenza di massa" appare un'ipotesi remota. Sta al governo e al Parlamento di impedire che diventi uno scenario realistico. 


 

domenica 19 gennaio 2014

VINCERÀ CHI SAPRÀ COSTRUIRE MEGLIO LE ALLEANZE,
COME SEMPRE. DA SPERARE CHE NON GOVERNERÀ COME SEMPRE

di Massimo Colaiacomo

Puntuale come un Frecciarossa è scattata la gara per stabilire chi vincerà le prossime elezioni. Simulazioni su simulazioni: tot al centrodestra con questo meccanismo, tot al centrosinistra con quest'altro. Tot al centrodestra se il riparto proporzionale sarà nazionale tot al centrosinistra se invece sarà su circoscrizioni regionali. E via cantando.
Confesso che poco ci capisco di sistemi elettorali, però provo a fare qualche considerazione empirica. Vediamo.

1994: dopo 48 anni il proporzionale puro finisce in soffitta. Arriva il Mattarellum, Berlusconi mette insieme un'alleanza a geometria variabile: a Nord con la Lega, al Sud con Msi-An. Altri competitori sono: il Ppi di Martinazzoli; l'Alleanza di Mario Segni con repubblicani, liberali e parte dei socialisti; il Pds dello sventurato Occhetto; Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti. Il Mattarellum fu studiato con l'intento di favorire le residue forze della Dc. Sparita. A sorpresa trionfa Berlusconi, poi la storia finì come finì.

1996: si rivota con il Mattarellum. La Lega si presenta da sola; Romano Prodi mette in piedi il cartello dell'Ulivo in cui confluiscono le residue forze popolari, il Pds e quel che rimane dei socialisti. Per l'occasione si escogita il "patto di desistenza" con Rifondazione comunista. Vince la sinistra. Anche qui la storia finì come finì: tre governi per arrivare col fiatone alle elezioni del 2001.

2001: Berlusconi capisce l'antifona. Rimette insieme Fini e Bossi con Casini nella Casa delle libertà. Vince a mani basse.

2006: Casini si incaponisce sulla necessità di mettere in piedi un nuovo sistema elettorale. Calderoli si mette al lavoro e dalla testa gli fuma una robaccia che l'ideatore non esita a chiamare come merita: Porcellum. Berlusconi mette in piedi la solita alleanza, ma Casini si sfila. Romano Prodi, dopo l'ennesimo ritiro dalla politica ci ripensa, si candida e per una manciata di voti vince le elezioni. Anche la storia della legislatura segue il canovaccio di sempre.

 2008: Berlusconi vince bene le elezioni. Veltroni perde altrettanto bene, anche se paga lo scotto della vocazione maggioritaria che lo porta a imbarcare Di Pietro e a lasciare a piedi altri possibili alleati. Anche qui la storia finì come tutte le altre. Si sfila Gianfranco Fini il governo s'affloscia come un soufflé andato e la maggioranza si inacidisce come la panna.

2011: sempre con il Porcellum, non vince Bersani e non perde Berlusconi. Va Letta a Palazzo Chigi e ci resta perché invece della maggioranza stvolta a rompersi è il fronte delle opposizioni.

C'è una morale da ricavare da tante peripezie? Ci provo. Tanto con il Mattarellum quanto con il Porcellum hanno vinto due volte la sinistra e due volte la destra. Hanno vinto quando hanno saputo costruire alleanze molto ampie. Le alleanze hanno funzionato in fase di raccolta dei voti,  si sono sfasciate alla prova di governo. Nel '94 si sfila la Lega, nel 2006 si sfilano Mastella e Dini, nel 2010 si sfila Fini. Nel 2013, invece, una maggioranza resiste in piedi perché si rompe l'opposizione.
Che cosa può voler dire tutto questo? 1) I sistemi elettorali che tendono a bipolarizzare il quadro politico devono  scontare la nascita di schieramenti internamente molto eterogenei per conseguire premi di maggioranza o anche un solo voto in più; 2) gli aspetti programmatici della coalizione sono orpelli inutili perché i partiti sottoscrivono un accordo elettorale sapendo che quello di programma può essere revocato in dubbio in qualsiasi momento; 3) i partiti cosiddetti minori possono moltiplicare per cento il peso della loro utilità marginale e di fatto hanno in pugno la maggioranza; 4) l'esperienza veltroniana del 2008 ha detto una cosa importante: se un partito sa osare e presentarsi agli elettori con un programma di governo chiaro senza farsi condizionare dal corollario di partitini, gli elettori sono pronti a votarlo. Veltroni prese il 33,5%, un risultato straordinario che il Pd non ha mai più conosciuto nella sua breve storia.

Le alleanze si fanno prima del voto, come è ovvio, e non dopo. Questo fatto da solo non garantisce di per sé la durata di un governo né la solidità della maggioranza. Se una maggiornza si sfascia in democrazia si torna alle urne e non si fanno i governi tecnici. Berlusconi ha commesso un grave errore nel novembre 2011 quando ha ceduto lo scettro al Quirinale e questi lo ha restituito a Mario Monti. La scusa dell'emergenza finanziaria era ed è ancora oggi risibile. La Grecia, con un'emergena molto più grave dell'Italia, è andata alle urne due volte nella primavera del 2012 fino ad avere un governo pienamente legittimato dagli elettori. Portogallo, Spagna, Irlanda - per dire di altri Paesi che hanno avuto accesso al fondo salva-Stati - non hanno mai messo in piedi esecutivi tecnici. Questa è la vera patologia che sta corrodendo la democrazia in Italia. Il merito di Renzi, al momento, è il tentativo di sottrarre l'esecutivo Letta alla deriva tecnica verso cui stava scivolando e di volergli imprimere una connotazione politica chiara, di sinistra essendo il PD il principale se non esclusivo azionista della maggioranza. Renzi vuole rimettere in campo la bella politica. Se ci riesce, chapeau!

giovedì 16 gennaio 2014

DA RENZI E CAV. UNA SPERICOLATA MANO DI POKER


di Massimo Colaiacomo

     Matteo Renzi sta giocando la partita della sua vita (politica), tutta d'un fiato e senza pause. La gioca al tavolo della legge elettorale dove lui sta seduto da un lato. Dall'altro lato, siedono Berlusconi e Alfano. Proviamo a riassumere. Alla direzione del suo partito, Renzi ha detto: voglio una legge elettorale, non per andare a votare a maggio. Dico no ai ricatti di Berlusconi che vuole un accordo a condizione che si voti a maggio. Dico no ai ricatti di Alfano che minaccia di uscire dal governo se si approva un sistema a lui sgradito e comunque vuole un patto di governo fino al 2014.
     Messe così le carte sul tavolo, è evidente che i tre giocatori non chiedono carte al banco e a domanda rispondono: servito. Significa dunque che tutti è tre sono servitser o, significa che tutti è tre stanno tentando il bluff attorno a quel tavolo. Renzi vuole la legge elettorale per accreditare visivamente il "cambio di passo" della sua segreteria. Berlusconi la vuole (?) puntando al voto a maggio. Alfano la vuole (?) per materializzare il "cambio di stagione" nel centrodestra.
     Ciascuno dei tre parla con gli altri due coltivando disegni e strategie diverse. Dei tre, due sono in maggioranza (Renzi e Alfano), uno all'opposizione (Berlusconi). Alfano teme il voto, Berlusconi sa che maggio è la dead-line superata la quale cala il sipario sulle sue terre elettorali. Renzi può permettersi, con la pistola della legge elettorale caricata e sul tavolo di maggioranza, di prendersi il tempo per valutare. Senza quella pistola, Renzi si troverebbe all'improvviso sul traguardo della sua intensa ma breve corsa politica.
     Chi è dei tre che sta tentando il bluff più arrischiato? Berlusconi, da solo, arriva a sommare (quasi, precisiamo, per non urtare la sua sempre pungente vanità) gli anni degli altri due. Nell'anagrafe è lui che ha meno da perdere degli altri. Renzi vuole le elezioni a maggio, oppure vuole prendere in mano il comando delle operazioni e trasformare palazzo Chigi nella sala macchine del transatlantico Pd? Ad Alfano, che non vuole le elezioni, conviene, e fino a che punto, avere soddisfazione sulla durata del governo ma pagare dazio su qualche punto decisivo del programma? Sono domande che possono trovare risposta, e non è un paradosso, nel sistema elettorale che i tre riusciranno a disegnare da qui ai prossimi giorni. E quando il 27 gennaio il testo della legge elettorale non sarà in Aula, si aprirà il secondo tempo di questa complessa partita. Avvincente per gli addetti ai lavori; snervante e incomprensibile per 60 milioni di italiani; una vera cuccagna per Beppe Grillo.

martedì 7 gennaio 2014

LA LEGGE ELETTORALE MACIGNO NELLA MAGGIORANZA MA QUALCHE SCRICCHIOLIO ANCHE NEL PD

di Massimo Colaiacomo

Nel Pd le acque sono agitate più di quanto non appaia in superficie. Prova ne sono alcune interviste del presidente di quel partito, Gianni Cuperlo, il quale non si nasconde dietro un dito rivolgendosi al segretario Renzi con domande secche e dirette. Vogliamo scrivere un patto di coalizione per il governo che traghetti il Paese fino al 2015? Oppure sono già nel mirino le elezioni anticipate a maggio? Cuperlo prende le difese di Fassina e rampogna Renzi invitandolo a distinguere fra comandare e dirigere. Sia pure dette nel tono argomentato di un politico d'esperienza, le parole di Cuperlo sono altrettante stilettate all'indirizzo di Renzi e rivelano il malessere compresso in alcuni settori, non si sa quanto ampi, del Pd. Non è certo casuale che  vecchi leader, da D'Alema a Veltroni a Fassino, da alcune settimane abbiano scelto il silenzio nel confronto politico. Non perché siano spariti: c'è da scommettere, invece, che stanno studiando le mosse del sindaco fiorentino per capirne i limiti e soprattutto pesarne il consenso dentro i gruppi parlamentari.
Quando Cuperlo invita Renzi a fare sintesi nel Pd sulla legge elettorale, è evidente che denuncia così l'esistenza di ampie riserve sul modello spagnolo, meccanismo sul quale Renzi ha avviato le trattative con Forza Italia. Cuperlo non dice la sua preferenza, ma trova ragionevole che sulla legge elettorale si cerchi un accordo nella maggioranza prima di allargarlo ad altre forze. E nella maggioranza si sa, come ha ribadito ancora stamane il ministro Maurizio Lupi, che il modello spagnolo suscita l'ostilità dichiarata del Nuovo centrodestra e non incontra minimamente i favori degli altri partiti. Perché? Per la ragione che Angelino Alfano, socio decisivo di maggioranza, giudica quel meccanismo - costruito su collegi proporzionali molto piccoli, e, di fatto un maggioritario sul modello Westmister - un rischio mortale per la gracile pianta del Ncd. Alfano e i suoi sono pronti a discutere tutti i temi posti da Renzi al governo (lavoro, unioni civili, immigrazione) ma sono anche pronti, c'è da giurare, a staccare la spina se dovesse passare una riforma elettorale per loro dichiaratamente ostile.
Sulla legge elettorale, però, dovrebbero tutti riflettere sulle sagge considerazioni fatte sulle colonne del Corriere della Sera da Angelo Panebianco in un editoriale del 6 gennaio. Immaginare che sia il meccanismo elettorale a determinare il risultato di un qualsiasi partito è una wishfull tinking, una pia illusione. Panebianco giustamente sposta l'accento sul tipo di aggregazioni e combinazioni politiche che possono scaturire da una nuova legge elettorale. In sostanza, è il suo ragionamento, non è tanto il metodo di raccolta del voto o quello di attribuzione dei seggi parlamentari a determinare il maggiore o minore consenso elettorale, quanto piuttosto il tipo di offerta che le forze politiche sanno mettere in campo.
Alfano, l'esempio è nostro, prende più voti in alleanza con Forza Italia oppure se dà vita a un raggruppamento con Casini e altre forze centriste? Tutte queste forze insieme si vedono apprezzate dagli elettori se si alleano con il Renzi oppure prendono più voti in alleanza con Berlusconi?
È però evidente, e la cosa non sarà sfuggita neppure a Panebianco, che il meccanismo elettorale diventa anche uno strumento decisivo per negoziare da posizioni di maggiore o minore forza le alleanze elettorali. Non si spiegherebbe altrimenti l'insistenza del Nuovo centrodestra sul modello del "sindaco d'Italia", un meccanismo che prevedendo due turni consente ad Alfano di pesare la forza elettorale al primo turno e, incrociando le dita, di presentarsi all'alleanza per il secondo turno da una posizione di forza relativa.

domenica 5 gennaio 2014

RENZI NON HA IL PASSO DELL'ALPINO MA PRIMA O POI DOVRÀ FERMARSI PER NON SCOPPIARE

di Massimo Colaiacomo

Matteo Renzi va di corsa. Ha fretta di arrivare, non sa come ma sa dove. Grandi polmoni e   falcate lunghe, ha preso una rincorsa lunga due anni. Si è fatte due primarie nel partito: sconfitto alla prima, trionfatore alla seconda. Travolge gli avversari con un sarcasmo eccessivo perfino per un tosco-fiorentino. Ha desacralizzato la politica, buttato all'aria riti e liturgie per inventarne di nuovi: riunioni di segreteria alle 7; poi convocazioni mobili nelle diverse città; under 40 quelli che lo circondano. Insomma un Pd yé-yé come si sarebbe detto negli anni Sessanta.
Come il venditore leopardiano di almanacchi per l'anno nuovo, Renzi invita gli italiani ad acquistare l'almanacco per il 2014. "Almanacchi per l'anno nuovo, Signori! Comprate l'almanacco per l'anno nuovo sicuramente migliore di quello vecchio!".
Fermiamoci un attimo. Perché l'anno nuovo dovrà essere migliore di quello vecchio? Che cosa scriverà Renzi sotto i tanti titoli sfornati fino a oggi come tante stelle filanti? Unioni civili, via la legge Bossi-Fini, la riforma elettorale, via il tetto del 3%, avanti con il job act ... La sensazione di una abbuffata improvvisa dopo tanta astinenza ha scosso dal torpore la politica, ha riattizzato un po' di curiosità fra gli italiani più scettici e ha riattivato una flebile circolazione di idee. Impiccarsi per stabilire se è poco o tanto non serve.
Renzi è stato finora un grande fenomeno mediatico, con alcune potenzialità, se adeguatamente incanalate, per diventare un grande fenomeno politico. Per capirne di più bisogna vederlo all'opera, a Palazzo Chigi (se gli riesce) o in Parlamento come capo dell'opposizione. La sua strategia politica è stata finora costruita sull'effetto mediatico dei suoi annunci. Sostenere, come ha fatto questi ultimi giorni, che si può sforare il 3% avendo i conti ben bullonati, ha n effetto annuncio notevole. Riuscire a ottenere il via libera dalla Commissione europea è un altro discorso. La sospensione dell'art. 18 per i primi tre anni di lavoro con un contratto a tempo indeterminato è un ottima iniziativa: finanziata da chi è come? Il tema delle tutele crescenti per i lavoratori è una carta importante da mettere sul tavolo di un negoziato con le forze sociali: chi paga e in che modo si paga la tutela crescente del lavoratore? La Pubblica amministrazione come si inserisce nella riforma del lavoro immaginata da Matteo Renzi? Oppure essa rimane un'isola intoccabile come serbatoio di consensi elettorali per la futura sinistra renziana?
Sono tante le domande ancora in attesa di risposta. Renzi parla per slide, ogni tanto si concede l'intervallo di una battuta acida o brillante, ma ancora non produce il rumore tipico del dente dell'ingranaggio ... quel crock-crock che trasmette la sensazione netta di un treno finalmente partito. In questo la similitudine con Berlusconi è molto forte, anche se in Renzi non si avverte la genialità dei contrappunti del Cavaliere. L'innovazione del linguaggio è avvenuta finora soltanto in superficie e la frantumazione delle liturgie è più che altro simbolica, in attesa di farni carne e sangue quando si tratterà di addentare la realtà piatta e prosaica del day-byday.
Il passo spedito del sindaco fiorentino è risuonato fuori del Pd e un po' meno dentro il partito. Il Pd è oggi un santuario vuoto, con il vecchio ceto dirigente rintanato nelle nicchie e silenziato da Renzi. L'acidità contro Fassina e la reattività pronta del viceministro sono la conferma della tensione che circola nel corpo del Pd. I giudizi di Cuperlo e di altri parlamentari della "vecchia guardia" sono la spia che Renzi controlla il partito e i suoi organi creati a immagine e somiglianza del capo, ma lo spirito del renzismo non è ancora entrato nella circolazione sanguigna dei democratici.
Renzi dovrà fermarsi per prendere fiato. La montagna da scalare è alta, e tenere l'occhio fisso sulla vetta, come sa chi ama la montagna, accresce e non diminuisce lo fatica e lo sforzo. Renzi è uno scattista, ma in politica, si sa, a vincere sono sempre i maratoneti. Berlusconi docet: scattista in campagna elettorale, maratoneta con carburazione lentissima al governo. Solo con quelle doti si può resistere sulla scena politica per vent'anni (al momento venti, ma la sua gara non è ancora alla fine).

Sulla legge elettorale Renzi, non si può negare, ha avuto un guizzo geniale: tre proposte, ciascuna delle quali può andar bene a questo o a quello, dentro o fuori la maggioranza. Incontri bilaterali con tutti, quindi anche con Berlusconi, e pentastellati a corto d'ossigeno finiti all'angolo in attesa di un referendum on line sul modello elettorale (facile immaginare il caos che ne verrà). Aggirato il perimetro di maggioranza senza difficoltà, Renzi ha posto le premesse per giocare a rimpiattino con Enrico Letta. Il premier aveva avvisato, poco prima di Natale, che non si sarebbe prestato nel ruolo di punch ball di Renzi presagendo che questo sarebbe stato il suo destino. Invece è andata esattamente così. Fra qualche settimana ci sarà un "patto di coalizione" che avrà la stessa forza di impatto di una photo opportunity senza alcun seguito. A maggio tutti alle urne: da qui ad allora sarà possibile conoscere un po' meglio Matteo Renzi. Perché le secondarie sono un'altra storia rispetto alle primarie.

sabato 4 gennaio 2014

RENZI VUOL MINARE GLI EQUILIBRI DENTRO GLI SCHIERAMENTI PER FAR SALTARE IL GOVERNO. PERCHÉ FORZA ITALIA SBAGLIA TUTTO

di Massimo Colaiacomo

         L'orizzonte strategico di Matteo Renzi non è molto ampio. In cambio fa ribollire il terreno tattico su cui si muove. Gli si attribuiscono tutte le intenzioni, dal voto anticipato a maggio a un accordo solido con Enrico Letta fino al 2015. Al momento non ci sono elementi per sostenere una tesi o l'altra. L'mpressione è che Renzi stia tessendo una tela molto ampia per destabilizzare non la maggioranza ma gli schieramenti politici al loro interno. A questo e non ad altro servono le sue proposte sulla legge elettorale o sulle unioni civili o sull'abolizione dela Bossi-Fini.
Proviamo a spiegare meglio: sulle unioni civili, Renzi sa di dividere Forza Italia al suo interno, ma anche il Pd, mentre sa di avvicinare alla sua proposta il movimento grillino. L'unico partito che invece non vacilla e respinge fermamente questa proposta è il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Anche l'ala cattolica del Pd, quella che fa capo a Beppe Fioroni è contraria. 
Sulla revisione della Bossi-Fini, Renzi si mette contro Alfano, Forza Italia e Lega Nord ma fors'anche i pentastellati. Che cosa significa tutto questo? Che Renzi spinge il quadro politico verso le sabbie mobili dalle quali potrà, e dovrà, uscire un quadro abbastanza diverso. Insomma, più che il gioco delle matrioske, Renzi sta scuotendo l'albero della politica nella speranza che la configurazione degli attuali schieramenti possa incrinarsi prima ancora di discutere la riforma elettorale.
Si farà il "patto di coalizione" auspicato da Renzi, ed Enrico Letta, un leader avveduto anche se eccessivamente sornione, farà di tutto per assecondare la spinta propulsiva di Renzi badando, è ovvio, ad evitare che essa travolga le basi dell'attuale maggioranza. Le incursioni ostili di Renzi su terreni minati per Alfano sono, è vero, una provocazione verso l'alleato ma funzionano anche come ballon d'essai per gli altri partiti.
Si prenda Forza Italia. Ancora frastornata per l'azzoppamento di Silvio Berlusconi, geniale e intuitivo come pochi nell'afferrare il mood del giorno, Forza Italia dall'opposizione si muove in reazione a Matteo Renzi, priva di sue idee e proposte, alternative o integrative a quelle di Renzi.
A ben vedere, il sindaco fiorentino è impegnato, più che a minare il governo, a lavorare per costruire basi nuove  a un bipolarismo che tutti vogliono civile ed europeo e in base al quale maggioranza e minoranza si confrontano, lealmente e talvolta duramente, alla luce del sole per condividere alcuni obiettivi generali.
Forza Italia subisce l'impostazione renziana perché del tutto priva di proposte e quindi costretta a un gioco di rimessa: ora applaude alla riforma elettorale con tutti, ora si divide sulle unioni civili, un'altra volta applaude al job act. Renzi detta il ritmo, gli altri danzano sulle sue note. La vera novità di Renzi consiste proprio in questo: lui parla di cose concrete da fare, gli altri replicano con slogan più o meno brillanti ma la cui efficacia è tramontata con il loro creatore. La politica si sta riappropriando di un alfabeto in cui la ragionevolezza e la ricchezza delle argomentazioni si sono ripreso il posto per vent'anni occupato da frasi a effetto ma decisamente vuote e prive di qualsiasi costrutto.

Altro errore marchiano, da matita blu, di Forza Italia. Attaccare il governo per negargli ogni merito nel calo dello spread è davvero infantile, da analfabeti della politica. Un politico con un minimo di intelligenza distingue fra la bontà di un risultato e l'attribuzione dei meriti. Se lo spread cala sotto i 200 punti soltanto un forsennato come Brunetta può impiccarsi nel negare ogni merito a Letta e non ammettere che quel calo è un bene inestimabile per le casse dello Stato. Allora, ogni dichiarazione dovrebbe partire dalla premessa: ottime notizie per l'Italia, cala lo spread ecc .... dopo di che, si distingue: si fa di conto sui costi sociali sopportati dal Paese, sull'efficacia limitata, se non sul danno, delle politiche fiscali dei governi Monti e Letta, e sull'indebolimento della crescita tedesca che ha fatto salire i rendimenti sul Bund decennale. Questo dovrebbe dire un politico moderato che avesse l'ambizione di candidarsi alla guida del Paese. In Italia, però, non si vedono leader di questa statura.