lunedì 10 aprile 2017

È UFFICIALE, NON ESISTE LA DEMOCRAZIA "SECONDO GRILLO"



di Massimo Colaiacomo

     Un giudice del Tribunale civile di Genova ha sentenziato che non può esistere una democrazia "secondo Grillo", cioè un sistema di decisioni pubbliche piegato a logiche di tipo personale o privato. Il succo di quanto è accaduto a Genova sta tutto qui. La contesa fra Marika Cassimatis, votata dagli iscritti e poi sconfessata da Grillo, e il M5s è stata chiarita da un Tribunale della Repubblica. Questo episodio ha delle conseguenze politiche rilevanti, alcune immediate e altre misurabili nel tempo. Le conseguenze più vicine dicono della confusione in cui viene a trovarsi il Movimento e il suo "padrone garante". Perché il giudice Roberto Braccialini ha escluso il candidato grillino, Luca Pirondini, imposto da Grillo che ha fatto ripetere il voto on line dagli iscritti, alla seconda votazione non più solo genovesi.
     Il risultato è che il M5s non avrà, allo stato dei fatti, un proprio candidato al Comune di Genova, cioè nella città del suo fondatore-garante-padrone. Grillo può impugnare la sentenza e ingaggiare così un braccio di ferro con ciò allungando i tempi per la predisposizione della lista ed esponendosi anche all'incertezza del secondo grado di giudizio. Se anche il ricorso dovesse dar torto al M5s ovviamente l'intera vicenda segnerebbe una dura sconfitta per Grillo e il suo movimento, perché trovarsi senza un candidato a Genova e viste le prove a dir poco opache dei due primi importanti sindaci fin qui eletti  (Appendino a Torino, Raggi a Roma) il bilancio dell'esperienza amministrativa grillina sarebbe più che in rosso.
     L'infortunio, ammesso che di infortunio si tratti, proietta però le sue conseguenze anche sulle prossime elezioni politiche. Perché il giudice Braccialini ha detto che le regole di un movimento politico hanno valore se vengono rispettate "erga omnes" e anche se quel movimento è dotato di uno "statuto-non statuto" il suo garante non può piegare quelle regole al proprio punto di vista. Ciò sta a significare che quando il M5s celebrerà le "parlamentarie" per scegliere i candidati alla Camera e al Senato, Beppe Grillo dovrà astenersi da interventi tali da modificare la volontà espressa dagli iscritti.
     Quello che è accaduto a Genova rischia di essere soltanto un sassolino rispetto alla valanga che potrebbe abbattersi sul Movimento nella selezione della classe parlamentare. Perché in fondo, a voler riassumere i termini della vicenda, la questione vera con cui Grillo è alle prese riguarda la selezione della classe dirigente di un Movimento che aspira a governare l'Italia. La domanda è: come conciliare la democrazia diretta, e incontrollata come può essere quella del web, con la necessità di selezionare un ceto politico non improvvisato? Si tratta di un nodo che va sciolto pena la credibilità complessiva del movimento.
     Dopo la Convention celebrativa di Ivrea, Grillo ha annunciato un deciso cambio di strategia. Il M5s non sarà più il partito pionieristico del "vaffa-day", quello che riempiva le piazze minacciando di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Anche per Grillo, come per il più rivoluzionario dei politici, l'odore del potere fa scattare regole, liturgie e riti simili sotto tutti i cieli. Grillo vuole ora un movimento rassicurante, molto diverso da quello che ha seminato minacce e promesse per raccogliere l'indignazione del Paese. È una sfida non da poco. Tenere alta l'indignazione sociale e rassicurare i mercati internazionali non è impresa semplice. Promettere il referendum sull'euro e sperare che la speculazione non metta nuovamente nel mirino i titoli di Stato appare obiettivo più che ambizioso, quasi disperato.
     Per conciliare tante contraddizioni e superarle in un'ottica governativa, Grillo non avrebbe avuto bisogno dell'infortunio genovese che sembra fatto apposta per complicargli una già difficile quadratura. Si tratta per lui di non uscire sconfessato politicamente dalla sentenza del tribunale né può permettersi un accordo con Marika Cassimatis senza sconfessare il suo candidato Luca Pirondini. Anche per Grillo si sta avvicinando a grandi passi il momento in cui dovrà confrontarsi con la politica, quella di sempre, fatta di compromessi intelligenti e lasciando fuori la porta la clava del blog. Valgono per Grillo, insomma, le regole che valgono per tutti: non esiste una democrazia diversa da quella fin qui conosciuta.    

mercoledì 5 aprile 2017

DOPO IL VOTO DEL SENATO, MAGGIORANZA IN CONFUSIONE MA NON PUÒ CADERE


di Massimo Colaiacomo


     È difficile archiviare come un brutto incidente il voto con cui la Commissione Affari costituzionali ha eletto presidente il centrista Salvatore Torrisi e impallinato il candidato dem Giorgio Pagliari. Più ragionevole appare invece la lettura di chi vede in questo passo falso lo strascico della feroce contesa politica che scuote il PD da troppi mesi. Matteo Renzi non ha ancora smaltito l'euforia per l'ottimo risultato delle primarie di partito ed ecco che deve nuovamente tuffarsi nelle faide interne per venire a capo di una storia davvero brutta per lui. Il PD ha subito drammatizzato il voto della Commissione al Senato e ha chiesto un incontro al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. A Paolo Gentiloni, interlocutore naturale, per rappresentare le fibrillazioni di una maggioranza sempre più in difficoltà sul fianco sinistro. Appare più inconsistente, se non una vera scivolata costituzionale, la richiesta di un colloquio con il Capo dello Stato. A Sergio Mattarella il PD non può certo chiedere di intervenire nella dialettica parlamentare: sarebbe del tutto improprio e un fuor d'opera che non si può pretendere da un custode accorto e autorevole edella Costituzione quale è Mattarella.
     A conti fatti, invece, è dentro il suo partito che Matteo Renzi dovrà guardare con più attenzione. A Pagliari sono mancati 5 voti dei 16 di cui dispone il PD. Con quei voti Pagliari sarebbe stato eletto senza difficoltà. In ogni caso, il pasticcio combinato al Senato è destinato sicuramente ad allargare le crepe nella maggioranza. I centristi del ministro Alfano messi sotto accusa hanno pensato bene di smarcarsi e mostrare la loro buona fede chiedendo a Torrisi di dimettersi. Il che aggiungerebbe un tocco di surrealismo a una vicenda probabilmente mal gestita dal capogruppo Luigi Zanda. La levata di scudi dei parlamentari renziani, sicuramente risentiti per il grave smacco politico, non sembra per tale da scuotere il governo. È ovvio che essa rappresenta un ostacolo in più sul percorso già travagliato che attende Gentiloni. Ma la dimensione politica di questa vicenda, come lo scontro mandato in scena ieri con il ministro dell'Economia, riguarda solo ed esclusivamente il malessere che scuote il Partito democratico all'indomani delle primarie e in vista di un congresso. La tentazione di azzoppare la strategia di Matteo Renzi in Parlamento, non potendolo fare nel partito, serpeggia in molti settori del PD e non risparmia nessuno dei suoi competitori.
     Si tratta ora di trovare una non facile via d'uscita. Sembra difficile, se non impraticabile, quella delle dimissioni di Torrisi. Uno schiaffo alla libera volontà del Parlamento non sarebbe tollerato dalle opposizioni pronte a loro volta ad appellarsi al Capo dello Stato. Chi ha voluto vedere in questo voto il tentativo di bloccare definitivamente la spinta di Renzi verso il Mattarellum è probabilmente più vicino alla realtà dei fatti. Renzi, forzando i propri gravi limiti caratteriali, può allora decidere di aprire una vera trattativa sulla legge elettorale e in questo modo neutralizzare i disegni, veri o presunti, che stanno dietro l'elezione di Torrisi. 

martedì 4 aprile 2017

DAL PD SEMAFORO GIALLO A PADOAN (E AVVISO A GENTILONI)


di Massimo Colaiacomo


     C'è un che di inusuale nella presenza del ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, alla riunione del gruppo PD alla Camera. È vero che si parla del partito che ha le chiavi della maggioranza e dunque pienamente titolato a conoscere, discutere e, nel caso, a condizionare gli orientamenti del governo sulla prossima manovra di aggiustamento e quindi sul Documento di economia e finanza. In questo contesto, non è certo fuori luogo la presenza del titolare dell'Economia. Inusuali, invece, sono stati i toni usati dagli esponenti del PD per riassumere il succo dell'incontro. In buona sostanza, a Padoan è stato chiesto, in termini perentori, di soprassedere sulla riforma del catasto e di non utilizzare strumenti fiscali per raccogliere i 3,4 miliardi necessari per la manovra.
     Padoan è un ministro classificato "tecnico", condizione in parte negata dallo stesso interessato quando ha spiegato che suo compito è fare le deduzioni tecniche, come farebbe chiunque al suo posto, per lasciare alla politica l'onere delle scelte. La verità, come tutti sanno, è che se c'è un ministero politico più di qualunque altro questo è proprio il dicastero occupato da Padoan. E alle riserve politiche espresse dal gruppo PD, il ministro non ha potuto che fornire repliche altrettanto politiche. Ne è uscito fuori una sorta di interrogatorio che ha messo Padoan (e, di riflesso, Gentiloni) in una condizione di sorvegliati. Il ministro non è stato reticente sui programmi del governo e ha spiegato che a suo giudizio non si può immaginare una moratoria sulle privatizzazioni, né sono prevedibili nuove disposizioni sulla rottamazione delle cartelle. Ma è tutta la politica di bilancio per il 2018 che è stata messa in discussione dal PD. Il taglio del cuneo fiscale, tema in cima all'agenda di Gentiloni, è un capitolo tutto da scrivere perché la riduzione delle tasse ruota, ha spiegato Padoan, attorno a coperture credibili e durature (il sottinteso è che non sono più tollerate da Bruxelles, come è avvenuto in passato, coperture una tantum). L'incontro non ha neppure sfiorato il tema delle tassazione sui redditi, perché si tratta di un libro dei sogni per questo come per qualsiasi altro governo  che non sia provvisto di una tale forza e credibilità politica, non solo in Italia, che lo mettano in condizione di intervenire sulla spesa pubblica corrente e sul debito con manovre straordinarie. 
     La riunione di Padoan con i parlamentari PD ha messo temporaneamente la sordina a uno scontro politico che presto o tardi dovrà affiorare. In tema di privatizzazioni, il PD, ha sintetizzato il capogruppo Rosato, ha chiesto una moratoria sulla cessione di nuove quote di Poste e Ferrovie. Due voci importanti nella stesura del DEF e del Piano nazionale di riforme ma soprattutto un capitolo sul quale l'Europa ha più volte bacchettato i governi italiani per i ritardi accumulati. Il PD rappresentato dal capogruppo Rosato è un partito proiettato con la testa, e con i calcoli, alla scadenza elettorale e si muove sul terreno della politica economica con i piedi di piombo. Renzi sa che la manovra di aggiustamento di 3,4 miliardi va fatta, non solo per compiacere Bruxelles ma per salvaguardare la residua credibilità politica di questo governo. Nello stesso tempo non può considerare quello di Gentiloni un "governo amico", come accadeva quando la DC era costretta a sostenere un governo Fanfani chiamato a fare politiche indigeste per il suo elettorato. Da qui all'autunno, quando con la Legge di stabilità si dovrà disinnescare la mina dell'IVA che passa da un governo all'altro, Renzi dovrà fare le sue scelte. Potrà farle avendo riottenuto l'investitura della leadership, quindi avendo il controllo pieno del partito che significa per lui assumersi fino in fondo la responsabilità della scelte del governo. Trovarsi stretto fra due fuochi - le elezioni nel 2018 e il controllo occhiuto della Commissione europea sulla Legge di bilancio - non sarà una condizione agevole.