sabato 29 ottobre 2016

RENZI E ORBAN, LE DUE FACCE DELLA CRISI EUROPEA


di Massimo Colaiacomo


     "I want my money back", diceva, senza troppi giri di parole, Mrs. Margareth Thatcher all'indirizzo di Bruxelles. Chissà se Matteo Renzi si è ricordato della protesta inglese quando, l'altro giorno, ha reclamato, nel suo tour referendario, che l'Italia riceve dall'Europa 8 miliardi in meno di quanto versa. Rivolto poi al premier ungherese, Renzi ha sollecitato la burocrazia europea a tagliare i fondi a quei Paesi che rifiutano di adeguarsi alle direttive in materia di ridistribuzione dei profughi, diversamente, ha minacciato, l'Italia è pronta a usare il potere di veto nell'approvazione di ogni bilancio europeo. Immediata la replica di Viktor Orban: anche l'Ungheria è pronta a usare il potere di veto se non viene modificata la contestata direttiva sugli immigrati.
     In condizioni di relativa stabilità dell'euro e in presenza di una crescita sostenuta, la querelle fra Roma e Budapest verrebbe risolta senza troppi affanni da Angela Merkel con l'assistenza di Juncker e del commissario agli Affari sociali. Ma l'Europa vive un tempo eccezionale, l'Unione è scossa da spinte centrifughe e la Brexit, rimasta fino a oggi senza una risposta politica forte, rischia di essere soltanto il primo atto di una crisi senza orizzonte. Quando due Paesi, uno dei quali tra i fondatori, minacciano di usare il potere di veto per ragioni opposte ma simmetriche, vuol dire che la cabina di regia politica è vuota oppure il regista è impegnato a scrivere il canovaccio della prossima sfida elettorale in Germania. L'Italia renziana deve sforare il deficit e adduce come motivo l'imprevisto, massiccio arrivo di migranti (anche se il ministro dell'Interno rassicura gli italiani: nessun aumento rispetto al 2015) oltre ai danni materiali provocati dal sisma del 29 agosto. L'Ungheria del nazionalista Orban si rifugia nell'interesse nazionale, ha costruito un muro al confine con la Slovenia e avverte l'Europa: se l'Italia non sa controllare i flussi migratori, non può essere l'Ungheria a pagarne le conseguenze.
     Come si può intuire, il braccio di ferro fra Roma e Budapest rischia di essere il detonatore di una nuova crisi dell'Unione. Senza le conseguenze clamorose di una nuova exit, ma dalle implicazioni politiche che rischiano di essere ancora più devastanti. Matteo Renzi alza la voce perché, da un lato, ha colto il momento di grave debolezza istituzionale dell'Unione e, dall'altro lato, per coprirsi sul piano interno in vista del voto referendario soffia sull'antieuropeismo, cioè sull'arma che accomuna tutti o gran parte dei suoi oppositori. Fin dove può spingersi il presidente del Consiglio? E davvero Renzi può tornare a una linea di dialogo con l'Europa una volta superato, come legittimamente spera, il voto referendario?
     D'altra parte, non sono migliori le condizioni in cui si trovano a operare i due Paesi-guida dell'Europa. A Parigi e a Berlino si lavora alle prossime elezioni generali. Se Hollande ha chiuso  il suo ciclo, lo stesso non può dirsi di Angela Merkel che potrebbe candidarsi per il quarto mandato alla cancelleria. Francia e Germania hanno fin qui tenuto un profilo basso tanto sulle pretese italiane quanto su quelle ungheresi. Il fatto che nessuna reazione è finora venuta alle minacce incrociate di Renzi e di Orban non significa però che non ci sarà una presa di posizione, magari dopo il 4 dicembre. La cancelleria tedesca rimane concentrata, in ossequio a una linea di condotta decennale ma, a questo punto, anche per calcolo elettorale, sul rispetto delle regole e sul time-table per quanto riguarda il rientro del deficit e l'abbattimento del debito.
     Una linea che può sembrare eccentrica a occhi italiani, ma che, a ben vedere, rimane l'ultimo decisivo collante per tenere insieme l'Unione e non togliere senso politico alla moneta unica. Se all'Italia si riconoscono circostanze eccezionali, come già a maggio è stato fatto per Portogallo e Spagna, come negare domani ad altri Paesi di avere bilanci pubblici disallineati, per ragioni diverse, rispetto alle regole europee? È il cruccio che tormenta un grande europeista come Wolfgang Schaüble. Chi invoca il cambiamento delle regole sa, se è in buona fede, che sta chiedendo il cambiamento dei Trattati, un lavoro annoso e complesso che può essere affrontato solo partendo da quella coesione politica europea che oggi nessuno vede. 
  

sabato 22 ottobre 2016

REFERENDUM, RENZI GETTA BENZINA SUL FUOCO DELL'EUROPA


di Massimo Colaiacomo


     La legge di stabilità e la legge di bilancio sono le ultime due leve utilizzate dal presidente del Consiglio per imprimere una sterzata ai sondaggi che danno pressoché alla pari il fronte del SÌ e quello del NO sul referendum costituzionale del 4 dicembre. Il che non comporta per Renzi l'accusa automatica di cavalcare una sorta di populismo finanziario per contenere il populismo grillino. Per la semplice ragione che fra le opposizioni che applaudono alle riserve di Bruxelles sulla finanziaria del governo non ci sono esattamente fior di europeisti. Non a caso, né Salvini né Grillo usano la sospensione di giudizio della Commissione come una clava politica sul premier. Sono pochi a poterlo fare: Stefano Parisi, nel centrodestra, e Massimo D'Alema con Pierluigi Bersani a sinistra. Loro possono invocare le perplessità dell'Unione sulla finanziaria italiana come prova della inaffidabilità dell'esecutivo agli occhi dell'Europa.
     Tutto ciò contribuisce a intricare la matassa referendaria e le polemiche che corrono fra Roma e Bruxelles delineano nuove linee di frattura nello schieramento politico italiano, con il premier che lancia il guanto della sfida pensando di catturare consensi fra le forze populiste, e gli europeisti del NO che pensano, al contrario, di catturare l'attenzione degli altri governi alle loro ragioni. Renzi ha alzato la posta nella sua sfida all'Europa e ha scelto deliberatamente di gettare benzina sul fuoco di un'Unione percorsa dal vento della divisione: si tratti delle relazioni con Putin o della ridistribuzione degli immigrati, dell'approccio sulla Brexit o del rapporto deficit-Pil, non c'è argomento o dossier su cui l'Europa non coltivi un acerbo cupio dissolvi.
     Non trova altra spiegazione l'irrigidimento improvviso del governo italiano, più netto quello di Renzi, più sfumato, perché investito direttamente del negoziato, quello del ministro dell'Economia.  L'Italia non ha la forza, da sola, per cambiare le regole (che, poi, significa cambiare i Trattati: lavoro annoso), Renzi ha scelto allora di forzarle, mettendo i partner di fronte a un aut-aut: o accettate la legge di stabilità oppure se un richiamo deve esserci, allora va indirizzato ai Paesi che si rifiutano di applicare le decisioni della Commissione in fatto di ridistribuzione degli immigrati e alla Germania, il cui avanzo commerciale, da alcuni anni, è superiore al 6% del PIL, il che è espressamente vietato dai Trattati.
     Dal commissario Moscovici al presidente Juncker, si è scelto di reagire in modo diplomatico. Non c'è stata una hit back, a conferma della comprensione di Bruxelles per la sfida referendaria che attende il governo italiano. La Commissione UE, come si sa, aspetta anche la primavera inoltrata del 2017 per spulciare le carte della finanza pubblica dei singoli Paesi e c'è dunque tempo per chiedere quell'aggiustamento dei conti che sarebbe delittuoso pretendere da Renzi in piena campagna referendaria. Conti da aggiustare in ogni caso, quale che sarà l'esito del voto del 4 dicembre. Perché in caso di vittoria del NO, sia che Renzi rimanga a palazzo Chigi sia che Mattarella, preso il boccino della crisi di governo, decida un'altra investitura, sempre con Bruxelles si dovranno fare i conti.
     Questo percorso è obbligato e prescinde dall'esito del referendum. Si può comprendere come dal fronte del NO arrivi con insistenza la richiesta di nuove elezioni in caso di vittoria al referendum. Arriva da quella parte maggioritaria di anti-europeisti che preferisce la sfida elettorale piuttosto che impegnarsi in un braccio di ferro con l'Europa senza aver capitalizzato il risultato elettorale. Si tratti di Grillo o di Salvini, quando sarà tolta la sordina alle richieste di Bruxelles tutti gli alibi sono destinati a cadere. Si comprende la fretta messa ancora oggi da Giorgia Meloni quando ricorda che "il referendum non si decide nel centrodestra ma è il centrodestra che si decide con il referendum". Per la leader di Fratelli d'Italia, come del resto per il leader della Lega, subito dopo una vittoria del NO ci sono soltanto le urne. Anche per Berlusconi e Parisi le elezioni sono un passaggio obbligato, ma non prima di aver riscritto la legge elettorale, obiettivo per il quale ci vuole un esecutivo, questo o un altro. Sembra una differenza di lana caprina, ma in politica, si sa, è sulle sfumature che si consumano fratture insanabili o si costruiscono alleanze impensabili.