domenica 28 giugno 2015

SCONFITTI TSIPRAS E I POPULISMI, MA L'EUROPA PAGA UN PREZZO ALTO


di Massimo Colaiacomo


     Buone e cattive notizie arrivano dall'ultimo Eurogruppo. Quella buona: il populista Tsipras, coerente con il mandato elettorale chiesto e ottenuto in gennaio dal popolo greco, ha sbattuto la porta e, sempre in coerenza con la vocazione populista, rimette a un referendum popolare, da celebrare domenica prossima, 5 luglio, la decisione se accettare o meno le proposte dei creditori. La notizia cattiva, invece, è un'altra: la cancelliera Angela Merkel non ha saputo esercitare fino in fondo la leadership politica europea mai come adesso a portata di mano. La Germania si è fatta portavoce della finanza presso il governo greco e la debole mediazione politica di Merkel non è riuscita a cambiare di una virgola le condizioni poste dal Fmi, inflessibile nell'esigere il rimborso di 1,6 miliardi di euro entro martedì 30 giugno.
     La buona notizia riguarda soprattutto quei Paesi - Spagna, Portogallo, Irlanda - i cui governi, a differenza di quello greco, hanno somministrato le dure cure fiscali imposte dalla trojka economica e cominciano solo adesso a coglierne i primi benefici. Ma quello che più stava a cuore al premier spagnolo Mariano Rajoy, impegnato a novembre in una dura prova elettorale, era dimostrare ai partiti neo-populisti di casa propria - Podemos e Ciudanos - che le loro scorciatoie politiche possono portare la Spagna al disastro finanziario e sociale non molto diverso da quello che vive la Grecia.
     Per quanti si ostinano a considerare l'Italia ombelico del mondo, le notizie provenienti dall'Eurogruppo sono in chiaroscuro. Buone notizie per Renzi, ovviamente, e pessime per Salvini, Grillo e i loro satelliti (Forza Italia da un lato e, dall'altro, la sinistra Pd): i mancati sconti e il rifiuto di accettare l'ennesimo rinvio del rimborso del debito al governo greco sono il segnale più evidente che ogni braccio di ferro prima o poi arriva a conclusione. Tsipras si prepara a percorrere il percorso di guerra che attende ogni populista: i creditori vogliono indietro i loro soldi e dettano l'agenda di politica economica e sociale al governo greco, Tsipras chiederà ai greci se accettano i nuovi, aspri sacrifici chiesti dal Fmi. È l'equazione perfetta cara a ogni populista chiamato al governo: egli attiva la democrazia diretta e ciò gli consente di non assumere mai la responsabilità personale delle scelte ma di rimetterla al giudizio del popolo. La democrazia delegata, quando viene esercitata, obbliga chi governa ad assumere decisioni anche impopolari se ritiene che queste vadano nell'interesse del Paese. Rajoy è un leader, come in Italia non saranno mai né Salvini né Grillo e come mai è stato Berlusconi.
     Ma l'Eurogruppo ha anche confermato la balbuzie politica in cui versa l'Europa. Angela Merkel non ha fatto conoscere nulla dell'orizzonte politico, del disegno strategico che lei immagina per l'Europa. La cancelliera tedesca è in una condizione di afasia politica, costretta da un lato a farsi portavoce delle istituzioni finanziarie e impedita, dall'altro lato, a esercitare una leadership politica da tutti invocata che l'avrebbe dovuta porre in rotta di collisione col Fmi ma non con la Bce. È vero che anche Merkel deve presentarsi al Bundestag e chiedere il voto, e il Parlamento tedesco, visti gli umori anche della Spd, avrebbe bocciato sicuramente l'ennesimo piano di salvataggio per la Grecia.
     Il populista Tsipras, con una viltà tipica dei populisti, che cosa chiederà nel referendum? Che domanda sarà rivolta agli elettori greci? Sarà chiesto loro se vogliono uscire dall'euro oppure se accettano o rifiutano le condizioni poste dai creditori? Tutto lascia prevedere che sarà la seconda domanda quella rivolta ai greci. I quali, a larga maggioranza, diranno che respingono le condizioni poste dai creditori ma non potranno dire se, in conseguenza di questa scelta, ritengono che si debba uscire o rimanere nell'euro.
     L'ambiguità del quesito serve a Tsipras per riaprire all'indomani del referendum il negoziato con l'Europa, da una posizione, ovviamente, ancora più debole. Il rischio per lui è che al mezzo default della Grecia sul debito pubblico segua nel Paese un'ondata di proteste sociali molto forti. Il default, infatti, comporta che la Grecia dovrà stare per alcuni anni fuori dal mercato dei titoli di Stato e, nello stesso tempo, dovrà imporre le condizioni restrittive chieste dal Fmi. Antonio Samaras, leader del centrodestra, ma anche il socialista Andrei Papadopoulos sono pronti a prendersi la rivincita contro Tsipras.

sabato 13 giugno 2015

SULL'IMMIGRAZIONE CORTO-CIRCUITO POLITICO DELLE DESTRE EUROPEE

di Massimo Colaiacomo



     La politica italiana è stata risucchiata dentro il polverone delle polemiche sull'immigrazione. Si fa fatica già in condizioni normali a rintracciare il filo di una strategia politica, è facile immaginare quali difficoltà abbiano incontrato nell'ultima settimana i corrispondenti da Roma che devono raccontarci ai lettori dei loro Paesi.
     Perché le difficoltà sono così tante? Per la ragione che la destra italiana, vuoi anche per la coincidenza dei ballottaggi, alimenta il fuoco della paura - peraltro legittima e fondata - di un'invasione in corso dalle coste del Nord Africa. Il che è assolutamente vero e innegabile, anche se il governo ha provato a negarlo fino a qualche giorno fa. Per questo motivo Renzi è stato messo sotto accusa e i capi di imputazione, in un clima politico reso incandescente anche da sanguinosi episodi di cronaca (l'aggressione del bigliettaio a Milano, con un braccio amputato a opera di immigrati latino-americani), diventano un fardello mediatico insopportabile anche perché la sponda europea che Renzi e Alfano hanno a lungo inseguito è scomparsa definitivamente nelle nebbie nordiche.
     Che cosa succede allora e che cosa è che sta rendendo politicamente fragile la strategia del centrodestra fino a evidenziare l'isolamento dell'Italia in Europa? Sta accadendo quello che il principio della eterogenesi dei fini si diverte a far accadere, beffando la volontà umana e aggirando le astuzie di chi si ritiene più furbo degli altri. Il centrodestra italiano, insomma, fra urla e strepiti contro il governo (giusto così: ci sono i ballottaggi) è costretto ad alzare sempre di più il tiro: riportare gli immigrati in Libia, mettere in piedi un blocco navale, costruire sulle coste libiche i campi profughi, non versare all'Europa la quota annuale di bilancio e via dicendo.
     Ripeto: tutto assolutamente normale, se si legge la vicenda con gli occhiali dell'interesse elettorale. Ma anche tutto, diciamolo, semplicemente ridicolo perché il centrodestra si sta dando la zappa sui piedi come peggio non potrebbe. Quando Salvini, e Forza Italia al seguito, chiedono l'intervento dell'Europa e l'accusano di egoismo e di cecità politica, non hanno ancora capito che l'Europa non muoverà un dito per le stesse identiche ragioni che spingono Salvini o Toti (!?)  a dire "neanche un immigrato in più nel mio orto"?
     La destra europea non è diversa dalla destra italiana. Salvini&C non vogliono gli immigrati? E perché mai dovrebbe volerli Hollande o l'UMP in Francia impegnati a spegnere il vulcano Le Pen? E perché mai dovrebbe volerli David Cameron con il rischio di rianimare l'UKIP da poco sconfitto? O Angela Merkel alle prese con i nazionalisti di Alternätive fur Deutschland? Salvini rimprovera all'Europa di non volere quello che neppure lui vuole. Il risultato del corto-circuito politico-mediatico è sotto i nostri occhi: lo sfaldamento di un già indebolito sistema-Paese che proietta sulla scena europea tutte le sue divisioni e le sue liti.
     Diverso sarebbe il caso di un governo costretto ad afferrare il bandolo della matassa, incalzato da un'opposizione repubblicana e nazionale disposta a sostenerlo in Europa con rivendicazioni forti e mirate. Come sempre Stefano Folli ha letto gli avvenimenti bucando la superficie del chiacchiericcio per cogliere la sostanza delle cose quando ha ipotizzato una qualche forma di solidarietà nazionale per fronteggiare l'emergenza immigrazione. Rimane il problema che un'opposizione "repubblicana e nazionale" in Italia è di là da venire.

sabato 6 giugno 2015

PASSERA A MILANO, MARCHINI A ROMA, IL CENTRODESTRA SAPRÀ COGLIERE L'OCCASIONE?

di Massimo Colaiacomo

     Pochi hanno notato la battuta, lasciata cadere lì da Matteo Salvini, con apparente nonchalance, quando l'altro giorno, riferendosi alla necessità di nuove elezioni in Campidoglio, aveva candidato Alfio Marchini come successore dell'attuale sindaco. È vero, si può osservare, che la Lega non ha una sua forza elettorale nella Capitale, ma in quel caso Salvini è stato lesto a strappare la battuta a Silvio Berlusconi al quale si attribuì, non sappiamo se a torto o a ragione, una corrente di simpatia per l'erede di una delle più blasonate dinastie di "palazzinari" romani.
     Marchini ha tentato la fortuna alle ultime elezioni comunali, presentandosi con una sua lista autonoma e in soli 3 mesi ha raggranellato il 10%. Sondaggi recenti lo accreditano di un consenso intorno al 20%. Se merito della sua linea politica o delle non poche castronerie dell'attuale giunta e sindaco non si sa, certo è che l'ing. Marchini ha conquistato un suo pubblico. Ha portato nella battaglia politica una linea di dignità. Fa scarse concessioni al populismo, sfiora la linea dura sulla questione sull'immigrazione e sui campi nomadi ma, nel complesso, trasmette un'immagine composta, lontana miglia dal profilo sbracato che prevale oggi nella politica romana.
     Se il centrodestra vuole avere serie chances di riconquistare il Campidoglio, farà bene a collocare il nome di Marchini in cima alla lista delle candidature preferite. L'uomo ha dimostrato qualità notevoli sul piano della comunicazione, si è tenuto lontano dalle strategie di alleanze e, insomma, ha costruito una posizione autonoma visibile e spendibile quanto a credibilità personale. Senza contare le ottime entrature negli ambienti imprenditoriali romani anche se Marchini si tiene lontano dalla vita salottiera alla quale si attribuisce un'influenza notevole nel determinare il successo politico di un candidato mentre, nella realtà, non conta un fico secco.
     E se il centrodestra, volendo proprio esagerare in termini di intelligenza politica, appaiasse alla candidatura di Marchini quella di Corrado Passera a Milano? Berlusconi dovrebbe considerare seriamente questa possibilità. Anche se la biografia sembra essergli contro, Passera, non diversamente da Marchini, rappresenterebbe un ottimo outsider nel panorama ambrosiano. Sì, ha un passato come ministro nel non troppo amato governo Monti (non troppo amato, ma sempre appoggiato da Berlusconi) ma questo handicap è agevolmente superato da altri vantaggi. Passera ha poco più che una sigla a disposizione (Italia unica), non ha un partito organizzato e questa circostanza gli da sufficiente forza e autonomia. Il centrodestra dovrebbe cogliere queste due occasioni preziose per avviare un'autorigenerazione attraverso quella che si potrebbe definire una circolazione extracorporea: elaborare una linea politica di marcata impronta liberale e conservatrice per affidarne la gestione a due personalità non invischiate nella routine quotidiana della politica.
Saprà Berlusconi cogliere queste improvvise opportunità? Oltretutto, tali scelte renderebbero per lui meno urgente la questione affannosa del riordino di Forza Italia dove da riordinare non c'è poi molto essendo una ditta allo sbaracco. Un altro non trascurabile vantaggio è che dietro personalità esterne ai partiti, sarebbe più facile comporre il puzzle delle alleanze superando di slancio i veti di questo o di quello.

venerdì 5 giugno 2015

IL BLUFF DI SALVINI COSTERÀ CARO AL CENTRODESTRA


di Massimo Colaiacomo

     Fra le tante varianti del populismo europeo, quella proposta dal segretario della Lega Matteo Salvini è senz'altro la più abborracciata o, se si preferisce, la meno plausibile sul piano della cultura politica. La sua esibizione (termine quanto mai appropriato per un improvvisatore come lui) a Santa Margherita Ligure ha lasciato il parterre freddo se non proprio ostile. Salvino ha dimostrato di non possedere l'abc della politica economica. È mutevole su questioni sociali, come i campi di accoglienza per i rom ma, ancora più grave, ha inanellato le solite fesserie sull'Europa e sugli eurobamba.
     Immaginare di vincere una competizione elettorale alleandosi con Salvini è un'operazione persa in partenza e soltanto la disperazione in cui lo ha messo la batosta elettorale può suggerire a Berlusconi un simile passo. Salvini è un trascinatore di piccole folle arrabbiate, sa solleticare gli istinti regressivi nelle persone ma non ha uno straccio di prospettiva politica da offrire al Paese. È quel che si dice un acchiappavoti, quando quelli da prendere sono pochi e in aree delimitate. Quanto all'idea stravagante di una flat tax, una volta al 15, un'altra al 20%, è il punto più alto del bluff di Salvini. Non essendo una proposta ma soltanto una suggestione (il populismo vive di suggestioni e si tiene lontano dalle proposte), Salvini ne da le versioni più disparate e colorite. Se un aspirante premier progetta di finanziare un imponente sgravio fiscale tassando l'attività delle prostitute, il problema non è dell'aspirante premier ma di chi, nel caso Silvio Berlusconi, pensa di ricostituire un capitale di consensi alleandosi con un personaggio improbabile.
     È ovvio che nessun politico serio di destra, non ce ne sono in Italia ma in Europa si trovano, potrà mai avere un'interlocuzione con tribuni improvvisati come Salvini. Le tasse vanno tagliate, ma un conservatore e un liberale serio lo fa nell'unico modo possibile: tagliando la spesa pubblica con precisione chirurgica - dove è possibile - ma usando il machete se si tratta di quel fiume in piena che è il debito italiano. E un conservatore liberale la smette anche di distinguere fra spesa pubblica "improduttiva" e produttiva (altro step di rientro dal populismo) per la semplice ragione che la spesa pubblica è tutta produttiva dal momento che eroga stipendi.
     La spesa pubblica va tagliata laddove serve, punto e basta. David Cameron ha innalzato le tasse universitarie di due e tre volte, a seconda della facoltà, ha privatizzato tutte le aziende municipalizzate (in Italia non è stato fatto ed è lecito dubitare che sarà mai fatto: sono una delle greppie da cui ciucciano soldi i politici). Per tornare con i piedi per terra, la domanda che è doveroso porsi è: dopo lo show rancido di Santa Margherita Ligure, c'è ancora qualcuno nella destra italiana che voglia prendersi la briga di costruire un fronte conservatore e liberale che metta Salvini nel mirino perché Salvini e non Renzi o chiunque altro è il vero e più grande ostacolo alla vittoria del centrodestra? Sarkozy in Francia e Cameron in Gran Bretagna hanno vinto le rispettive competizioni conducendo una campagna elettorale rispettivamente contro Marine Le Pen e Nigel Farage. Ma loro, si sa, sono due personaggi non solo ambiziosi ma culturalmente consapevoli che ogni ambizione va sorretta da un grande cuore e da scelte nette e senza sfumature. 
     
     

martedì 2 giugno 2015

RENZI NON È PIÙ SOLO AL COMANDO, CENTRODESTRA DECAPITATO

di Massimo Colaiacomo


     La sintesi migliore della confusione provocata dal voto regionale è il quadretto offerto dagli esponenti politici ospiti ieri sera del programma di Bruno Vespa. Tutti hanno rivendicato, con sfumature e perifrasi che nulla hanno da invidiare al torpore lessicale della prima Repubblica, di essere usciti "sostanzialmente" vincitori dalle urne o con "lievi flessioni" nei voti ma "con un più forte radicamento sul territorio". La pallida abbronzatura di Angelino Alfano non è evaporata di fronte al disastroso risultato elettorale del suo partito. Tutti hanno preso la fanfara per incamminarsi, ciascuno con il proprio partito, verso un nuovo traguardo politico più promettente di quello appena raggiunto.
     Pd e Forza Italia, insieme ai grillini, sono le forze uscite più bastonate dalle urne. Sconfitti, per ragioni diverse quanto si vuole, e duramente puniti dagli elettori. Forza Italia è addirittura collassata e la vittoria "fantascientifica" (definizione di Cacciari) acciuffata da Toti in Liguria è un rattoppo troppo piccolo per nascondere i consensi inghiottiti nel baratro della politica. Forza Italia non è più, né Silvio Berlusconi potrà essere più il federatore di alcunché. Il leader leghista Matteo Salvini scalpita, appena con un filo di diplomazia, per mettere le mani sul volante di un centrodestra privo di una direzionalità che non sia quella della Lega.
     Il vuoto in cui annaspa il centrodestra è soprattutto culturale, prima ancora che politico. Tramontata per sempre la stella elettorale di Berlusconi che tutto illuminava, e riempiva di consensi i forzieri del partito, Forza Italia è diventato davvero quel partito di plastica immaginato dai suoi avversari agli esordi. Oggi nessun esponente del centrodestra, sia Salvini o un altro, è in grado di delineare un'idea di società e di Nazione e di immaginare la cornice europea e mondiale in cui collocare quell'idea. Salvini è molto bravo a solleticare e assecondare le paure degli elettori, ma per governare bisogna saper trovare una risposta a quelle paure e Salvini non ne ha trovata una sola. 
     Il Pd costruito a immagine e somiglianza di Renzi è finito in un fortunale. Il premier ha rilanciato la sfida e promette, dopo la débâcle elettorale, di mettere mano al partito e applicare l'antico principio: dentro dentro, fuori fuori. Il pugno di ferro non partorirà il risultato sperato da Renzi perché "fuori" dal Pd la minoranza dovrebbe necessariamente mettersi di traverso sulle riforme costituzionali in Senato. Dove Renzi continua a confidare sull'aiuto di un nutrito drappello di senatori forzasti pronti a mollare gli ormeggi. Una diaspora di Forza Italia non sarebbe sgradita allo stesso Salvini, che sarebbe così agevolato nel suoi propositi di annessione di quel che resta di FI.
     A giudicare dalle prime reazioni al voto, non sembra che dentro Forza Italia abbiano ben chiaro quel che è accaduto. Il corteggiamento a Salvini con la profferta di essere il socio di maggioranza nella nuova alleanza è soltanto l'ultimo abbaglio di Berlusconi. Non aver capito che Salvini è il principale avversario da combattere senza tregua porterà FI all'estinzione. Sempre che qualcuno dei big più presunti che reali non decida di muoversi e dare una scossa al partito.