lunedì 18 dicembre 2017

SI AVVICINA IL VOTO E LE CONTRADDIZIONI DEL M5S (E LEGA) ESPLODONO



di Massimo Colaiacomo

     A mano a mano che la campagna elettorale entra nel vivo, gli slogan e le parole d'ordine devono cedere il passo a comportamenti necessariamente ragionevoli e con argomentazioni meno precarie rispetto a quelle fin qui mostrate. Si tratta di un cambio di passo obbligato se si vuole abbassare il livello di scetticismo dell'opinione pubblica e convincere una quota di indecisi a recarsi alle urne domenica 4 marzo. Lo spirito ribellista fin qui visto nei comportamenti delle forze "radicali" ha seminato quanta più rancore poteva, e sembra difficile che possa ancora allargare i consensi in vista del voto.
     Ecco allora la necessità, soprattutto per le forze che hanno puntato molto sulla carica anti-sistema, di resettarsi per trovare una lunghezza d'onda che le metta in sintonia con l'opinione pubblica  moderata o comunque meno incline all'avventurismo. Impresa non sempre facile, dopo aver avvelenato i pozzi per mesi quando non per anni. Ma i nodi sono comunque destinati a venire al pettine. Ne sa qualcosa il candidato premier dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, e l'eterno arrembante del centrodestra, Matteo Salvini. Succede, così, che su grani questioni che toccano l'interesse nazionale - si pensi all'appartenenza alla UE e alla permanenza nell'euro - sono grillini e leghisti, al momento a dover pagare un prezzo in termini di credibilità. Dopo essersi spinti molto avanti nelle critiche all'Europa e alla moneta unica (qualcuno ricorderà il libriccino esibito fino a qualche tempo fa da Salvini e dedicato all'uscita dall'euro) fare macchina indietro o comunque aggiustare il tiro significa esporsi a dei contraccolpi non irrilevanti in termini di immagine e di credibilità.
     Ne sa qualcosa il buon Di Maio, costretto da qualche giorno a barcamenarsi  sulla questione dell'euro. Restare o uscire? E come può garantire stabilità all'Italia un premier che ha in programma di lasciare l'Europa e la sua moneta? Gli escamotage fin qui trovati sconcertano per la loro ingenuità. Dire che sarà il popolo a decidere attraverso il referendum (non previsto dalla Costituzione su materie come la politica estera e l'appartenenza ad alleanze internazionali), e assicurare che lui personalmente voterà per uscire dall'euro, sono posizioni in stridente contrasto con l'immagine rassicurante di leader moderato e "stabile". Non è meno stravagante l'idea, in caso di una vittoria elettorale ma senza la maggioranza, di rivolgere un appello ai partiti la sera stessa dei risultati, senza peraltro costruire alleanze o coalizioni "termini che vanno banditi dal vocabolario". In ogni democrazia parlamentare, se ci sono termini che hanno una cittadinanza piena nel lessico politico sono proprio "alleanza" e "coalizione", come ben sanno i tedeschi, gli austriaci e altri Paesi.
     Non appare meno semplice la posizione di Salvini. Si prenda la vicenda austriaca. Il governo di centrodestra appena insediato ha lanciato una vera e propria provocazione annunciando che nel 2018 sarà concesso il passaporto, e quindi la doppia cittadinanza ai cittadini di lingua tedesca residenti in Alto Adige. Ora, un partito che abbia ambizioni nazionali, come ha la Lega di Salvini, non può tacere su questa materia. Salvini, invece, ha pensato bene di fare esattamente l'opposto e indicare nel governo austriaco il modello a cui intende ispirarsi. Con ciò collocandosi all'opposto delle critiche  all'Austria rivolte da Giorgia Meloni. Per Berlusconi c'è un gran lavoro da fare per tenere in piedi una coalizione attraversata da spaccature profonde più di quanto non appaia.
     Appare del tutto evidente come da qui a marzo gli elettori si troveranno alle prese con una campagna elettorale convulsa e confusa. E se il M5s pensa di tenere alta la tensione sulla vicenda bancaria per mettere la sordina alle proprie contraddizioni, dovrà arrampicarsi sugli specchi ogni giorno alla ricerca di argomenti e spunti di qualche rilievo. Salvini dovrà anche considerare che il governo austriaco al quale dice di volersi ispirare ha indicato nell'Europa e nella moneta unica due riferimenti irrinunciabili. A conferma che anche le forze "radicali", una volta a contatto con la realtà del governo, devono mettere in naftalina certi slogan.   

sabato 16 dicembre 2017

IL VOTO DI PRIMAVERA COME IL MERCATO DELLE ILLUSIONI (E DELLE PAURE)



di Massimo Colaiacomo

     In generale i partiti fanno leva su due opposti sentimenti che dominano nell'opinione pubblica alla vigilia di un voto ritenuto importante o presentato come tale: la disponibilità dell'elettore a lasciarsi sedurre dalle promesse, illusorie quanto si vuole, e insieme la paura dello stesso elettore per il salto nel vuoto o semplicemente per l'incertezza che potrà scaturire dal voto. Si tratta di due sentimenti nient'affatto opposti, ma stimolati dalle forze politiche nella speranza di ottenere, da un lato, il consenso di quella vasta parte di elettorato che ha sofferto di più i morsi della crisi di questi anni, e, dall'altro lato, allarmare quella parte di elettori che temono di essere chiamati a pagare il conto fiscale della crisi dopo esserne rimasti al riparo.
     Si spiega così il doppio binario seguito dai partiti, di centrodestra e di centrosinistra, che hanno un solo avversario nel movimento Cinquestelle. A ben vedere non esistono differenze vistose nelle posizioni fin qui espresse da Forza Italia, Lega e PD. In attesa di conoscere i programmi, ammesso che saranno mai resi noti, il movimento di Beppe Grillo si è portato avanti con il lavoro e, per grandi linee, ha reso noto i punti del suo programma. Esso prevede: reddito di cittadinanza ai disoccupati e sostegno alle famiglie incapienti; riduzioni fiscali per le piccole e medie imprese; sostegno all'innovazione tecnologica. Sia chiaro, anche gli altri partiti hanno sparato le loro cartucce: Forza Italia e Lega introdurranno la flat tax, cioè una tassa unica che prevedono fra il 25% e il 30%; le pensioni minime saranno di mille euro per tutti. Il PD insisterà invece sui bonus, e assicura che sarà esteso quello degli 80 euro ai pensionati e alle altre categorie rimaste escluse.
     C'è, come si vede, un'attitudine alla spesa fatta apposta per portare una ventata di ottimismo anche nel più incallito pessimista degli elettori. Viene allora da chiedersi: perché mai gli elettori recalcitrano tanto e disertano le urne? Quali altre paure, oltre all'incertezza del dopo voto e al salto nel vuoto, tengono l'elettore lontano dal seggio? Insomma, se vincono i grillini, come sostiene Berlusconi, l'Italia finirebbe nelle mani di un manipolo di pauperisti, di persone che "non hanno mai lavorato", capaci solo di coltivare l'invidia e il rancore sociale. C'è, come in ogni polemica politica, una parte di verità nelle parole di Berlusconi. Bene, allora gli elettori sensibili a queste argomentazioni dovrebbero recarsi in massa per impedire che un tale pericolo prenda forma. Invece, alle politiche del 2013 o al turno amministrativo del 2016 come alle ultime elezioni regionali in Sicilia, gli elettori se ne stanno a casa o altrove e ai seggi si recano in una misura vicina o inferiore al 50% degli aventi diritto.
     È come se gli elettori, posti di fronte alla paura del salto nel buio, avessero deciso di esorcizzarla lasciando a coloro che esercitano il diritto del voto di decidere anche per gli altri. Ė curioso vedere come la paura del futuro finisca per mescolarsi al disinteresse per il futuro stesso con ciò generando un comportamento schizofrenico. Questo comportamento ha trovato una duplice spiegazione negli analisti: da un lato, la perdita di credibilità del ceto politico; dall'altro, la rassegnazione degli elettori convinti che chiunque uscirà vincitore dalle urne non potrà mai raddrizzare la rotta e risolvere i problemi dell'Italia. Un elettore scettico sul "chi" votare e "per fare che cosa" è anche un elettore disponibile a fare un bagno di realismo, mettendosi alle spalle illusioni e promesse. Sarà forse il caso di chiedersi come mai, al netto degli errori politici commessi nella parte finale del suo governo, la lista di Scelta Civica di Mario Monti, cioè del premier tanto avversato per la riforma delle pensioni e per la mini-patrimoniale, si sia presentata alle elezioni e abbia raccolto oltre il 15%. Che cosa ha spinto gli italiani a tributare un consenso tanto ampio e inimmaginabile sulla carta? Sicuramente la serietà del personaggio, ma più probabilmente il linguaggio di verità e di concretezza con cui seppe rivolgersi al Paese. Nel 2013 l'affluenza alle urne, in calo di quasi 5 punti rispetto al 2008, segnò un ragguardevole 75% alla Camera e al Senato, traguardo che sembra stellare da raggiungere nel marzo 2018.
     Non ci sarà nessun Mario Monti in campo alle prossime politiche. L'Europa sembra così remota dalle vicende italiane che nessuno dei partiti in campo spende neanche più una parola per criticarla. Il "montismo" ha lasciato scoperto un'area non piccola dell'elettorato italiano. Ma non c'è nessun leader politico dotato del coraggio necessario per coprire quella domanda di realismo e di concretezza. Per questo al prossimo voto mancherà almeno quel 15% di elettori.

lunedì 11 dicembre 2017

PRI, IL CONGRESSO DELLA SMEMORATEZZA


di Massimo Colaiacomo


     Quale rapporto può esistere fra un partito come il PRI, protagonista di una storia gloriosa al punto da identificarlo con i momenti più alti dell'Italia pre-unitaria e con la nascita della Repubblica, e la miriade di sigle e acronimi che si affannano attorno a Berlusconi o a Renzi alla ricerca di uno strapuntino alla Camera e al Senato? Sulla carta sembra impossibile stabilire un qualsiasi rapporto fra quel che residua del PRI e le fioritura di sigle dietro le quali ci sono frammenti e schegge di partiti quando non vere e proprie liste personali. Sulla carta, perché nella realtà le distanze sono meno siderali di come si potrebbe immaginare. Il PRI uscito dal suo 48° congresso celebrato a Roma è oggi un acronimo nell'oceano di acronimi che assediano Berlusconi e Renzi alla disperata ricerca di uno scranno parlamentare o per riconfermare qualche uscente senza più voti o per appagare qualche ambizione familista.
     Messa così, la valutazione può apparire severa o ingenerosa. Allora vediamo di spiegare che cosa è finito del Partito Repubblicano e che cosa si cerca di spacciare per vivo e vitale ma che vivo e vitale non è più. Il PRI modellato negli anni '60, nel passaggio dalla stagione di Oronzo Reale a quella di Ugo La Malfa, si impose sulla scena politica come una forza minoritaria nei numeri ma capace di proporre straordinarie sfide politiche alle "due chiese", cioè DC e PCI, fino allora vissute e prosperate grazie alla contrapposizione ideologica Est-Ovest che aveva fatto dell'Italia una linea di confine.
     La Malfa aveva intuito con largo anticipo sui tempi la condizione paralizzante di quella realtà e pose a Moro, a Ingrao, Amendola e Berlinguer la questione dello sviluppo e i termini in cui essa andava affrontata in una società capitalistica complessa, irriducibile agli schemi dell'ideologia e del classismo. In un dibattito divenuto famoso, a Ravenna, nel 1963, La Malfa chiese a bruciapelo a Ingrao e Amendola che cosa avrebbero scelto di fare trovandosi con una sola gallina e niente altro in dispensa. "Mangiare la gallina una volta per tutte, oppure accontentarsi di prendere un uovo al giorno nella speranza di avere prima o poi altre galline". Il capitalismo-gallina partorito dalla fantasia ugolamalfiana rendeva bene l'idea, nell'Italia impegnata in quegli anni nell'imponente opera di riforme e di svecchiamento delle proprie strutture sociali e delle infrastrutture materiali, della complessità delle politiche economiche di bilancio e delle politiche sociali necessarie per rendere duraturo e sostenibile lo sviluppo avviato con i governi Fanfani.
     Il partito raccolto da Ugo La Malfa sull'orlo del baratro e ridotto al lumicino in Parlamento, si salvò e recuperò rapidamente il proprio ruolo negli equilibri politici e nella società italiana perché seppe trasformarsi in una fucina di idee e di programmi. In una parola, il concetto di modernità, non ancora una categoria ideologica negli anni '60, trovò in La Malfa e nelle radici della sua cultura azionista, ma soprattutto fabiana, un interprete straordinario che sapeva leggere le insufficienze e le inadeguatezze di una società in via di trasformazione ma sapeva coglierne anche le ansie di progresso.
     Non fu il PRI a proporsi quale "coscienza critica" nei governi di centro-sinistra, furono piuttosto le circostanze e i ritardi della sinistra, ancora chiusa nel recinto dell'ideologia marxista, come pure quella forma di carezzevole e rassegnato conservatorismo della DC a fare del PRI il perno di una stagione riformista senza salti nel buio. La Malfa seppe contrapporsi a quello che Alberto Ronchey battezzò come "pansindacalismo", alba di ogni concertazione costruita sul debito pubblico, e nello stesso tempo polemizzare con Giovanni Agnelli sull'unificazione del punto di scala mobile.
     Che cosa rimane di quella stagione e di quella successiva, non meno straordinaria, vissuta dal PRI nel segno di Giovanni Spadolini? Nel partito attuale non rimane niente. A parte gli appelli ineluttabili dell'anagrafe, delle idealità e dei valori repubblicani nulla è circolato nel 48° Congresso. Due giorni di dibattiti sterili su quali alleanze costruire, senza mai chiedersi: per fare che cosa? Il congresso ha stabilito che per il partito è decisivo avere un parlamentare purchessia. Qualcuno non disdegnerebbe un dialogo con i grillini per giustificare il quale è stato addirittura richiamato il confronto di La Malfa con il PCI. Di fronte a simili spropositi come ha risposto il Congresso? Si proceda all'alleanza con Denis Verdini! Un partito che oscilla da Grillo a Verdini è evidentemente un partito senza una sia pur vaga idea di dove andare. Per non dire poi del "che fare". In due giorni e mezzo non un'idea o uno spunto di programma è uscito dal congresso. Il vuoto pneumatico. Tutti preoccupati di spiegare perché in quella città ci si allea con la Lega, in quell'altra con il PD e in Sicilia con il centrodestra.
     È mancato il propellente decisivo nella vita di ogni formazione politica: l'orgoglio della propria storia e l'orgoglio della propria autonomia.  Un partito senza idee può solo prostituire il proprio simbolo per ottenere un predellino in Parlamento ma deve rassegnarsi all'irrilevanza e alla fine. Impelagarsi, come ha fatto il PRI, in liti giudiziarie che durano da una decina d'anni significa costringere il partito di Mazzini e di Cattaneo, di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, a un'agonia straziante e immeritata. Il CN convocato per sabato prossimo a Roma ha due possibilità davanti a sé: eleggere un segretario capace di issare la bandiera dell'autonomia e chiamare attorno ad essa un gruppo di audaci pionieri, oppure scegliere l'ennesimo necroforo di una lunga serie. Se dovesse prevalere la seconda opzione, che almeno il rito sia breve e composto.     
   

sabato 25 novembre 2017

CARLO COTTARELLI LEADER DEL PARTITO CHE MANCA ALL'ITALIA

Dopo il monito a partiti e Parlamento a fare di più per arginare la crescita fuori controllo del debito pubblico, l'ex commissario alla spending review, licenziato dall'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, spiega perché non si può tornare indietro dalla riforma Fornero. Con le elezioni alle porte, si scatena la hybris dei partiti e la competizione fra i diversi populismi lascia intravvedere un 2018 molto complicato per la finanza pubblica.


di Massimo Colaiacomo


     A chi si rivolge il prof. Carlo Cottarelli, fresco editorialista a La Stampa diretta da Maurizio Molinari, quando smonta, con argomenti semplici e comprensibili, la valanga di promesse elettorali  che da qualche giorno imperversa nell'informazione e sui siti? A Berlusconi, che promette in caso di vittoria del centrodestra, di portare a 1000 euro al mese "per tredici mesi" le pensioni minime, dentiere e cinema gratis per gli anziani? A Renzi e al PD che annunciano l'istituzione permanente del bonus bebè, la cancellazione (forse) del super-ticket sanitario, l'estensione degli 80 euro ai pensionati? A Di Maio e ai Cinquestelle, che promettono il reddito di cittadinanza di 780 euro a 4 milioni di disoccupati e alle famiglie "incapienti"? Alla Cgil di Susanna Camusso, che vuole ampliare la platea dei lavori cosiddetti usuranti e quindi l'accesso alla pensione a qualche centinaio di migliaia di lavoratori, aggirando la riforma Fornero? A Bersani, Speranza e D'Alema che vogliono la riforma del jobs act e la cancellazione del super-ticket? O, forse, si rivolge a Salvini che ribadisce ogni tre per due che l'abolizione della riforma Fornero sarà il primo atto di governo del centrodestra in caso di vittoria?
     È verosimile che il prof. Cottarelli si rivolga, con le sue analisi impietose ma realistiche, a tutti loro e a ciascuno di essi, ma, soprattutto, si rivolga al buon senso dei lettori de La Stampa per metterli in guardia dalle sirene del populismo. La piccola antologia delle promesse elettorali, largamente incompleta, è soltanto un anticipo dello stordimento elettorale cui saremo tutti sottoposti da qui al giorno delle votazioni. Essa è anche l'espressione compiuta di un Paese costretto a scegliere i propri governanti all'interno di un campionario di populismi che è difficile trovare negli altri Paesi europei.  La hybris dei partiti, difficile da tollerare in condizioni normali, diventa insopportabile quando si avvicina il giorno del giudizio elettorale. I moniti di Cottarelli ci ricordano le fragilità strutturali (e secolari) che bloccano lo sviluppo dell'Italia. Quando squaderna le cifre del debito pubblico e lancia l'allarme sulla sua sostenibilità, non lo fa certo per il piacere di calarsi nel ruolo di bastian contrario o per dare ragione al vice presidente dell'Eurogruppo, il finlandese Jyrki Katainen. Più semplicemente, Cottarelli ci ricorda che il giudizio sul debito è quello che viene dai mercati quando prezzano il rischio dei nostri titoli di Stato. L'Europa, la cancelliera Merkel o l'euro non hanno nulla a che vedere con il "rischio Italia" perché esso precede tutto il resto, essendo retaggio di politiche economiche di bilancio sempre pensate e attuate in chiave elettoralistica.
     Forse sarà il caso per i sondaggisti, attesi a un superlavoro nei prossimi mesi, di indagare più a fondo sulle ragioni che hanno portato negli ultimi anni metà degli elettori a disertare le urne e che si preparano a confermare il loro disamore per il mercato delle promesse elettorali. Magari si potrebbe scoprire che le persone preferiscono sentirsi raccontare di impegni concreti e realistici, di qualche sacrificio da fare, o magari di una quota dei loro risparmi da destinare per via forzosa al rifinanziamento del debito pubblico attraverso l'acquisto di Titoli di Stato "matusalemme", con scadenza a 30 o 50 anni. E quindi di tagli (veri) alla spesa pubblica. E dopo, ma soltanto dopo un percorso simile, arrivare al taglio composto delle tasse.
     Perché la vera sfida a cui sono attesi i partiti è proprio questa. Quanti italiani sono disposti a credere che chiunque sarà il vincitore - ammesso che ci sia un vincitore - delle prossime elezioni, una sola di quelle promesse sarà attuata senza che il Paese riceva una scossa terribile sui mercati? Il prof. Carlo Cottarelli non è un nuovo Mario Monti. Monti venne chiamato quando la casa bruciava, ha circoscritto l'incendio ma non lo ha spento del tutto. Sotto la cenere di Monti torna a bruciare il populismo di Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini. La sfida sarà di vedere se alle urne andrà almeno il 50% degli elettori.

domenica 12 novembre 2017

RENZI NON SPIEGA MA COMPLICA LE VICENDE BANCARIE



di Massimo Colaiacomo
     La lettera del segretario del PD alla Stampa è un piccolo capolavoro di contraddizioni. Tralascio ogni commento sul tono derisorio usato da Renzi per definire il pezzo pubblicato ieri sullo stesso giornale a firma di Marcello Sorgi: ognuno argomenta come sa, e Renzi, evidentemente, sa argomentare in quel solo modo. Vengo al merito: al punto 2 della sua lettera Renzi nega ogni mancata collaborazione e rivendica al suo governo di aver agito "in modo concertato e coeso" e insieme alla Banca d'Italia "hanno cercato di affrontare le numerose sfide che si sono presentate in quei mesi".
     Più avanti, al punto 4, Renzi scrive: "Anziché continuare a evocare la vicenda Banca Etruria, su cui pure sarà interessante nelle prossime settimane ricostruire sul serio l'accaduto anziché usarla come comodo alibi per azzerare ogni critica, sarebbe interessante capire che cosa è accaduto nella vigilanza sugli istituti veneti. E non basta cercare di scaricare in modo irresponsabile le colpe sui predecessori, più o meno autorevoli, come qualcuno potrebbe immaginare di fare, contro la nostra opinione". La "reenactment" renziana vacilla sotto il peso delle sue contraddizioni dalle quali può uscire solo con un atto d'accusa i cui destinatari sono due: Ignazio Visco e il suo predecessore "più o meno autorevole" Mario Draghi. Renzi lancia il sasso e nasconde la mano.
     Affermare, e Renzi lo afferma, che governo e Bankitalia hanno cercato insieme di affrontare le numerose sfide, significa due sole cose: a) o il governo Renzi è stato almeno corresponsabile per i ritardi accumulati nelle iniziative legislative volte a impedire un aggravamento della crisi del sistema bancario; b) oppure le parole di Renzi sono un atto d'accusa a Visco, colpevole di aver mentito al governo sulle reali dimensioni della crisi. Quando la Commissione Casini affronterà il caso del MontePaschi di Siena, dovrà cercare risposte a due questioni: a) l'incarico di advisor conferito dal governo a Goldman Sachs, costato 600 milioni di euro ai contribuenti, per tentare un aumento di capitale e salvare l'istituto con le risorse del mercato; b) che cosa ha spinto il presidente del Consiglio Matteo Renzi, nel gennaio 2016, a sollecitare i risparmiatori all'acquisto di azioni MontePAschi ritenendo risanato l'istituto. Immaginare che anche in quest'ultimo caso si possa chiamare in causa Bankitalia sarebbe non più segno di irresponsabilità, ma sarebbe un atto di pura codardia e viltà politica.

giovedì 26 ottobre 2017

GENTILONI E RENZI DIVISI, PRENDE FORMA IL DOPO ELEZIONI

La riconferma di Visco in Bankitalia e cinque voti di fiducia per l'approvazione del Rosatellum: è la logica imposta dal quadro politico che ha portato Gentiloni lontano da Renzi. Quello in carica è sempre più un governo "amico" per il PD. Il presidente del Consiglio e il segretario del PD arrivano divisi a fine legislatura, e questo aiuta dare forma al dopo elezioni


di Massimo Colaiacomo

     La riconferma di Ignazio Visco governatore di Bankitalia è stata "scambiata" da Gentiloni con l'imposizione di cinque voti di fiducia, tanti ne sono serviti per far passare il Rosatellum al Senato. Il presidente del Consiglio ha pagato un prezzo elevato al segretario del PD. Renzi ha incassato l'approvazione della legge elettorale, imponendo al governo un percorso di guerra contro il Parlamento, e in cambio ha dovuto cedere sulla riconferma del governatore contro il quale continua a indirizzare critiche ogni giorno più taglienti. Uno scenario simile è destinato ad allargare le divisioni tra Gentiloni e Renzi, ma non tra Gentiloni e il PD, un partito che sembra scuotersi alla vigilia del voto e accende la spia dell'allarme contemplando l'isolamento in cui lo hanno cacciato il leader e la sua fede cieca nella nuova legge elettorale.
     L'intemerata del presidente emerito della Repubblica, intervenuto ieri al Senato per criticare le forzature consumate nella procedura parlamentare e la raffica di voti di fiducia che ha impedito il dibattito parlamentare, è destinata a lasciare il segno, ma vale soprattutto come futura memoria visto che Napolitano si è ben guardato dall'attribuire a Gentiloni responsabilità non sue. "Coprire" Gentiloni, in nome della stabilità, ha significato chiamare Renzi sul banco degli imputati. In questa cornice politica, con le opposizioni pro-Rosatellum che entravano e uscivano dall'Aula al solo scopo di assicurare il numero legale e la fiducia al governo, si può misurare agevolmente la distanza incolmabile fra Gentiloni e Renzi, con il primo proiettato già nel dopo-elezioni e il secondo preoccupato di arrivarci stando ancora in sella al PD. Perché il voto "locale" della Sicilia, come vorrebbe Renzi, sembra un detonatore messo lì a bella posta per far deflagrare i malumori accumulati nei lunghi mesi di gestione monarchica del partito. Renzi sa di essere atteso al varco da Franceschini, Orlando, Fassino ma anche da un ministro come Roberta Pinotti, non più di incrollabile fede renziana.
     Che cosa significa il sommovimento in corso nel PD e dove può portare da qui al momento del voto? È difficile pronosticare il punto di caduta di un confronto sempre più aspro e imprevedibile nei suoi sviluppi. Certo è che il meccanismo della nuova legge elettorale è tale da porre tutti i partiti davanti a un bivio: o si è in grado di costruire coalizioni prima del voto, e puntare alla maggioranza del 40%, oppure si è costretti a costruirle dopo mettendo in piedi la maggioranza che la geografia parlamentare consente. Le proteste del M5s, clamorose quanto si vuole, sono destinate a non pesare più di tanto. Un partito che ha nel suo DNA il rifiuto di qualsivoglia alleanza politica non può pretendere di avere una legge elettorale che assecondi il suo obiettivo di sbaraccare il Parlamento e la logica parlamentarista. Grillo e Di Maio pretendono un Parlamento immobile come la maschera di Tecoppa che ai suoi bersagli diceva: non muovetevi, altrimenti non posso colpirvi. Il Rosatellum  segnala, sia pure nei modi sbagliati e confusi, la capacità del Parlamento di mettere in piedi una legge elettorale senza doversi limitare ad accettare le sentenze della Corte costituzionale. Non è il massimo, d'accordo, ma non è neppure poco in questo tempo della politica.
     Rimane da chiedersi se e in che misura Matteo Renzi sia nella condizione di costruire un'alleanza elettorale puntando a vincere le elezioni per governare, o, al contrario, se non abbia già deciso di puntare alla "non sconfitta" per giocare le carte residue di cui dispone nel dopo voto. Sembra, però, che si profili per lui un problema supplementare: un dopo-elezioni senza vincitori è il terreno più adatto per le mosse dell'attuale presidente del Consiglio. Incassare cinque voti di fiducia, sia pure su una materia estranea al programma di governo, senza più disporre di una maggioranza organica è sicuramente un'umiliazione per la democrazia parlamentare, ma è anche una bella prova generale per il dopo voto. Si può dire che sia stato un effetto collaterale non ben ponderato da Renzi.

sabato 21 ottobre 2017

LA PARTITA BANKITALIA NON PREVEDE IL PAREGGIO

Quando il presidente del Consiglio evoca il principio dell'autonomia mette in mora Matteo Renzi: come potrà dirsi autonoma l'istituzione di Palazzo Koch se Ignazio Visco viene rimosso dopo l'intemerata del segretario di un partito politico, a maggior ragione se partito di maggioranza?


di Massimo Colaiacomo


     Si deve supporre che il leader del PD non abbia calcolato fino in fondo le conseguenze del suo assalto al governatore in scadenza di Bankitalia. Rivendicare il diritto di critica all'operato di un'istituzione è cosa legittima, ma farlo dopo avere scatenato un putiferio istituzionale manifesta un livello di ingenuità e di sprovvedutezza al limite dell'irresponsabilità. A pochi giorni dal Consiglio dei ministri che dovrà procedere, a norma di legge e senza rinvii, alla nomina del governatore di Bankitalia, Gentiloni si affanna a spegnere l'incendio appiccato quotidianamente da Matteo Renzi su una vicenda che rischia di trascinare il PD, e il Parlamento, a uno scontro senza quartiere con Bankitalia le cui conseguenze non sono al momento prevedibili.
     Quando Gentiloni, persona prudente nei modi e cauta nelle decisioni, chiarisce che qualsiasi decisione sarà presa dal governo, sentito il Consiglio Superiore di Bankitalia, nel rispetto dell'autonomia dell'istituto, non si limita soltanto a ricordare un principio ovvio e scritto nello Statuto di Palazzo Koch, ma pone una questione politica rilevante e mette, con la soavità dei suoi modi, una distanza politica siderale fra sé e Matteo Renzi: come rimuovere Ignazio Visco, sotto attacco da PD e M5s, senza con ciò minare nelle fondamenta l'autonomia dell'istituto? Per Gentiloni, il problema si amplifica, perché, da qui a venerdì prossimo, giorno del Consiglio dei ministri, dovrà chiedersi: come confermare Visco senza allargare il fossato fra Palazzo Chigi e il PD?
     Si dice che una via d'uscita potrebbe essere trovata dallo stesso Visco il quale, per cavarsi fuori d'impaccio e togliere le castagne dal fuoco a Gentiloni, potrebbe fare un passo indietro. Ipotesi verosimile, ma praticabile pagando un prezzo politico non indifferente. Perché rimane pur sempre il vulnus provocato dalle sortite di Renzi. Il fatto nuovo e rilevante viene dalle voci di dissenso dalla linea di Renzi uscite in queste ore dal PD. Due ministri politicamente rilevanti, sia pure per ragioni diverse,  Carlo Calenda e Roberta Pinotti, hanno apertamente preso le distanze da Renzi con ciò manifestando le crepe che la mozione su Bankitalia ha aperto all'interno del PD. Per il principio dell'eterogenesi dei fini, Renzi ha finito per innescare uno scontro interno al partito che rischia, se non viene circoscritto, di mescolarsi all'esito del voto in Sicilia, che i sondaggi pretendono negativo, con ciò facendo esplodere tutti i malumori fin qui trattenuti.
     La partita sulla nomina del governatore, per come Renzi l'ha impostata, non prevede il pareggio. È evidente che Visco non è un giocatore, ma soltanto il pretesto, perché i duellanti, alla fine, sono Gentiloni e Renzi. La posta in palio è altissima: è il futuro di Renzi nel partito (quello nel governo sembra più il passato) e il futuro di Gentiloni nel governo della prossima legislatura.  

giovedì 19 ottobre 2017

I POTERI DEL GOVERNATORE E L'IMPOTENZA DI RENZI

L'assedio del PD a Palazzo Koch è una scelta politica avventata, essa può intaccare la reputazione dell'istituto senza per questo conseguire il risultato di allontanare Ignazio Visco. Davvero Bankitalia non ha vigilato sulle crisi bancarie? Oppure, vigilando, non aveva gli strumenti incisivi per intervenire?


di Massimo Colaiacomo


     Il governatore di Bankitalia non è più il Papa della moneta. Con la riforma del 2005, infatti, quell'incarico non è più a vita come era stato fino ad allora. E con la nascita dell'euro, cioè dal 2001, la politica monetaria, e quindi la stampa della moneta, non è più nella disponibilità di Bankitalia essendo stata trasferita alla BCE. Mario Draghi è stato il primo governatore che ha inaugurato l'epoca dell'incarico a tempo (6 anni, rinnovabili) ed è successo ad Antonio Fazio, l'ultimo governatore a vita costretto alle dimissioni per la vicenda di bancopoli sulla quale si è ancora in attesa di una chiarezza definitiva.
     Bankitalia ha conservato i poteri di vigilanza sul sistema bancario, che esercita, dal 2014, in collaborazione con la BCE. L'istituto centrale, quindi il suo governatore e il direttorio, possono e devono esercitare, in base alla legge bancaria del 1936, poteri ispettivi nei confronti delle banche. Accanto a questi, Bankitalia conserva conserva un potere autorizzativo (apertura di nuove sedi o filiali, esercizio del credito e della raccolta del risparmio da parte di soggetti non bancari iscritti in appositi albi) e, soprattutto, sanzionatorio. Non dispone dei poteri penetranti dell'autorità giudiziaria (come, per fare un esempio, la SEC statunitense che può disporre l'arresto di singole persone).
     Per quanto riguarda la vicenda delle banche fallite, Bankitalia ha esercitato il suo potere ispettivo? Lo ha fatto con la tempestività che la situazione richiedeva? Nelle oltre 4 mila pagine di documentazione consegnate ieri da Ignazio Visto al presidente della Commissione di inchiesta sulle banche, Pierferdinando Casini, si deve senz'altro risposta a queste ed altre domande. Però sappiamo già da adesso che Bankitalia è intervenuta sugli organi di amministrazioni di Banca Etruria e della Cassa ci Risparmio delle Marche per sollecitare la ricapitalizzazione di quegli istituti, di rinnovare i loro organi amministrativi e i relativi collegi sindacali. Al di là del potere esortativo, Bankitalia poteva disporre inoltre la rimozione degli organi di amministrazione delle Banche che non avevano superato i controllo ispettivi o che erano risultate inadempienti rispetto alle sollecitazioni delle autorità di vigilanza.
     Il vero punto in questione è il timing delle ispezioni. Potevano essere anticipate prima che alcuni istituti venissero a trovarsi in situazione di default? L'arrivo di una norma europea come il bail in, vale a dire il coinvolgimento pieno e diretto degli investitori che detenevano azioni od obbligazioni di una banca in caso di fallimento, avrebbe dovuto suggerire un monitoraggio più stretto e accelerato rispetto a quei casi conclamati di difficoltà in cui erano incappati primari istituti? Sarebbe facile ironizzare sul presidente del Consiglio Matteo Renzi che nel gennaio 2015 invitava i risparmiatori ad acquistare fiduciosi azioni del Monte dei Paschi di Siena. Aveva forse Renzi condotto una sua personale ispezione nell'istituto senese per dedurne che sarebbe stato un ottimo investimento? Se del caso, si dovrebbe aprire un'indagine su Renzi per reato di aggiotaggio e manipolazione dei mercati?
     La questione bancaria peserà ancora molto nella lotta politica. Certo, è più semplice per i leader di partito nascondersi dietro le presunte inadempienze di Bankitalia. La Lega ha sul groppone la vicenda di Euronord, la banca fallita in nome dell'indipendenza della Padania, il PD, se guarda in casa, ha soltanto l'imbarazzo della scelta potendo spaziare dalla Banca del Salento al Monte dei Paschi (dove sono finiti i 450 miliardi di debiti, in lire, del vecchio PCI-PDS?), passando per la Banca Popolare dell'Etruria e CariMarche.
     Se i partiti pensano di usare come una clava le vicende bancarie, la campagna elettorale, che si annuncia già brutta di per sé anche per via della legge elettorale, rischia di trasformarsi in uno tsunami che finirebbe per investire, con la Banca d'Italia, altri vertici istituzionali. Renzi ha compiuto l'azzardo che si rimprovera allo stregone, finito, come si sa, vittima del proprio sortilegio. Ignazio Visto ha usato i poteri che una (timida) legge bancaria assegna a Bankitalia. Renzi ha cacciato il ruggito del leone, manifestando così tutta l'impotenza della politica che cerca di scaricare sulle istituzioni la propria irresolutezza.
     
     

venerdì 6 ottobre 2017

MENTRE A ROMA SI DISCUTE, A FRANCOFORTE LA BCE DECIDE

I partiti si accapigliano sulla legge elettorale, che si vorrebbe trasformare in un cordone sanitario attorno al M5s. Il risultato è un tatticismo esasperato che confonde gli elettori ed esalta la coerenza irremovibile dei grillini. Nessuno dei protagonisti, con l'eccezione dell'ex premier Renzi, lancia un occhio alle decisioni della Vigilanza della Bce che prepara misure ancora più restrittive sul credito bancario. Il rischio è di soffocare la ripresa nella culla.


di Massimo Colaiacomo


     Se il "Rosatellum" dovesse finire alle ortiche, si andrà alle urne con la legge elettorale ridisegnata dalle sentenze della Corte costituzionale e in questo caso il segretario del PD ha fatto sapere che sarebbe pronto a candidarsi al Senato, dove rimangono quelle preferenze che Renzi, d'accordo con Berlusconi, ha impedito in tutti i modi che venissero ripristinate alla Camera. Non solo. Se, invece, il Rosatellum, cioè il sistema che prevede il 64% di eletti nei collegi uninominali e il 36% nei listini proporzionali, dovesse tagliare il traguardo dell'approvazione, Renzi ha fatto sapere che il PD deve proporsi come baricentro di una coalizione. Sono soltanto alcune delle mille evoluzioni che hanno fin qui scandito la lunga battaglia parlamentare sulla legge elettorale. I partiti sono alle prese con un rompicapo per il quale non si è trovata fin qui una via d'uscita. Se la prima versione del Rosatellum aveva ottenuto anche l'appoggio del M5s, quella nuova è vista come la lebbra. Ci sono stati cambiamenti, anche rilevanti, come, ad esempio, l'abolizione del premio di maggioranza da assegnare al partito vincitore, nella prima versione, mentre nella nuova stesura va alla coalizione che supera il 40%. Su questo punto il M5s ha alzato le barricate perché vi ha visto, a ragione o a torto, il muro alzato dal sistema dei partiti contro una possibile vittoria dei grillini.
     È sicuramente lecito scrivere una legge elettorale per impedire la vittoria dei propri avversari. C'è un precedente illustre:  le elezioni regionali francesi, nel 1984. Un livido ministro dell'Interno, Gaston Defferre, blasonato e chiacchierato sindaco di Marsiglia, si presentò dal presidente della Repubblica, François Mitterrand, per segnalargli che gli ultimi sondaggi della Gallup davano il Partito socialista prossimo a una cocente sconfitta. "Che cosa suggerisce, presidente?". "Semplice: si cambia la legge elettorale, così vinciamo noi", fu la replica serafica di Mitterrand. Detto, fatto. Il Ps vinse le regionali e Mitterrand pose le basi per vincere un secondo mandato presidenziale. La legge elettorale è lo strumento principale, in democrazia, per conquistare il potere e modificarla secondo convenienza può essere decisivo per non perderlo.
     Non è una forma di spietato cinismo, ma semplicemente la manifestazione del desiderio umano di conquistare onori pubblici e gloria. Si vada a sfogliare qualche pagina del libro straordinario di Giuseppe Maranini, scritto all'inizio degli anni '60, "Storia del potere in Italia". Un titolo dietro il quale scorrono circa quattrocento pagine di storia dei sistemi elettorali, dall'Italia post-unitaria fino al 1950. L'accusa del M5s al Rosatellum bis di rubare agli elettori il diritto di scegliersi il parlamentare potrebbe stare in piedi, se lo stesso M5s accettasse di finire sul banco degli imputati. La professoressa Cassimatis, a Genova, ne sa qualcosa: scelta dagli iscritti al movimento, è stata rimossa d'imperio da Grillo al quale non piaceva ... Più cesarismo di così è difficile da immaginare.
     Le liti sulla legge elettorale hanno fatto passare in secondo piano le decisioni prese dalla Vigilanza bancaria europea. Si tratta di misure draconiane destinate, ove applicate senza modifiche, a peggiorare sensibilmente la politica del credito alle piccole e medie imprese. Esse impongono alle banche di accantonare somme pari al 100% del credito, entro due anni, se sprovvisto di garanzie chirografarie, ed entro 7 anni se provvisto di garanzie chirografarie. Il che comporta per il sistema bancario italiano, ancora alle prese con i crediti incagliati e inesigibili (i no performing loan) oneri aggiuntivi per far fronte ai quali dovrebbero procedere a massicce ricapitalizzazioni anche istituti solidi come Intesa-San Paolo o Unicredit. A Renzi va dato atto di essere stato il primo fra i leader a denunciare questa nuova restrizione. Difficile da comprendere, ma sicuramente micidiale nei suoi effetti che andrebbero a combinarsi, da qui a qualche mese, con il graduale ritiro del quantitative easing voluto da Mario Draghi. Il governo italiano in carica, e quello che verrà, non possono non ingaggiare una dura battaglia a Francoforte. Dietro la decisione della Vigilanza si intravvedono i venti gelidi che tornano a soffiare sulla finanza pubblica italiana e sui titoli del debito, gran parte dei quali in pancia alle banche. Come è facile intuire, il debito pubblico rimane il tallone d'Achille dell'Italia ma di esso difficilmente se ne occuperà qualcuno degli aspiranti premier.

sabato 30 settembre 2017

LA CATALOGNA, LA SPAGNA E L'EUROPA CHE NON C'È

di Massimo Colaiacomo

     Perché la regione della Catalogna vuole un referendum per rafforzare la propria autonomia dallo Stato centrale spagnolo? E perché lo Stato centrale, rappresentato dal governo di Mariano Rajoy, leader del Partido Popular, non vuole e non può concederla senza mettere a rischio la Spagna?
  Senza il rumore e la grancassa della Generalitat de Catalunya, anche le regioni Lombardia e Veneto si preparano a celebrare un refeendum consultivo per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale. Di sicuro meno dirompente rispetto a quello catalano, e anche meno significativo per contenuti: ma da non sottovalutare in una prospettiva futura.
  Gli osservatori, quasi all'unanimità, inquadrano la vicenda catalana tra le forme di "ribellismo" o di reazione naturale dei territori alle minacce portate dalla globalizzazione, dunque all'identità civile, linguistica, sociale e culturale sempre più opacizzata dal "pensiero mondialista" e dalla sua tendenza all'omologazione.
     Ci sono anche motivazioni più sgradevoli ma i governi nazionali preferiscono non vederle o, vedendole, preferiscono rimuoverle in nome dell'unità della nazione e del popolo.
  Uno dei paradossi del referendum catalano, per esempio, ma anche di quelli lombardo e veneto in Italia e, domani, chissà, di altre regioni europee, è che la richiesta di autonomia è indirizzata allo Stato centrale ma non alla vituperata Unione europea. Il popolo catalano vuole trasferire meno tasse al governo centrale di Madrid e trattenere più risorse per il proprio territorio, uno dei più ricchi della Spagna e secondo soltanto, stando alle statistiche, alla regione di Madrid.
Sotto o affianco alle nobili motivazioni dell'identità e della lingua, ci sarebbe dunque la solita vecchia questione del vil denaro. Siamo più ricchi delle altre Regioni spagnole, perché dobbiamo ricevere dallo Stato finanziamenti meno generosi? E perché dobbiamo dare contribuire più di altri per finanziare regioni e città magari male amministrate?
  Il territorio, cioè la terra in cui si vive, si lavora, si risparmia e si accumulano ricchezze, è la dimensione a cui ogni essere umano è naturalmente attaccato. Ma tanta ricchezza, nel mondo globale, non può essere più soltanto il risultato di quel territorio. Essa proviene da altri territori, magari molto remoti, come possono essere i turisti cinesi e giapponesi, le frotte di giovani che inondano le Ramblas. La ricchezza della Catalogna è prodott in Catalogna per una parte importante ma non decisiva. I catalani beneficiano, come e più di altre regioni spagnole, della grande facilità con cui si spostano persone e merci, idee e capitali. Sono forse più abili di altri a trattenere sul territorio la ricchezza che vi transita e rivendicano, in nome di questa abilità, il diritto a goderne in misura maggiore rispetto all'Andalusia o alla Navarra.
  Lo Stato centrale avrebbe potuto disinnescare le pulsioni indipendentiste catalane riconoscendo maggiori trasferimenti fiscali, o condizione di vantaggio per i residenti. Ma a quale prezzo? Come mantenere in piedi il costosissimo welfare nazionale con meno introiti fiscali da Barcellona?
  La risposta, per la Catalogna come per la Lombardia e il Veneto, o chissà, domani per la Baviera in Germania, va cercata non nella scomposizione degli Stati nazionali, ma in un ridimensionamento del welfare State e nella restituzione a ogni cittadino del principio di responsabilità per meglio amministrare la propria libertà. Le nostre "libertà" civili e il conseguente standard sociale sono stati finanziati generosamente dalla spesa pubblica, per molti decenni ritenuta incomprimibile senza sollevare rivolte sociali. Oggi quella spesa deve diventare comprimibile per le stesse ragioni: per evitare la sollevazione di singoli territori contro lo Stato centrale. Questa dinamica fra il particolare (il territorio) e il generale (lo Stato) galleggia nel vuoto dell’Europa, un’entità che sfugge a ogni concretezza di risposte anche se, per le ragioni che si diceva, nella crisi serpeggiante dello Stato nazionale potrebbe rivelarsi come l’àncora di salvezza.
     Apertura al dialogo e un fermo invito alla prudenza per evitare di compiere azioni "irreversibili", è venuto in queste ore dalla Conferenza episcopale della Spagna. L'invito rivolto a tutte le amministrazioni pubbliche è a sviluppare un dialogo e un confronto con spirito fraterno. Per rendere possibile «questo dialogo onesto e generoso» è necessario, secondo i vescovi, che «tanto le autorità delle amministrazioni pubbliche quanto i partiti politici e le altre organizzazioni, così come i cittadini, evitino decisioni e azioni irreversibili e con conseguenze gravi, che li situino al margine della pratica democratica protetta dalle legittime leggi che garantiscono la nostra convivenza pacifica e originino divisioni familiari, sociali ed ecclesiali».  
     Per la Conferenza episcopale spagnola bisogna «recuperare la coscienza civile e la fiducia nelle istituzioni, nel rispetto dei principi che il popolo ha sancito nella Costituzione». I presuli offrono quindi la propria «collaborazione sincera al dialogo a favore di una pacifica e libera convivenza tra tutti». 
  ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte" aveva scritto il più moderno dei Papi, Leone XIII, nell'enciclica Rerum Novarum. Era il 15 maggio 1891. Una verità semplice ma di straordinaria efficacia anche dopo 126 anni.

sabato 23 settembre 2017

TANTI CANDIDATI PER UNA CARICA INESISTENTE 

L'ennesimo paradosso della politica italiana: dispute accese nei partiti per stabilire chi sarà premier in caso di vittoria, ma tanti lavorano a una legge elettorale che escluda un vincitore assoluto. La Costituzione, immutata, assegna al Capo dello Stato il compito di conferire l'incarico di governo.

di Massimo Colaiacomo


Luigi Di Maio è soltanto l'ultimo della nutrita truppa di candidati premier pronti a sfidarsi alle prossime elezioni politiche. Matteo Renzi ha bruciato tutti sul tempo, facendosi incoronare segretario, ad aprile, quindi, secondo lo statuto del PD, automaticamente candidato premier. Il leader leghista Matteo Salvini consuma il tempo a rivendicare per sé quel ruolo per un ventennio nella disponibilità assoluta di Berlusconi ma l'anziano leader, per nulla rassegnato, spariglia il gioco con una decisa virata in chiave europeista e filo-tedesca destinata a lacerare e non poco i rapporti nel centrodestra. Quali calcoli ci siano dietro la svolta di Berlusconi non è dato sapere. Si può ipotizzare, con una punta di malizia, che il leader tornato convinto europeista e amico di Angela Merkel tenta di costruirsi una solida sponda anche alla Corte di giustizia europea in vista del verdetto sulla legge Severino a causa della quale è stato fatto decadere dal Senato e inibito a rivestire cariche pubbliche.
Dietro tanto agitarsi nei partiti e negli schieramenti, si intravvede con chiarezza la smania di una generazione politica giovane desiderosa di pensionare quel ceto dirigente che ha governato l'Italia nella stagione post-Tangentopoli. Significativa l'immagine dei leader del centrodestra - Salvini e Meloni, affiancati dal presidente della Liguria, Giovanni Toti, sempre più lontano da Berlusconi - al meeting annuale di Fratelli d'Italia. Il nome di Berlusconi non è mai stato pronunciato da nessuno di loro e nessun riferimento è mai stato fatto ai governi di centrodestra.
Lo stato dell'arte, quando mancano pochi mesi alle elezioni politiche, è riassunto negli accadimenti degli ultimi mesi. Bersani e D'Alema (66 e 68 anni) hanno lasciato il PD per mettere su una nuova casa lasciando campo libero a Renzi (41 anni). Luigi Di Maio, nel M5s, ha 30 anni e il fondatore Beppe Grillo ha fatto sapere che farà il papà e non più il leader. Berlusconi (82 anni) sempre più in rotta di collisione con i due dioscuri, Salvini e Meloni (rispettivamente 44 e 40 anni) conta di portare il centrodestra a rapporti meno conflittuali con l'Europa, ma spera in una legge elettorale che consenta a Forza Italia di liberarsi dall'abbraccio soffocante della Lega Nord.
Salvini, Renzi, Di Maio, Toti, Meloni sono esponenti di una generazione di politici smaniosi di prendere lo scettro del comando ma fino a oggi incapaci di immaginare un percorso che li porti a quel traguardo. Nessuno di loro pensa di far tesoro del monito del generale De Gaulle ("il potere non si cerca, quando è maturo cade nelle tue mani") mentre l'unica strada fin qui intrapresa li ha portati a una conflittualità aperta con la generazione precedente. Il paradosso di tanta agitazione si manifesta nella legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis, che dovrebbe approdare in Parlamento la prossima settimana per essere approvata alla Camera ai primi di ottobre. Il mix di maggioritario (64%) e di proporzionale (36%), con la soglia di sbarramento al 3% per i partiti e al 10% per le coalizioni, prefigura un meccanismo tale da impedire l'affermazione netta di un partito o di uno schieramento.
Più scomoda degli altri è la posizione del M5s, non a caso il primo a denunciare nella nuova proposta un imbroglio ordito da PD e Forza Italia contro il M5s. Il movimento grillino è contrario a qualsiasi alleanza, convinto come è di avere il vento alle vele e di arrivare a palazzo Chigi con le proprie forze. Discorso esattamente opposto a quello di Renzi, accortosi, in ritardo e dopo una serie di micidiali errori politici, che senza rompere l'isolamento in cui ha cacciato il PD il ritorno a palazzo Chigi diventerebbe per lui una chimera. Unico a non coltivare ambizioni di governo, Berlusconi può concedersi il lusso di arbitrare le diverse partite in corso ben sapendo che il futuro governo sarà, in ogni caso, un governo di coalizione, sia che venga approvato il Rosatellum, sia che si voti con l'attuale legge elettorale risultante dalle sentenze della Corte costituzionale.
Cresce nel Paese, o in quella parte di esso meglio rappresentata dai mass media, una qualche convinzione che il proseguimento dell'attuale esecutivo Gentiloni, magari con un reshuffle che preveda l'ingresso di Forza Italia, potrebbe rivelarsi alla fine la soluzione migliore per gli interessi del Paese. Certo è che all'indomani del voto, come e più che nelle precedenti elezioni, tutti i fili saranno nelle mani, abili e capaci, del presidente della Repubblica. Mattarella si è confermato in questi quattro anni un attento interprete degli atti del Parlamento e degli umori del Paese. Quando conferirà l'incarico di formare il governo, lo farà soltanto in presenza di una maggioranza solida e certa, come ricorderà bene Bersani. E incaricherà un presidente del Consiglio e non un premier. 


mercoledì 28 giugno 2017

BERLUSCONI E LE MATRJOSKE DELLA SINISTRA


di Massimo Colaiacomo


     La resa dei conti nel PD e nei suoi dintorni è soltanto all'inizio. Matteo Renzi ha deciso che tornerà a interpretare se stesso, l'unica parte che gli riesce bene anche se dal pubblico salgono più fischi di disapprovazione che applausi. Una scelta temeraria, ai limiti dell'incoscienza politica ma ben dentro la coscienza che il copione non gli consente di calarsi in altri ruoli. Non può fare il federatore di una sinistra talmente atomizzata e attraversata da rivalità e rancori personali che perfino il Vinavil di Prodi non incolla più. Non può fare il tessitore di alleanze, perché a qualsiasi potenziale alleato verrebbe chiesto di donare sangue elettorale al PD senza trarne benefici per sé.
     Renzi può fare solo Renzi, con ciò ridimensionando il numero degli atouts che a suo tempo gli vennero riconosciuti in misura forse sproporzionata. Questa limitatezza ben si riflette nella decisione della Commissione Affari costituzionali di rinviare a settembre l'inizio dell'esame della legge elettorale in Aula. Se qualche fretta aveva avuto fin quando era aperta la finestra elettorale di ottobre, Renzi si prepara ora a una guerra di trincea in Parlamento e la legge elettorale non è più solo lo strumento per puntare alla vittoria elettorale ma diventa, domani più di ieri, il terreno su cui costruire un dopo-voto che è facile prevedere sarà un rompicapo.
     Berlusconi torna così, per una serie di circostanze solo in parte dovute alla fortuna, a essere il crocevia in questo fine legislatura ma ancora di più nella prossima. L'intervista del ministro Franceschini a Repubblica è significativa. Al netto della reprimenda al segretario del suo partito, è sulla legge elettorale che il ministro della Cultura si ritaglia una posizione autonoma nel PD. Laddove osserva che una legge deve consentire di dichiarare la coalizione prima del voto "o che consenta di farla dopo". "Comunque - aggiunge - una scelta di coalizione dopo le elezioni bisognerà farla". Affermazioni chiare e senza retropensieri. Franceschini dà per acquisito che dopo il voto non ci sarà nessun vincitore con una maggioranza netta in Parlamento. Il che significa che il rifiuto di Renzi a costruire una coalizione larga di centrosinistra prima del voto, implica che non potrà essere lo stesso Renzi a tentare l'impresa dopo il voto, allorché la competizione elettorale avrà ulteriormente lacerato quel campo.
     Franceschini ha girato il coltello nella piaga del renzismo. Come nelle matrjoske, e senza strappi, Franceschini non chiama Renzi sul banco degli imputati, ma uscendo dal renzismo ortodosso gli fa notare come la sua strategia gli precluda molte strade per il dopo-elezioni quando Renzi non avrà altre chances se non la disponibilità di Berlusconi per formare la maggioranza, atteso che PD e Forza Italia dispongano dei numeri necessari. Franceschini, al contrario, senza strappare la carta di Berlusconi, cerca di aprirsi un varco con la galassia alla sinistra del PD nella prospettiva di costruire una maggioranza quale che sia l'esito del voto. Il ministro si muove lungo un solco per certi versi "dalemiano", e si muove nell'ipotesi che l'abbraccio a Berlusconi non può essere del solo PD ma di tutto il campo progressista. Come, vent'anni fa, riuscì di fare a D'Alema.

martedì 30 maggio 2017

ECCO PERCHÉ NON SI VOTERÀ IN AUTUNNO


di Massimo Colaiacomo


     Dietro la fumata bianca che annuncia l'imminente accordo sulla legge elettorale fra PD, M5s e Forza Italia si avverte l'odore di bruciato di un sistema politico troppo impegnato a sistemare i rapporti di forza in Parlamento e sempre troppo distante dalla realtà economica e sociale del Paese. Lo scivolone ieri della Borsa di Milano, con i principali indici in forte ribasso, unica Borsa in Europa, sono soltanto l'avvisaglia della tempesta che è pronta a scatenarsi sui mercati, complice anche la stagione estiva quando gli scambi si fanno rarefatti e basta poco per muovere gli indici della valute e delle Borse. Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe accaduto se in una giornata pesante come quella di ieri non ci fosse stato lo scudo del QE di Mario Draghi: lo spread e gli indici borsistici avrebbero sicuramente fatto segnare tempesta con notevole sofferenza per i titoli di Stato e per le tasche degli italiani.
     Renzi, Berlusconi e Grillo, almeno a giudicare dalle loro reazioni, non sembrano essersi accorti di niente. Berlusconi, già in campagna elettorale, ha annunciato un "reddito di dignità", per farla breve, aumenti di stipendio per chi è sotto una certa soglia di reddito. Dal PD, dove la campagna elettorale è permanente, si lascia trapelare l'idea di una finanziaria "a rate", da varare attraverso una serie di decreti dell'attuale governo così da lasciare a Gentiloni la responsabilità dei sacrifici che dovranno essere chiesti agli italiani. I partiti continuano a coltivare l'illusione di una campagna elettorale in carrozza lasciando all'attuale esecutivo il compito di mostrare la faccia feroce. E avviarsi, con una spensieratezza suicida, verso il voto autunnale.
     Il rischio è che le forze politiche la stiano facendo davvero facile, mostrando una irresponsabilità sulla quale non mancherà di accendere i riflettori il presidente della Repubblica. Imbarcarsi in una campagna elettorale sotto il solleone, asfissiando di slogan gli italiani sotto l'ombrellone o al fresco in montagna, è un rituale del tutto estraneo alla tradizione politica. Celebrarlo in una fase in cui il rifiuto della politica e il non voto guadagna fasce sempre più ampie dell'elettorato, ha qualcosa di demoniaco. Davvero Berlusconi, Renzi e Grillo pensano di avere un qualche vantaggio da una simile scelta? C'è da aggiungere una considerazione fin qui rimasta ai margini: introducendo la soglia di sbarramento al 5%, si sa già che saranno 4, forse 5 i gruppi nel prossimo Parlamento. Nessuno di essi sarà la maggioranza per governare e le alleanze post-voto saranno dunque obbligatorie. In queste condizioni, con quale credibilità Berlusconi e Renzi potranno chiedere il voto agli elettori quando sarà evidente dai sondaggi che saranno sfornati con cadenza quotidiana che la loro alleanza è obbligata e senza alternative?
     Neppure è trascurabile il peso che sulla campagna elettorale avrà la condizione della nostra finanza pubblica. Dovendo varare una Legge di stabilità con margini di manovra risicatissimi, come si potranno convincere gli italiani riluttanti che con una maggioranza solida saranno evitate nuove tasse e che tutto filerà liscio nel migliore dei modi? Una campagna elettorale con la Legge di Stabilità da approvare esporrebbe i partiti a un ulteriore bagno di ipocrisia e terrebbe ancora più elettori lontani dalle urne. Al contrario, approvare la Legge di Stabilità prima del voto, significa costringere il PD ed eventualmente i suoi futuri alleati ad un'assunzione di responsabilità chiara nei confronti del Paese. Di fatto le forze che approveranno la legge finanziaria dichiarano già da allora la futura alleanza per governare l'Italia e non sarebbe infondato ipotizzare una risposta positiva da parte degli elettori.
     Le ragioni per non votare in autunno sovrastano decisamente le ragioni per farlo. Ci vuole incoscienza - e ce n'è abbastanza in giro - per anticipare il voto. Ci vuole coraggio - e se ne vede poco - per arrivare alla scadenza naturale. Fra le due opzioni c'è di mezzo l'arbitro del Quirinale. Il presidente Mattarella non può tollerare che il Paese entri in una condizione di non governo per tre-quattro mesi ben sapendo che ciò lo espone sicuramente ai marosi della speculazione. E chi oggi fa calcoli e progetti sulla corsa al voto in autunno dovrà presto ricredersi quando Mattarella metterà gli interessi del Paese prima degli interessi delle diverse botteghe.

venerdì 12 maggio 2017

WARNING DI MONTI E BINI SMAGHI SULLE CONSEGUENZE DELL'EUROPA



di Massimo Colaiacomo


     Qualcuno ha detto che l'intervista altro non è che un articolo rubato. Il tono aforistico di questa sentenza non si addice però alla bella intervista di Mario Monti sulla Stampa. Non solo per l'acutezza delle risposte, tutte senza sconti o indulgenze per il governo di Matteo Renzi, ma anche per l'intelligenza delle domande poste con il consueto, finto disincanto da Fabio Martini. Che cosa dice Monti? Niente di nuovo di quello che già si sapeva delle sue analisi. Niente di nuovo, soprattutto, rispetto alle decisioni prese durante i suoi 16, contrastati mesi di governo. A conferma di una coerenza tra il "fare" e il "dire" che è merce sempre più rara, se non proprio introvabile, sulla scena politica. Monti ha spiegato ancora una volta le "conseguenze dell'Europa" per la politica italiana mentre, in un'altra pagina dello stesso quotidiano, Lorenzo Bini Smaghi, ha spiegato le "conseguenze dell'Italia" sull'Europa. Scelta coraggiosa, entrambe le interviste, da parte di un quotidiano il cui direttore Maurizio Molinari ha scelto una navigazione in mare aperto, senza i minuetti e i birignao di troppa stampa, non solo italiana, docile quando non indulgente verso i governi in carica.
     Senza giri di parole, Mario Monti ha messo in guardia l'Italia dal coltivare qualsiasi illusione sull'arrivo di Emmanuel Macron all'Eliseo. Alle file di supporter dell'ultima ora, Monti ha snocciolato alcuni dei capitoli del programma di Macron per dire che se un asse franco-tedesco si rimetterà in moto sarà dovuto al fatto che Macron farà le riforme e bullonerà il deficit di bilancio come mai nessuno prima di lui aveva tentato di fare. Guai a immaginare - è l'avvertimento di Monti - che con Macron all'Eliseo si mette in discesa il rilancio dell'Europa e si accelera la fine dell'austerità. Macron porta in dote alla Merkel, e quindi alla causa europea, un piano di riforme strutturali - dalla settimana lavorativa al taglio della spesa pubblica e al ridimensionamento della Pubblica amministrazione - perché è ben consapevole dei ritardi accumulati dalla Francia durante il quinquennio di Hollande.
     Chiunque in Italia dovesse pensare di avere Macron a fianco nella battaglia per un allargamento della flessibilità rischia di prendere una cantonata. Per la ragione - spiega Monti - che la flessibilità già ampiamente concessa ai governi italiani è stata sciupata nel peggiore dei modi con elargizioni, bonus e sconti fiscali dal sapore elettoralistico mentre la crescita è rimasta al palo. Per questa ragione, argomenta Monti, è illusorio pensare che la Germania potrà mai essere disponibile a togliere i vincoli di bilancio visto l'uso distorto della flessibilità fin qui fatto dai nostri governi. Se così dovessero decidere Francia e Germania "si comporterebbero verso di noi come il pifferaio di Hamelin, che dopo aver liberato il villaggio dai topi, lì incantò con la sua musica. Essi lo seguirono fino al fiume e lì annegarono. E gli italiani sarebbero proprio come quei topolini: felici e annegati".
     Questo giudizio può apparire spietato, ma l'ex premier lo argomenta molto bene quando richiama il coraggio con cui Macron si è presentato agli elettori ai quali ha parlato a viso aperto, senza cercare responsabili  al di fuori della Francia o in Europa.  Per dire, in sostanza, che l'europeismo "esibito" con coraggio si è rivelato una carta vincente contro gli allettamenti del ripiegamento nazionalista di Marine Le Pen. Al fondo di questa analisi, la domanda sottintesa di Monti è: ci sono europeisti di fede, e non per convenienza, in Italia? La risposta, meno sottintesa, sarebbe: sì, ma si tratta del solo Mario Monti.
     Pendant alle parole dell'ex premier, Lorenzo Bini Smaghi accende uno spotlight sull'ultimo bollettino della BCE e rileva che la crescita asfittica dell'Italia continua a soffrire di due gravi limiti: da un lato, la zavorra del debito pubblico; dall'altro lato, le riforme strutturali largamente incompiute o ampiamente insufficienti le poche realizzate. Da qui il suo allarme: la BCE si prepara a un monitoraggio stretto dei conti pubblici dell'Italia e invocare nuova flessibilità, visto come è sta utilizzata quella fin qui concessa, rischia di provocare soltanto irritazione a Berlino e Francoforte. È appena il caso di notare che entrambi gli intervistati sono conoscitori profondi delle dinamiche economiche e politiche essendo stati, in fasi diverse, Mario Monti commissario alla concorrenza e Bini Smaghi membro del board della Bce.
     Lo stridore fra queste analisi e le cronache quotidiane della politica è forte a tal punto da provocare il capogiro. Vorrà pur dire qualcosa se il tema dominante in questi giorni e nei prossimi rimane quello della legge elettorale. Esattamente come a Bisanzio prima del crollo dell'Impero.


     


lunedì 8 maggio 2017

QUALE LEZIONE PUÒ VENIRE DAL VOTO FRANCESE

La vittoria di Macron è importante per l'Europa. La sua affermazione è resa più significativa dalla decisione di Le Pen di rifondare il Front National


di Massimo Colaiacomo


     Le bandiere dell'Europa che sventolano sulla spianata del Louvre e l'Inno ufficiale dell'Unione europea che accoglie il discorso di Emanuel Macron sono una scenografia impensabile fino a qualche tempo fa nel piatto nazionalista dei Paesi europei. È già in questi simboli che si consuma la prima rupture di Macron rispetto alla Francia tradizionale. Ha impostato, e vinto, una campagna elettorale giocata sull'antinomia Europa sì-Europa no. Marine Le Pen ha scelto il No e ha incassato una sconfitta onorevole, portando il Front National a un risultato storico mai prima raggiunto da suo padre Jean. Quella di Le Pen non è una sconfitta orfana, perché non ha esitato un istante ad attribuirsene la responsabilità. Le Pen è andata oltre: ha riconosciuto che il suo movimento è stato poco inclusivo, troppo radicale nei programmi e ondivago nei propositi. Le Pen ha dimostrato notevole intelligenza riconoscendo che questa strategia ha tenuto lontano dalle urne milioni di elettori e altrettanti ne ha convinti a votare Macron.
     L'analisi del voto nel campo di Le Pen rappresenta forse la vera e più significativa novità. L'antieuropeismo senza un'alternativa credibile non ha forza attrattiva sull'elettorato. Per quanto in affanno, l'Europa è vista ancora come un porto sicuro contro le insidie e le sfide della globalizzazione. Aver alimentato l'indignazione degli elettori per una crisi sociale fra le più lunghe e pesanti del dopoguerra, averne addebitato le cause a un globalismo senza regole e alle ondate migratorie fuori controllo, ha portato sicuramente a Le Pen i voti del malcontento sociale ma ha spaventato quella quota sempre rilevante di elettori timorosi di trovarsi in un Paese isolato, costretto ad affrontare gli stessi problemi senza la sia pur vacillante solidarietà europea.
     Le ragioni della sconfitta di Le Pen sono le stesse della vittoria di Macron. In mezzo, un vero bacino di astensioni e di schede bianche, cioè una larga parte della Francia che ha rifiutato la scelta fra i due candidati. È a questi settori della società francese che deve ora rivolgersi Macron nella sua azione di governo. E sempre a loro dovrà rivolgersi, con toni meno tranchant se non più rassicuranti, Marine Le Pen se vuole ritentare l'avventura dell'Eliseo. Meno anti europeista e più incerta nel rifiuto della moneta unica, Le Pen punta adesso ad un'operazione ambiziosa: assorbire quella vasta area di elettori gollisti delusi da Fillon e rimasti a casa o astenuti nel ballottaggio.
     È comprensibile che nelle cancellerie europee si tiri un sospiro di sollievo per uno scampato pericolo, anche se le ferite socialmente sanguinose della crisi sono tuttora aperte.  Macron porta in dote all'Europa un programma di governo impegnativo: la riduzione di 120.000 funzionari pubblici; il taglio di 75 miliardi di spesa pubblica in cinque anni; la fine controllata della settimana lavorativa di 35 ore, rimessa alla contrattazione aziendale. Sono scelte inevitabili per un Paese ansioso di trattare con la Germania su un piede di parità. Sono scelte mai compiute da alcun governo italiano e, c'è da temere, mai saranno compiute. Chi, come Renzi, spera di trovare in Macron un alleato per aumentare la pressione sulla Merkel e porre fine alla politica di austerità, deve prepararsi a fare scelte altrettanto impegnative.
     Se una lezione per l'Italia si può ricavare dal voto francese essa ci dice che mettere ordine nella finanza pubblica domestica è la condizione preliminare per presentarsi con la necessaria credibilità in Europa. Cosa che finora non è mai avvenuta se è vero che il pareggio di bilancio è una scelta che viene rinviata di anno in anno, dal 2014 fino al 2019. Il voto di ieri ha salvato l'orizzonte dell'Europa ma dice anche quanto lungo sia ancora il cammino che devono fare i singoli Paesi.

lunedì 10 aprile 2017

È UFFICIALE, NON ESISTE LA DEMOCRAZIA "SECONDO GRILLO"



di Massimo Colaiacomo

     Un giudice del Tribunale civile di Genova ha sentenziato che non può esistere una democrazia "secondo Grillo", cioè un sistema di decisioni pubbliche piegato a logiche di tipo personale o privato. Il succo di quanto è accaduto a Genova sta tutto qui. La contesa fra Marika Cassimatis, votata dagli iscritti e poi sconfessata da Grillo, e il M5s è stata chiarita da un Tribunale della Repubblica. Questo episodio ha delle conseguenze politiche rilevanti, alcune immediate e altre misurabili nel tempo. Le conseguenze più vicine dicono della confusione in cui viene a trovarsi il Movimento e il suo "padrone garante". Perché il giudice Roberto Braccialini ha escluso il candidato grillino, Luca Pirondini, imposto da Grillo che ha fatto ripetere il voto on line dagli iscritti, alla seconda votazione non più solo genovesi.
     Il risultato è che il M5s non avrà, allo stato dei fatti, un proprio candidato al Comune di Genova, cioè nella città del suo fondatore-garante-padrone. Grillo può impugnare la sentenza e ingaggiare così un braccio di ferro con ciò allungando i tempi per la predisposizione della lista ed esponendosi anche all'incertezza del secondo grado di giudizio. Se anche il ricorso dovesse dar torto al M5s ovviamente l'intera vicenda segnerebbe una dura sconfitta per Grillo e il suo movimento, perché trovarsi senza un candidato a Genova e viste le prove a dir poco opache dei due primi importanti sindaci fin qui eletti  (Appendino a Torino, Raggi a Roma) il bilancio dell'esperienza amministrativa grillina sarebbe più che in rosso.
     L'infortunio, ammesso che di infortunio si tratti, proietta però le sue conseguenze anche sulle prossime elezioni politiche. Perché il giudice Braccialini ha detto che le regole di un movimento politico hanno valore se vengono rispettate "erga omnes" e anche se quel movimento è dotato di uno "statuto-non statuto" il suo garante non può piegare quelle regole al proprio punto di vista. Ciò sta a significare che quando il M5s celebrerà le "parlamentarie" per scegliere i candidati alla Camera e al Senato, Beppe Grillo dovrà astenersi da interventi tali da modificare la volontà espressa dagli iscritti.
     Quello che è accaduto a Genova rischia di essere soltanto un sassolino rispetto alla valanga che potrebbe abbattersi sul Movimento nella selezione della classe parlamentare. Perché in fondo, a voler riassumere i termini della vicenda, la questione vera con cui Grillo è alle prese riguarda la selezione della classe dirigente di un Movimento che aspira a governare l'Italia. La domanda è: come conciliare la democrazia diretta, e incontrollata come può essere quella del web, con la necessità di selezionare un ceto politico non improvvisato? Si tratta di un nodo che va sciolto pena la credibilità complessiva del movimento.
     Dopo la Convention celebrativa di Ivrea, Grillo ha annunciato un deciso cambio di strategia. Il M5s non sarà più il partito pionieristico del "vaffa-day", quello che riempiva le piazze minacciando di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Anche per Grillo, come per il più rivoluzionario dei politici, l'odore del potere fa scattare regole, liturgie e riti simili sotto tutti i cieli. Grillo vuole ora un movimento rassicurante, molto diverso da quello che ha seminato minacce e promesse per raccogliere l'indignazione del Paese. È una sfida non da poco. Tenere alta l'indignazione sociale e rassicurare i mercati internazionali non è impresa semplice. Promettere il referendum sull'euro e sperare che la speculazione non metta nuovamente nel mirino i titoli di Stato appare obiettivo più che ambizioso, quasi disperato.
     Per conciliare tante contraddizioni e superarle in un'ottica governativa, Grillo non avrebbe avuto bisogno dell'infortunio genovese che sembra fatto apposta per complicargli una già difficile quadratura. Si tratta per lui di non uscire sconfessato politicamente dalla sentenza del tribunale né può permettersi un accordo con Marika Cassimatis senza sconfessare il suo candidato Luca Pirondini. Anche per Grillo si sta avvicinando a grandi passi il momento in cui dovrà confrontarsi con la politica, quella di sempre, fatta di compromessi intelligenti e lasciando fuori la porta la clava del blog. Valgono per Grillo, insomma, le regole che valgono per tutti: non esiste una democrazia diversa da quella fin qui conosciuta.    

mercoledì 5 aprile 2017

DOPO IL VOTO DEL SENATO, MAGGIORANZA IN CONFUSIONE MA NON PUÒ CADERE


di Massimo Colaiacomo


     È difficile archiviare come un brutto incidente il voto con cui la Commissione Affari costituzionali ha eletto presidente il centrista Salvatore Torrisi e impallinato il candidato dem Giorgio Pagliari. Più ragionevole appare invece la lettura di chi vede in questo passo falso lo strascico della feroce contesa politica che scuote il PD da troppi mesi. Matteo Renzi non ha ancora smaltito l'euforia per l'ottimo risultato delle primarie di partito ed ecco che deve nuovamente tuffarsi nelle faide interne per venire a capo di una storia davvero brutta per lui. Il PD ha subito drammatizzato il voto della Commissione al Senato e ha chiesto un incontro al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. A Paolo Gentiloni, interlocutore naturale, per rappresentare le fibrillazioni di una maggioranza sempre più in difficoltà sul fianco sinistro. Appare più inconsistente, se non una vera scivolata costituzionale, la richiesta di un colloquio con il Capo dello Stato. A Sergio Mattarella il PD non può certo chiedere di intervenire nella dialettica parlamentare: sarebbe del tutto improprio e un fuor d'opera che non si può pretendere da un custode accorto e autorevole edella Costituzione quale è Mattarella.
     A conti fatti, invece, è dentro il suo partito che Matteo Renzi dovrà guardare con più attenzione. A Pagliari sono mancati 5 voti dei 16 di cui dispone il PD. Con quei voti Pagliari sarebbe stato eletto senza difficoltà. In ogni caso, il pasticcio combinato al Senato è destinato sicuramente ad allargare le crepe nella maggioranza. I centristi del ministro Alfano messi sotto accusa hanno pensato bene di smarcarsi e mostrare la loro buona fede chiedendo a Torrisi di dimettersi. Il che aggiungerebbe un tocco di surrealismo a una vicenda probabilmente mal gestita dal capogruppo Luigi Zanda. La levata di scudi dei parlamentari renziani, sicuramente risentiti per il grave smacco politico, non sembra per tale da scuotere il governo. È ovvio che essa rappresenta un ostacolo in più sul percorso già travagliato che attende Gentiloni. Ma la dimensione politica di questa vicenda, come lo scontro mandato in scena ieri con il ministro dell'Economia, riguarda solo ed esclusivamente il malessere che scuote il Partito democratico all'indomani delle primarie e in vista di un congresso. La tentazione di azzoppare la strategia di Matteo Renzi in Parlamento, non potendolo fare nel partito, serpeggia in molti settori del PD e non risparmia nessuno dei suoi competitori.
     Si tratta ora di trovare una non facile via d'uscita. Sembra difficile, se non impraticabile, quella delle dimissioni di Torrisi. Uno schiaffo alla libera volontà del Parlamento non sarebbe tollerato dalle opposizioni pronte a loro volta ad appellarsi al Capo dello Stato. Chi ha voluto vedere in questo voto il tentativo di bloccare definitivamente la spinta di Renzi verso il Mattarellum è probabilmente più vicino alla realtà dei fatti. Renzi, forzando i propri gravi limiti caratteriali, può allora decidere di aprire una vera trattativa sulla legge elettorale e in questo modo neutralizzare i disegni, veri o presunti, che stanno dietro l'elezione di Torrisi. 

martedì 4 aprile 2017

DAL PD SEMAFORO GIALLO A PADOAN (E AVVISO A GENTILONI)


di Massimo Colaiacomo


     C'è un che di inusuale nella presenza del ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, alla riunione del gruppo PD alla Camera. È vero che si parla del partito che ha le chiavi della maggioranza e dunque pienamente titolato a conoscere, discutere e, nel caso, a condizionare gli orientamenti del governo sulla prossima manovra di aggiustamento e quindi sul Documento di economia e finanza. In questo contesto, non è certo fuori luogo la presenza del titolare dell'Economia. Inusuali, invece, sono stati i toni usati dagli esponenti del PD per riassumere il succo dell'incontro. In buona sostanza, a Padoan è stato chiesto, in termini perentori, di soprassedere sulla riforma del catasto e di non utilizzare strumenti fiscali per raccogliere i 3,4 miliardi necessari per la manovra.
     Padoan è un ministro classificato "tecnico", condizione in parte negata dallo stesso interessato quando ha spiegato che suo compito è fare le deduzioni tecniche, come farebbe chiunque al suo posto, per lasciare alla politica l'onere delle scelte. La verità, come tutti sanno, è che se c'è un ministero politico più di qualunque altro questo è proprio il dicastero occupato da Padoan. E alle riserve politiche espresse dal gruppo PD, il ministro non ha potuto che fornire repliche altrettanto politiche. Ne è uscito fuori una sorta di interrogatorio che ha messo Padoan (e, di riflesso, Gentiloni) in una condizione di sorvegliati. Il ministro non è stato reticente sui programmi del governo e ha spiegato che a suo giudizio non si può immaginare una moratoria sulle privatizzazioni, né sono prevedibili nuove disposizioni sulla rottamazione delle cartelle. Ma è tutta la politica di bilancio per il 2018 che è stata messa in discussione dal PD. Il taglio del cuneo fiscale, tema in cima all'agenda di Gentiloni, è un capitolo tutto da scrivere perché la riduzione delle tasse ruota, ha spiegato Padoan, attorno a coperture credibili e durature (il sottinteso è che non sono più tollerate da Bruxelles, come è avvenuto in passato, coperture una tantum). L'incontro non ha neppure sfiorato il tema delle tassazione sui redditi, perché si tratta di un libro dei sogni per questo come per qualsiasi altro governo  che non sia provvisto di una tale forza e credibilità politica, non solo in Italia, che lo mettano in condizione di intervenire sulla spesa pubblica corrente e sul debito con manovre straordinarie. 
     La riunione di Padoan con i parlamentari PD ha messo temporaneamente la sordina a uno scontro politico che presto o tardi dovrà affiorare. In tema di privatizzazioni, il PD, ha sintetizzato il capogruppo Rosato, ha chiesto una moratoria sulla cessione di nuove quote di Poste e Ferrovie. Due voci importanti nella stesura del DEF e del Piano nazionale di riforme ma soprattutto un capitolo sul quale l'Europa ha più volte bacchettato i governi italiani per i ritardi accumulati. Il PD rappresentato dal capogruppo Rosato è un partito proiettato con la testa, e con i calcoli, alla scadenza elettorale e si muove sul terreno della politica economica con i piedi di piombo. Renzi sa che la manovra di aggiustamento di 3,4 miliardi va fatta, non solo per compiacere Bruxelles ma per salvaguardare la residua credibilità politica di questo governo. Nello stesso tempo non può considerare quello di Gentiloni un "governo amico", come accadeva quando la DC era costretta a sostenere un governo Fanfani chiamato a fare politiche indigeste per il suo elettorato. Da qui all'autunno, quando con la Legge di stabilità si dovrà disinnescare la mina dell'IVA che passa da un governo all'altro, Renzi dovrà fare le sue scelte. Potrà farle avendo riottenuto l'investitura della leadership, quindi avendo il controllo pieno del partito che significa per lui assumersi fino in fondo la responsabilità della scelte del governo. Trovarsi stretto fra due fuochi - le elezioni nel 2018 e il controllo occhiuto della Commissione europea sulla Legge di bilancio - non sarà una condizione agevole.   
     
      

martedì 28 marzo 2017

EUROPEISTI IPERCRITICI ED EUROSCETTICI PIÙ RIFLESSIVI , CALA LA NEBBIA SULL'ITALIA



di Massimo Colaiacomo


     Dalla "doppia moneta" immaginata da Silvio Berlusconi alla "valuta fiscale" vagheggiata da Beppe Grillo, la fantasia degli euroscettici non conosce confini. Proposte diverse, unite però da una preoccupazione comune: uscire dall'euro sarebbe un danno e un rischio per l'Italia, meglio simulare un'uscita che non potrà mai realizzarsi. Rimanerci è un calvario quotidiano, e va cambiato radicalmente l'impianto dei trattati, fanno eco gli europeisti sempre più ipercritici verso le politiche economiche di bilancio dell'Unione. La seconda schiera ha il suo esponente di spicco nell'ex premier Matteo Renzi. Il risultato di tanto agitarsi è la caduta di ogni pregiudizio verso la moneta unica da parte di chi l'ha sempre osteggiata ed esibita come un idolo da distruggere. A mano a mano che ci si addentra nell'anno elettorale europeo (fra poche settimane si vota in Francia e, a settembre, in Germania), in Italia si alza il volume degli europeisti critici e si abbassa quello degli euroscettici. Salvini in Tv che agita il libretto per uscire dall'euro è un ricordo quasi remoto. Le scorciatoie dell'antieuropeismo sono esaurite, ma sono sbarrate anche le strade di chi, in nome dell'Europa, pretende di riservare soltanto critiche all'Unione e alle sue regole.
     Il vertice di fine a marzo a Roma per celebrare il 60/mo dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea non ha prodotto quello scatto di reni che era forse esagerato attendersi da una cerimonia celebrativa di una comunità che per un giorno ha messo fra parentesi gravi affanni, stretta nelle pastoie di procedure troppo farraginose per uno scatto in avanti nell'integrazione e di una contabilità comunitaria costruita sul Trattato di Maastricht, nel 1992, ma sempre più distante dalla realtà dei singoli Paesi. Quelle 27 firme in calce al documento comune hanno sicuramente un qualche valore simbolico e in parte politico, visto le difficoltà superate per la sua stesura. Ma non vanno al di là dei buoni propositi. Forse ha ragione il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, quando osserva che quel documento avrà un valore se sarà tradotto in atti concreti di governo attraverso l'impegno delle istituzioni comunitarie. Da qui a immaginare un percorso più agevole rispetto al passato è troppo presto. La Germania, locomotiva politica dell'Europa, è oggi ripiegata su se stessa con le elezioni politiche generali che bussano alle porte. E il voto nel piccolo land della Saar ha premiato la CDU di Angela Merkel oltre ogni più rosea previsione. Per Martin Schulz, suo sfidante in settembre, la strada si è messa subito in salita.
     È sull'Italia, però, che restano puntati i riflettori della Commissione europea e della Bce. I ritardi accumulati dai governi negli ultimi anni nel risanamento della finanza pubblica hanno messo sulle spine i commissari europei. La minaccia di riaprire una procedura di infrazione per deficit eccessivo (l'Italia ne era uscita nel giugno 2012, governo Monti) ha rinfocolato il dibattito dentro il Pd e la maggioranza di governo. La realtà è che la manovra di 3,4 miliardi (forse 4, per destinare subito 1 miliardo alle aree terremotate) è una sconfessione in piena regola della politica economica del precedente governo Renzi. In autunno, quando cioè si entra nella stagione elettorale, la strada dell'esecutivo Gentiloni si farà ancora più ripida visto che per il quarto anno consecutivo sono da trovare i 20 miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia. È questo continuo girare attorno al problema del deficit, e del conseguente debito che esso genera, che proietta in Europa l'immagine di un Paese finito in una nebbia fitta. Nessuna forza politica, alla vigilia di elezioni quanto mai incerte nell'esito, si azzarda a proporre un bagno di verità al Paese. Il fallimento delle politiche economiche di Renzi, con la crescita asfittica del Pil e quella più robusta del debito, non ha indotto nessuno dei protagonisti a proporre un discorso di realismo. Assisteremo verosimilmente a una gara fra populismi più o meno hard: 800 euro di reddito di cittadinanza proposto dai grillini; pensioni minime per tutti a 1000 euro per Berlusconi; assunzioni e turn over nella PA proposto dalla sinistre.
     In questa saga dei populismi sarà difficile che trovino spazio proposte più o meno riflessive e realistiche di risanamento della finanza pubblica. La stagione riformista di Mario Monti, con i suoi chiaroscuri, ha segnato l'ultimo tentativo compiuto dal nostro Paese di imboccare un percorso riformatore al riparo dalle tentazioni della demagogia. Da allora, nonostante il contesto favorevole creato dal basso costo del petrolio, dalle iniezioni di liquidità di Mario Draghi, nessuna riforma di struttura è stata fatta in Italia, al netto di quelle annunciate sulla carta e li rimaste.  C'è materia, insomma, perché l'Europa continui a guardare con diffidenza verso uno dei suoi protagonisti più importanti.