mercoledì 27 febbraio 2013

BERSANI, OVVERO COME TRASFORMARE UNA SIMILVITTORIA IN UNA CRUSHING DEFEAT

di Massimo Colaiacomo

     Pierluigi Bersani è riuscito a trasformare una similvittoria in una rovinosa sconfitta. Si può dire con Flaiano che "l'insuccesso gli ha dato alla testa". Passate poche ore da una vittoria molto simile a una sconfitta evitata, Bersani ha esordito chiudendo ogni porta all'ipotesi di grande coalizione con Berlusconi. Nella stessa circostanza, Bersani ha spalancato tutte le porte a Grillo. Per cosa? Per sentirsi accusare di essere uno stalker politico ... Un capolavoro strategico. Al punto che sarebbe stato preferibile per Bersani perdere le elezioni con uno score dignitoso e dimettersi. Adesso, invece, prima delle dimissioni deve affrontare un calvario fatto di punzecchiature al limite dell'offesa. Bersani ha frettolosamente bruciato tutti i ponti con il centrodestra e Grillo, svelto, ha bruciato tutti i ponti con Bersani. Il risultato è una incredibile solitudine del Pd. Per rompere la quale, a questo punto, sarà Bersani a dover pagare un prezzo altissimo al Cavaliere.
     La legislatura non poteva nascere peggio. Bersani ha sbagliato tutti i primi passi. Aperture e chiusure sono state fatte senza capo né coda quando logica e buon senso avrebbero imposto di prendere tempo, valutare bene la nuova geografia parlamentare e tenersi le mani libere prima di incatenersele senza necessità alcuna.
     Aveva davvero bisogno Bersani di rivolgersi a Grillo in quanto primo partito alla Camera? Oppure le elezioni sono fatte per premiare le coalizioni? E offrire la presidenza di uno dei rami del Parlamento ai grillini non è un roboante mercanteggiamento, un indecoroso do ut des nella speranza di guadagnarsi una maggioranza al momento fantasmatica?
     Non ci sono molte alternative davanti al Parlamento appena eletto. Il governo Pd-PdL può essere tutto e niente. Può essere il governicchio che fa una leggina elettorale, elegge il Capo dello Stato, e poi si torna alle urne per la gioia immensa di Beppe Grillo. Può essere anche, però, un governo sorretto da una maggioranza costituente capace in due anni di riformare la Costituzione e ridisegnare le istituzioni anchilosate della Repubblica. Come? Negli unici modi conosciuti nelle democrazie occidentali: una repubblica semi-presidenziale, con una legge elettorale a doppio turno; oppure collegi con sistema maggioritario. Bersani e Berlusconi sono capaci di tanto? C'è da dubitarne. Più facile prevedere che consegneranno l'Italia a Beppe Grillo per farne, dopo due secoli, una pura espressione geografica oppure il giardino d'Europa. E gli italiani, come disse Lenin nel 1935, i giardinieri che lavorano in casa dei metalmeccanici tedeschi ...

martedì 26 febbraio 2013

GOVERNO PER LEGGE ELETTORALE? E' SUICIDIO. SERVE RIFORMA PRESIDENZIALISTA O SARA' GRILLO FOR EVER

di Massimo Colaiacomo

     Il potere interdittivo conquistato da Beppe Grillo in Parlamento è un evento straordinario. Mai prima d'ora Camera e Senato, governati da Regolamenti paralizzanti così come voleva il consociativismo scritto nella Costituzione, si erano trovati on the ragged edge. La politica parlamentare classica, quella che da secoli governa le principali democrazie occidentali, fondata sull'esistenza di una maggioranza e di una minoranza (che in Italia è diventata opposizione: a chi? a che cosa?) è stata spazzata via da un competitor visibile ma immateriale in un mondo dove "materiale" è sinonimo di televisivo.
     Grillo ha detto una cosa giusta: è crollato il sistema. Molti italiani lo hanno votato per questo, e lui forse non se ne è accorto: lo hanno votato per usarlo come una bomba a mano da far deflagrare nell'emiciclo della Camera. Ecco: fatto questo Grillo non ha altra funzione da assolvere. Può - potrebbe - sloggiare poiché né lui né i suoi parlamentari sono rappresentativi di alcunché. La rabbia e l'indignazione non sono "istanze" o esigenze che possano trovare rappresentanza in un'Assemblea parlamentare.
     Il successo grillino è in gran parte figlio della cecità delle vecchie forze politiche nessuna delle quali ha saputo capire per tempo la violenta spallata che stava per abbattersi sul Parlamento. I partiti non rappresentano più niente e hanno confidato sulla loro indispensabilità (vera) sperando che questa bastasse per (ri)legittimarli. Non è stato così. Grillo è l'allegoria del baratro scavato, in oltre 60 anni di stentata vita repubblicana, fra le istituzioni e i cittadini. Grillo poteva affermarsi soltanto in Italia, cioè in un habitat istituzionale unico in Europa e forse nel mondo. In un sistema presidenziale, dove i partiti sono forti e forte è il loro rapporto con la società, di Grillo non si sarebbe intravista neppure l'ombra.
     Si leggono dichiarazioni strampalate e onestamente inquietanti da parte dei leader delle forze principali, tranne che da Silvio Berlusconi. Chi sollecita un tentativo di intese parziali con Grillo, chi ventila addirittura di tornare subito al voto (ma sono grillini infiltrati nel Pd?) ... Il ceto politico è comprensibilmente smarrito, avendo già scarsa lucidità in condizioni normali.
     In queste ore, si diceva, è un fiorire di ipotesi. Il solo Berlusconi, finita la campagna elettorale, è tornato a un linguaggio ragionevole, quasi felpato e quindi per lui insolito. Non c'è un governo Bersani alle viste. E chiunque immagini governi di transizione affidati a un Giuliano Amato va considerato senz'altro come un grillino infiltrato nelle istituzioni. Si può davvero immaginare una risposta più vecchia e stantia di fronte a una sfida inedita che ha messo in mora il sistema politico? Un governo che faccia la legge elettorale per tornare subito dopo alle urne, come qualcuno ipotizza, sarebbe soltanto altro carburante nel già ben avviato motore del grillismo.
     Possibile mai che nessuno dei leader abbia capito che il governo che verrà non deve trovare risposte alla sfida del grillismo ma deve invece alzare il tiro e ridisegnare il sistema istituzionale? Davvero Bersani pensa di proporre un governetto per fare la legge elettorale? Come dire, tutto qui? 
     La politica si è spiaggiata, esattamente come alcuni anni fa fece un gruppo di balenotteri sulle spiagge della Guyana olandese. Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei pescatori era raccapricciante: centinaia di animali morti o rantolanti occupavano ampie porzioni di spiaggia. Era un suicidio di massa. Erano finiti lì non costretti da nessuno.
     E' una condizione non molto diversa da quella che vive la politica italiana in queste ore. 
     Nessuno dei leader che si sia chiesto: l'antiparlamentarismo personificato da Grillo è una patologia superabile con una riforma elettorale oppure esso è il sintomo vistoso di una crisi di sistema? Se si fa l'analisi giusta e si risponde che, sì, stiamo vivendo una crisi di sistema, allora si deve prendere atto che non c'è nessuna legge elettorale in grado di rimetterlo in piedi.
     Se il sistema è ingrippato, non si cambia la legge elettorale ma si riforma o si cambia il sistema.
Di fronte al blocco di un sistema politico tutto passa in secondo piano: i vincoli europei, la crisi economica e la sostenibilità sociale dei sacrifici. Tutto questo viene inglobato nel "sistema" politico finito in panne. 
     Bersani e Berlusconi hanno davanti a sé una sola strada: mettere mano alla Costituzione per cambiarla in senso presidenzialista oppure, ma non necessariamente come alternativo, puntare a un sistema maggioritario secco sul modello inglese. Qualsiasi risposta diversa da queste è soltanto un ulteriore regalo a Grillo e sarebbe davvero l'atto finale di una generazione politica fallita.
     Saranno capaci di tanto? C'è da dubitarne. Chi si affanna nel Pd a immaginare di aprire un qualche contatto con Grillo lo fa perché afflitto dalla "sindrome di Stoccolma" che, come si sa, rende la vittima indulgente e quasi complice del suo carnefice. Ma un accordo sia pur limitato con Grillo oltre che un suicidio farebbe pensare che Bersani ritiene possibile governare l'Italia per 5 anni. Pura follia.
     L'accordo possibile, l'unico, è fra Bersani e Berlusconi. Con l'esclusione di Mario Monti, come vuole Berlusconi e come ha interesse a fare Bersani. Berlusconi ha il coltello dalla parte del manico per un'intesa di questo genere: senza di lui nessuna riforma è possibile in Parlamento. E Bersani ha interesse a escludere Mario Monti per rendere, anche visivamente, l'idea di un bipolarismo senza più ritorno. Conterrà dosi massicce di populismo o di antieuropeismo? Pazienza: la politica è fatta per favorire certi processi, far evolvere posizioni troppo ruvide e costruire aperture e nuovi equilibri. Ma per fare buona politica ci vogliono istituzioni nuove e legittimate. Ci vuole il ripristino di una "fonte di autorità" che l'Italia ha smarrito dai tempi di Tangentopoli. Non bastano più le "supplenze" di singole personalità, autorevoli e di grande levatura morale come Ciampi e Napolitano: ci vogliono istituzioni autorevoli e forti di per sé. Non è un Capo dello Stato che fa l'istituzione, ma è l'istituzione che fa il Capo dello Stato. 
     

venerdì 22 febbraio 2013

COSI' MUORE UNA REPUBBLICA E UN'ALTRA PUO' NASCERE

di Massimo Colaiacomo

     Beppe Grillo prenderà molti voti. E' l'unica buona notizia che le urne promettono di regalare all'Italia la sera di lunedì 25 febbraio. Quanti voti prenderà? Abbastanza per impedire la formazione di un governo Bersani-Monti? Oppure molti ma non sufficienti per impedire la nascita di un'alleanza asfittica, destinata a prolungare l'agonia della Repubblica?
     Nessuno, neppure l'interessato, scommette un soldo bucato che sia Beppe Grillo la risposta ai mali dell'Italia. Il comico genovese può funzionare, come sta funzionando, da detonatore di una crisi che non è solo economica e sociale, ma è soprattutto istituzionale e costituzionale, acuita nella ultimi vent'anni ma cronicizzata da almeno quaranta. Egli può essere il necroforo della prima Repubblica, coe Mendes-Frnce lo fu della Quarta Repubblica francese, perché quello in cui viviamo è il secondo tempo della prima Repubblica non essendo mai nata la seconda se non nella fantasia e nella convenzione giornalistica. La debolezza delle istituzioni repubblicane è sotto gli occhi di tutti. Il prestigio e l'autorevolezza di personalità come Giorgio Napolitano, così come ieri di Carlo Azeglio Ciampi, hanno dissimulato la grave crisi istituzionale e, in qualche misura, l'hanno inconsapevolmente aggravata impedendo che essa si manifestasse in tutta la sua vastità. La lunga stagione dei "pannicelli caldi" è agli sgoccioli e l'intimazione di Grillo ai partiti "Arrendetevi, uscite mani in alto e non vi sarà torto un capello" per quanto surreale è la migliore descrizione della situazione in cui versa oggi l'Italia.

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     In un libriccino scritto a metà degli anni '80, Norberto Bobbio aveva individuato due domande rispondendo alle quali si potrebbe - secondo il filosofo - stabilire la qualità di un sistema democratico. Eccole: chi comanda? e sulla base di quali procedure? Domande semplici ed efficaci. E soprattutto attuali. Allora dobbiamo chiederci: chi comanda oggi in Italia? e sulla base di quali procedure?
     Qualcuno è in grado di dare risposte chiare e plausibili? Temo di no. Nessuno saprebbe dire con certezza chi è che oggi comanda in Italia e sulla base di quali procedure esercita quel potere. Non è possibile rispondere per una serie di ragioni, ma per due in particolare: il verbo "comandare" è stato espunto dal lessico della politica; le procedure per l'esercizio del comando sono oggi le stesse del 1947,  pensate, e volute, farraginose e opache dai costituenti allo scopo, forse, di disperdere in più luoghi istituzionali il potere ed evitare così la sua concentrazione nelle mani di una sola persona.
     Sull'inadeguatezza dell'edificio istituzionale si sono innestate le patologie di un ceto politico via via degradato, sul piano delle qualità personali e della formazione. Alla continua ricerca del consenso, la politica ha finito con la rinuncia al suo ruolo di guida della società per trasformarsi in un semplice specchio riflettente. Essa incarna al meglio i vizi e le abiezioni della società civile, in nulla diversa e per niente migliore del ceto politico che esprime.
     La Repubblica è in una condizione agonica. La causa è nella politica, ma non perché quella cattiva ha vinto sulla politica buona, secondo una raffigurazione ingenua e di comodo. La politica ha fallito perché ha fallito la Costituzione. L'ostinata difesa della Carta costituzionale, anche in quelle parti palesemente superate dalla realtà, da parte di un ceto politico non privo di una sua nobile storia, ha aggravato il distacco fra i cittadini e lo Stato, la cui presenza si rivela e si manifesta in un'intima adesione allo spirito della Costituzione. Il compromesso trovato 67 anni fa dai padri costituenti ha partorito una Costituzione che solo chi non ama l'Italia e la libertà può definire "la più bella del mondo".
     Come si può definire bella una Costituzione che fonda una Repubblica sul lavoro? Qualcuno conosce altre Repubbliche fondate sul lavoro? La democrazia federale americana è fondata sulla libertà della persona; quella francese sui diritti universali di libertà, fraternità ed eguaglianza. Quella italiana ... sul lavoro.
     Beppe Grillo può essere il necroforo a lungo atteso per dare sepoltura, purtroppo neanche dignitosa vista la povertà del personaggio, a una Repubblica che ha dato buoni ma limitatissimi frutti. Ora devono farsi avanti le forze responsabili, esigue come è evidente, ma presenti in tutti i partiti per riscrivere il patto fondativo della Nazione e restituire così a una società atomizzata un orizzonte di valori e il sentimento di una comune appartenenza a un unico destino nazionale.
     Le coscienze più avvertite non possono non vedere nella Repubblica presidenziale la risposta più alta e ineludibile per riaffermare il diritto del popolo italiano a riconoscersi nel destino comune per il quale tante generazioni si sono spese nel Risorgimento. La riscrittura della Costituzione e l'introduzione del presidenzialismo possono essere la via d'uscita a lungo cercata per metterci alle spalle le divisioni sanguinose delle ideologie novecentesche. Ci sono personalità in tutti gli schieramenti per impegnarsi in un disegno di vasto respiro. Massimo D'Alema è il più autorevole esponente, non solo nella sinistra, per   mettersi alla testa di un vasto movimento riformatore. Quello che in Francia fece De Gaulle, in Italia può farlo un esponente della sinistra un tempo comunista. Un esponente che abbia coraggio sufficiente e lungimiranza. D'Alema, con Fassino, è stato l'unico esponente che nel tempo ha tentato di rileggere la stagione del riformismo craxiano senza il carico di rancori che quel nome e quella storia hanno sempre suscitato nella sinistra italiana.
     Se la politica saprà trovare il coraggio di girare una pagina della storia per iniziare a scrivere un capitolo nuovo, allora il grillismo avrà avuto i suoi meriti. E sarà servito a qualcosa.
     
      

mercoledì 13 febbraio 2013

FINMECCANICA, GRAN CAPOLAVORO DELL'ETICA GLOBALIZZATA

     Siamo tutti (o quasi) d'accordo che i reati vanno perseguiti. Tutti i reati e in qualsiasi momento (prima, durante e dopo la campagna elettorale). E così deve essere per le presunte tangenti pagate da Finmeccanica e dalla sua controllata Agusta Westaland a uomini d'affari per avere la commessa di elicotteri, del valore di 750 milioni di dollari, dal ministero della Difesa di New Delhi.
     Tutto bene, tutto giusto? Non esattamente. L'ipotesi di corruzione internazionale, cioè di un reato consumato con la complicità di soggetti non immediatamente nella disponibilità degli inquirenti di Busto Arsizio, è una complicazione di non poco conto. Gli inquirenti hanno proceduto all'arresto del presidente di Finmeccanica, Orsi, nella veste presunta di corruttore, ma non dispongono, almeno in questa fase dell'inchiesta, della facoltà di arrestare i presunti "corrotti". E i corrotti, si sa, sono parte non irrilevante in sede processuale. Insomma, se ho pagato una tangente, il magistrato deve acciuffare me, in quanto corruttore, ma deve anche poter acciuffare il corrotto perché incrociando le nostre rispettive posizioni potrà giungere alla prova palmare della consumazione del reato. In mancanza di uno di questi tasselli, il processo rischia di risolversi in un procedimento indiziario, il che non è un bell'esempio di buona giustizia.
     In attesa che le tessere processuali vadano al loro posto (e ce ne vorrà, visti i tempi della giustizia), possiamo intanto tirare i primi conti della vicenda. E sono, come si è visto dalle notizie di oggi, conti pesanti per l'Italia e per il sistema industriale. Il titolo Finmeccanica è stato sospeso in Borsa per eccesso di ribasso ma, fatto assai più grave, il ministero degli Esteri di New Delhi ha deciso di sospendere la commessa di 12 elicotteri e, di conseguenza, le tranches dei pagamenti. Il danno economico è enorme, ma il danno industriale e d'immagine per l'Italia è davvero straordinario.
     L'inchiesta seguirà il suo corso, come si dice in questi casi. Ma anche il declino del sistema italiano seguirà, ineluttabilmente, il suo corso. Al crocevia fra business ed etica pubblica, ecco che il sistema Italia conferma una volta di più le sue ataviche fragilità. La conduzione di affari cospicui (si pensi ai contratti Saipem in Algeria: parliamo di decine di miliardi di euro) avviene in due modi: o un'azienda si muove sulla scena internazionale avendo alle spalle un "sistema Paese", e quindi un governo, che prepara il terreno con gli interlocutori; oppure, quella stessa azienda è costretta a muoversi e a navigare in un mare infestato di squali e a utilizzare i mezzi di cui dispone, leciti o meno che siano.
     Per fare un esempio, lontano nel tempo: quando, a metà degli anni '90, il governo ungherese organizzò una gara internazionale per la vendita dell'operatore telefonico pubblico, accorsero molte aziende, compresa la nostra Sip (non ancora Telecom). Con una differenza sostanziale: la tedesca Deutsche Telekom si fece precedere da un incontro al vertice fra i governi tedesco e ungherese. Il cancelliere Helmut Kohl si presentò a Budapest accompagnato da ben 7 ministri del suo governo. A sostegno di Deutsche Telekom Kohl spese altre carte, come la fornitura di macchinari industriali a prezzi vantaggiosi per Budapest e la compartecipazione di Berlino alla costruzione di alcune infrastrutture.
     Non c'era corruzione in questo atteggiamento. C'era piuttosto una "captatio benevolentiae", del tutto lecita da parte di un governo, che comportava dei vantaggi economici per gli ungheresi. Inutile dire come finì la gara: Deutsche Telekom si aggiudicò l'asta senza colpo ferire, sbaragliando i concorrenti.
     Finmeccanica,  ma anche Eni o Enel, si muovono sullo scacchiere internazionale con la sola forza che gli deriva dall'essere gruppi internazionali, con un brand riconosciuto, ma senza poter contare sul "peso politico" del sistema Paese. In campo energetico, però, qualcosa è cambiato. I discussi viaggi dell'allora premier Silvio Berlusconi a Mosca per incontrare "l'amico" Vladimir Putin hanno procurato contropartite rilevanti per le aziende energetiche italiane. Basti pensare alla più grande centrale idroelettrica della Russia, costruita e gestita da Enel, ai piedi degli Urali orientali. Oppure ai contratti di Eni per lo sfruttamento del gas, in compartecipazione con Gazprom.
     Le inchieste dei magistrati di Busto Arsizio hanno il merito prima di tutto di interrogare il ceto politico sulle sue responsabilità e suonano come l'ennesima denuncia dell'incapacità dell'Italia di "fare sistema" sulla scena internazionale. Certo è, però, che a pagare il prezzo di queste insufficienze rischiano di essere ancora una volta quelli più incolpevoli, cioè i lavoratori.
     Non è compito del magistrato salvaguardare il sistema industriale italiano. Ma neppure può essergli indifferente la conseguenza che il suo operato può avere sul sistema Italia.

lunedì 11 febbraio 2013


IL VESCOVO DI ROMA, VICARIO DI GESU' CRISTO
AVRA' ORA UN MANDATO A TERMINE?


Dalla seconda lettera di S. Paolo a Timoteo (4,6-8)

"Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione".


Paolo di Tarso, l'apostolo pagano fra i pagani e giudeo fra i giudei, combattente per le fede in Gesù,   offre a Timoteo e ai fedeli un esempio fulgido di fede nella potenza imperscrutabile della Grazia divina. Paolo sa di aver combattuto la battaglia per diffondere la parola di Dio e sa, nell'imperfezione della sua coscienza che si appoggia alla fede per non vacillare, che è giunta per lui l'ora di spiegare le vele per entrare nel regno dei cieli.
Quanto della straordinaria forza paolina si può ritrovare nella decisione comunicata oggi da Papa Benedetto XVI di interrompere il suo Pontificato per "ingravescentem aetatem"? Si è detto che Benedetto XVI era intenzionato a lasciare prima di oggi e non lo ha fatto perché il suo gesto sarebbe stato assimilato a una fuga dalla Chiesa travolta dagli scandali. E' una lettura plausibile. Non meno plausibile, però, è anche immaginare che proprio il permanere del caos e un clima di crescente confusione all'interno della Chiesa abbiano suggerito a Benedetto XVI di fare il passio indietro nella speranza di condizionare la scelta del suo successore da una posizione ancora di relativa forza. E' sotto gli occhi di tutti, non solo dei credenti, il grave smarrimento del mondo cattolico scosso prima dagli scandali a sfondo sessuale, poi da dispute ricorrenti di teologia morale.
Valga per tutte la questione, posta da Benedetto XVI ai vescovi tedeschi nel 2009 e mai risolta. Si tratta del ripristino di una formula liturgica la cui traduzione, dopo il Concilio Vaticano II, era stata adattata allo "spirito del tempo" con ciò allontanandosi dalla fedeltà del testo canonico dei Vangeli nella traduzione latina di San Gerolamo. Il mio sangue "versato per molti", diceva la traduzione pre-conciliare in piena adesione al testo girolamita. Nelle nuove traduzioni, il sanguera di Gesù risulta "versato per tutti".
In una lettere del 2009, Benedetto XVI si era rivolto ai vescovi tedeschi per incoraggiar il ritorno allo spirito e alla lettera del testo evangelico. Con una decisione clamorosa, però, la conferenza dei vescovi tedeschi respinse a larga maggioranza l'esortazione del Papa. Quando si dice la democrazia nella Chiesa di Cristo! E' evidente che suona come una bestemmia la parola "democrazia" dentro la Chiesa di Cristo. La questione era stata riproposta di recente da Benedetto XVI, pronto - si dice in ambienti della Curia - a far valere l'autorità monocratica del suo magistero. Sorte non diversa era toccata alla questione una volta all'esame dell'assemblea della CEI.
Benedetto XVI non ha aperto la strada al "papato a termine", ove si intenda per termine il limes biologico e terreno dell'essere umano. Al contrario, il gesto straordinario del Papa tornato cardinale Joseph Ratzinger è soltanto il frutto dell'umiltà del cristiano e della grande fede del vicario di Cristo che ha scelto di passare il testimone a un più giovane e vigoroso vescovo di Roma per completare l'opera di "restauratio fidei" da lui avviata ma resa difficoltosa dalle non piccole resistenze incontrate dentro la Curia. Benedetto XVI non ha rinunciato, al contrario egli ha rilanciato la sfida contro "la malignità della plebe" (come diceva Celestino V), timorosa di dover abbandonare quel rilassamento dei costumi in cui si è ben adagiata in nome di frainteso spirito conciliare.  
  


domenica 10 febbraio 2013

MPS, MANAGER INFEDELE LICENZIATO NEL 2010 REINTEGRATO LA SETIMANA SCORSA DA GIUDICE LAVORO

MPS, LICENZIÒ MANAGER INFEDELE NEL 2010
GIUDICE DEL LAVORO LO HA REINTEGRATO NEI GIORNI SCORSI

     Da ambienti vicini all'inchiesta si è appreso che Banca MPS, nel 2010, venne informata da una banca di Lugano, attraverso un fax, del comportamento infedele di un suo manager. Banca MPS prese immediati provvedimenti procedendo al licenziamento del manager impiegato nell'Area finanza, cioè il settore della Banca sotto i riflettori degli inquirenti.
     Lo stesso manager è stato però reintegrato la settimana scorsa con sentenza del magistrato del lavoro del Tribunale di Milano.

sabato 9 febbraio 2013

GRANDE INCOGNITA SONO I VOTI A GRILLO, VERA BATTAGLIA SARÀ SUL QUIRINALE

     Quanti voti e quindi quanti parlamentari prenderà il movimento grillino? È la vera e decisiva incognita del voto del 24 febbraio. Perché da lì discendono le mosse successive per il primo e più importante adempimento della prossima legislatura: la scelta del successore di Giorgio Napolitano. I partiti hanno quasi del tutto rimosso il tema, come è ovvio che sia per chi è impegnato a battere il territorio per catturare o recuperare fino all'ultimo degli indecisi. L'esito del voto sembra già scritto, nel senso che nessuno sogna di mettere in discussione la vittoria del centrosinistra. Mai come in questo caso, però, i numeri della vittoria rivestono un significato politico preciso.
     Vediamo di spiegare meglio. Il centrosinistra sa di poter contare alla Camera su 340 deputati, quindi una maggioranza solida come prevede il porcellum. Bene: ma quanti saranno i Deputati grillini? 60? 80? oppure 100? Questo significa che i voti congelati nella battaglia per il Quirinale possono determinare una dinamica delle alleanze al momento difficilmente prevedibile. Si può eleggere il successore di Napolitano con il voto contrario di 100 grillini, ma se ad essi si sommano i 120 deputati che i sondaggi assegnano al PdL e gli altri 35-40 attribuibili a Ingroia, La Destra e Lega, è facile constatare come l'elezione del Capo dello Stato, almeno per quanto riguarda i numeri di Montecitorio, dovrebbe avvenire con una maggioranza risicata. Senza contare che una situazione di pareggio al Senato renderebbe quanto meno improbabile la scelta del successore di Napolitano senza un preventivo accordo fra Pd, PdL e Monti. Come si vede, la rincorsa di Berlusconi per strappare una vittoria al Senato si carica di molteplici significati. L'elezione del Capo dello Stato è soltanto quello più evidente.
     Bersani dispone di alternative importanti rispetto a questo scenario ma tutte comportano un prezzo politico più o meno rilevante da pagare. Se Ingroia saprà reggere il passo e cogliere il 4% alla Camera e un più difficoltoso 8% al Senato, allora potrà disporre di una forza politica con cui il Pd dovrà necessariamente far di conto, dal momento che né Bersani né soprattutto Vendola possono permettersi un'opposizione importante sul fianco sinistro.
     Il peggiore degli scenari per Bersani, inutile dirlo, è quello che prevede per il Pd la possibilità di allargare la maggioranza sia alleandosi con i montiani sia con le truppe di Ingroia. Un simile scenario metterebbe in moto una dialettica centrifuga nel Pd con conseguenze al momento non prevedibili. A rendere difficoltoso questo scenario c'è, come si diceva, la scadenza del settennato. Circostanza che spinge per forza di cose a cercare allargamenti verso il centro, fino eventualmente a lambire quella parte del PdL più sensibile all'equilibrio delle istituzioni.

venerdì 8 febbraio 2013

SUL VOTO BRIVIDI GIUDIZIARI DA VICENDE MPS E SAIPEM-ENI

ENI-SAIPEM E MPS, DUE VICENDE CHE PESERANNO SUL DOPO VOTO

     Le vicende giudiziarie che riguardano la Banca Monte dei Paschi di Siena e l'Eni, con la sua controllata Saipem, hanno un peso tutto sommato marginale nel finale della campagna elettorale. Molto di più peseranno nel dopo-voto perché il nuovo governo si troverà ad affrontare questioni sempre rinviate ma, a questo punto, diventate rognosissime per il nuovo inquilino di Palazzo Chigi, chiunque esso sarà.
     Monte Paschi: è una storiaccia molto brutta, da qualunque parte la si guardi. La politica è magna pars per quello che è accaduto nel Quattrocentesco palazzo Rocca Salimbeni e la disputa è sulla dimensione - locale o nazionale - dei traffici fra politica, credito e nomine bancarie. Siena si è sempre mossa sul filo di lana della "legge Ciampi" sulle Fondazioni. Nel senso che il provvedimento voluto da Ciampi nel 1993 con il quale si voleva mettere una distanza di sicurezza fra la politica e la cassaforte delle banche con la nascita delle Fondazioni quale socio "pubblico" della Banca privatizzata ha funzionato in pochi, limitati casi. A Siena, per esempio, non ha funzionato affatto. Perché? Per la ragione che il "Monte", come lo chiamano con una punta di secolare orgoglio i senesi, ha sempre suscitato, in nome della "senesità" da salvaguardare, l'attenzione e una qual certa cupidigia della politica. I membri della Fondazione, socio di maggioranza del Monte sono per 13/15 di nomina politica poiché la loro designazione compete al Comune e alla Provincia di Siena. In un passato non certo remoto si trovano esempi di "rotazione" fra la carica di sindaco della città e quella di presidente della Fondazione o di presidente della Provincia. Insomma  un intreccio di cariche, e di relativi interessi, da cui non poteva che derivarne un'opacità nella governance della Fondazione. La quale è da sempre il polmone finanziario principale della città. Il "motor che tutto move", dicono, parafrasando Dante, i senesi sarcastici.
     Come riportare la Fondazione nell'alveo della legge Ciampi? Come può immaginare Profumo di trovare un socio finanziario forte (ricerca che da sola dice delle difficoltà della Fondazione a trovare i mezzi freschi per partecipare a un aumento di capitale della Banca) senza che sia stata fatta pulizia nei piani alti della Fondazione? E chi, se non la politica, può farlo? La polemica tenuta molto sottotono dal centrodestra non deve trarre in inganno. Dentro la Fondazione i partiti hanno fatto il bello e il brutto tempo, e molto di più. Un esponente del collegio sindacale, morto da qualche anno, non era forse la stessa persona che firmava i bilanci del PCI e poi del Pds mentre sedeva nel governo della Fondazione? E qualcuno ha mai chiarito le cause che in 48 ore portarono, nel 1993, al siluramento dell'allora direttore generale, Vincenzo Pennarola colpevole, si mormorava in città, di aver opposto un rifiuto alla concessione di un mutuo stellare al Pds?
     La storia del Monte è un capitolo dei più significativi della degenerazione cui può giungere un sistema quando la commistione tra politica e affari si trasforma da incidente di percorso in patologia stabile e strutturale nel funzionamento di una banca. Il futuro governo, soprattutto se di centrosinistra, avrà tutti i riflettori puntati non tanto sulla vicenda in sé quanto per gli interventi legislativi che è chiamato a fare e dai quali non può sottrarsi. La legge Ciampi non ha funzionato. Essa va riscritta, vent'anni dopo, perché la separazione fra gli istituti di credito e la politica non c'è stata e il cordone ombelicale non è stato reciso. I mercati, invocati spesso a sproposito, guarderanno anche a Siena per capire dove andrà a parare il nuovo esecutivo.


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     Di tutt'altra natura, ma non meno devastante per le conseguenze che potrebbe avere sul sistema Paese, è la vicenda che riguarda il presunto pagamento di tangenti a funzionari e politici algerini e per la quale sono indagati diversi manager dell'Eni, a partire dal suo Ad Paolo Scaroni. La vicenda risalirebbe al 2009. Ora Scaroni è universalmente riconosciuto come un abile uomo d'affari, un negoziatore duro e insieme flessibile. Si muove con il piglio di un manager che ha vissuto per anni nel mondo anglosassone (prima dell'Eni e dell'Enel, dove è stato prima di Fulvio Conti,  è stato Ceo alla Pilkington Ltd, il più grande produttore di vetri in Gran Bretagna). Contro di lui i Pm milanesi indagano con l'accusa di corruzione internazionale, reato che sarebbe stato consumato versando in più tranches una maxi tangente di 197 milioni di euro a un intermediario algerino con lo scopo di favorire l'assegnazione a Saipem di importanti appalti in quel Paese.
     Sarà la giustizia, con i tempi non proprio degni di un Paese civile, a stabilire la fondatezza o meno di un'accusa infamante e già respinta dall'interessato. La politica ha fin qui taciuto, con l'unica eccezione di Silvio Berlusconi. Si badi bene, Scaroni, al pari di Conti all'Enel, è stato trovato e confermato da Silvio Berlusconi.
     L'inchiesta sui vertici di una compagnia che è fra le prime 10 al mondo ha effetti destabilizzanti già per il solo fatto che si svolga. Da molti anni ormai le carte della  geografia politica mondiale e di quella energetica coincidono alla perfezione. La nascita di Southstream, l'enorme oleodotto che dovrebbe far giungere in Europa, via Turchia, è destinata a rivoluzionare la politica energetica fra le sponde del Mediterraneo. Che cosa significa per l'Eni e per Saipem? I rapporti di Roma con Mosca, finiti nel mirino della stampa anglosassone e delle opposizioni di sinistra in Italia, erano eccellenti con Berlusconi a Palazzo Chigi. Sono rimasti tali con Mario Monti, che a Mosca si è recato tre volte in tredici mesi per incontrarvi Vladimir Putin.
     Il nuovo governo, soprattutto se di sinistra, non potrà incidere molto sull'asse energetico Roma-Mosca senza esporre l'Italia a gravi rischi per la propria capacità di approvvigionamento energetico. Putin o non Putin, le linee di una politica energetica paneuropea sono state tracciate da anni e l'architetto è stato quel cancelliere Gerhard Schroeder, co-autore con Putin del primo progetto di oleodotto, il Northstream, di cui Schroeder divenne presidente per alcuni anni subito dopo la sconfitta elettorale del 2005. 
     Sarà difficile per il nuovo esecutivo, al netto degli sviluppi giudiziari della vicenda Eni-Saipem, immaginare un boulversement della politica energetica italiana. Anch'essa, tutto sommato, condizionata dalle scelte fatte anzitempo dalla Germania.

giovedì 7 febbraio 2013

I VESCOVI E LA RIFORMA DELLO STATO

LA RIFORMA DELLO STATO DIVENTA PRIORITÀ
ANCHE PER I VESCOVI ITALIANI
(riprendiamo una notizia sfuggita ai cronisti distratti)

di Massimo Colaiacomo

     Il presidente della CEI è persona accorta e prudente ma anche schietta nel parlare, ove lo richiedano le circostanze. Coloro che raccolgono le sue parole, come è accaduto oggi a un convegno del Movimento cristiano dei lavoratori, sono di solito persone altrettanto schiette ma spesso poco accorte e imprudenti nel riferirle. Il card. Bagnasco ha indicato tre priorità per il prossimo governo: lavoro, famiglia e riforma dello Stato. Ha poi aggiunto di essere sicuro che gli italiani non si lasceranno abbindolare dalle promesse elettorali e ha esortato impartiti a rivolgersi agli elettori per raccontare "la verita' delle cose, senza sconti e senza tragedie, ma anche senza illusioni" perché "la gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno". Bagnasco ha ammonito poi gli italiani a non seguire l'Europa sulle questioni riguardanti il matrimonio perché le nozze gay sono in ogni caso "un arretramento antropologico e di civiltà".
     Pensieri forti e netti sulle questioni eticamente sensibili (le nozze gay, all'ordine del giorno nei rispettivi Parlamenti in Gran Bretagna e Francia) si sono accompagnati a generiche esortazioni ai partiti perché parlino al Paese il linguaggio della verità poiché gli italiani non si fanno abbindolare. Prima questione: nella costruzione della priorità delle notizie tutte le agenzie hanno dato la massima urgenza al passaggio sugli italiani che non si lasciano "abbindolare" trattando, invece, come routine il riferimento alle nozze gay come "arretramento antropologico".
     Nel primo caso tutti hanno letto nelle parole di Bagnasco un riferimento neanche troppo vago alle posizioni del Cav per via delle sue promesse di restituzione dell'Imu. Chi, se non il vituperato Cav, tenta in questo momento di abbindolare gli italiani, hanno dedotto i giornalisti? Il che è vero ma anche parziale, aggiungo io. Bagnasco ha parlato oggi di lavoro, famiglia e riforma dello Stato. Chi stabilisce che su queste tre materie posizioni populistiche siano imputabili soltanto al Cav e non anche, per esempio, a Grillo? I giornalisti che ascoltavano Bagnasco hanno provato a chiedergli se era a Berlusconi o a chi altri che intendeva riferirsi? Non lo hanno chiesto, perché chiedendolo avrebbero ottenuto una risposta diplomatica, cioè vaga ed ecumenica abbastanza da spegnere la forza del sospetto che quelle parole erano tutte e solo per Berlusconi.
     A questa prima, inutile forzatura è seguita una sottovalutazione ancora più grave. Nel passaggio sulle nozze gay, Bagnasco - potrei chiedere, seguendo la logica dei cronisti - ce l'aveva con Mario Monti che, appena ieri, aveva definito inevitabile che anche l'Italia seguisse l'Europa al terreno del i o soci entrò delle coppie omosessuali. Non credo, invece, che fosse il presidente del Consiglio, o non solo lui, il bersaglio delle parole di Bagnasco. Egli si è rivolto ai governi dei due Paesi europei alle prese con la questione delle nozze gay, quindi Francia e Gran Bretagna, e con l'Italia invitando gli italiani a considerare un arretramento quella che a molti sembra invece una conquista.
     Perché, infine, sottovalutare in modo clamoroso la riforma dello Stato come questione prioritaria per l'Italia, almeno nel giudizio dei vescovi? Forse perché lo è anche nel giudizio di Berlusconi? E dando rilievo a questa affermazione di Bagnasco si finiva con l'avvalorare una comunione di idee fra la Chiesa e il PdL? L'informazione si nutre di un ch'esso di retropensieri. Manca di una visione complessiva sui problemi e sono troppi i cronisti che confondono il loro lavoro - fatto di adesione immediata e libera al racconto di circostanze e persone - con l'esercizio di un potere da mettere al servizio di una causa. Chissà se i cronisti professionalmente più maturi faranno in tempo a rendersi conto che si sta uccidendo così l'informazione. Oddio, tempo non ce n'è molto ...

DEBITI PA: DA BERSANI E CAV PAROLE AL VENTO

LA P.A. PAGA I DEBITI CON LE PICCOLE IMPRESE? OTTIMA NOTIZIA
CON TITOLI DI STATO? ALLORA PD E PDL STANNO GIOCANDO 


di Massimo Colaiacomo

     Avete mai l'impressione ascoltando un politico di sentire una serie di banalità o proposte senza senso  che la brava massaia di Voghera (ah, tornasse in forma come in forma è il suo artefice più che ottuagenario) si guarderebbe bene di fare? Provate a leggere i giornali di oggi e le agenzie uscite stamattina e ditemi se provate questa sensazione. Allora: Silvio Berlusconi starebbe pensando a una seconda proposta shock (nel caso non fosse bastata la prima): rimborsare i debiti maturati dalla Pubblica amministrazione verso le piccole e medie imprese.
     La scena è da non perdere. Bersani legge e "brucia" sul tempo il Cav. Se per l'arcoriano si tratta ancora di una congettura, il bettolese la butta lì: prevedere un rimborso di 10 miliardi all'anno per cinque anni, con un'emissione "dedicata" di Bot.
     La fortuna nostra e delle imprese, dico di quelle rimaste in piedi, è che mancano due settimane all'apertura dei seggi e quindi è ancora poca la sopportazione che ci è chiesta nell'ascoltare simili amenità (mi sono imposto di parlare "fino" in questo blog).
     Partiamo dai fatti. Qualcuno del governo, per esempio il ministro dell'Economia, o qualcuno degli onerosi uffici di Bankitalia, saprebbe dire l'ammontare approssimativo del debito maturato dalla Pubblica amministrazione "allargata" (Pa statale, centrale e periferica; Comuni, Regioni e Province; Asl, Comunità montane ed Enti economici pubblici) verso le PMI? No, né Grilli né Visco potrebbero mai conoscere quella cifra perché la contabilità generale dello Stato è quanto di più approssimativo e farraginoso sia stato costruito in Italia. In ogni caso, diverse analisi (tutte di parte, sia chiaro: da Rete Imprese a Confcommercio) collocano il debito dello Stato verso le imprese in un range compreso fra i 70 e i 90 miliardi di euro. Come dire che un importo pari a quasi la metà delle manovre di finanza pubblica varate negli ultimi due anni sarebbe inghiottito dal sistema delle imprese.
     Con, sia chiaro, straordinari benefici per gli imprenditori e i lavoratori. Perché, però, si tratta di amenità, di chiacchiere da ora del thè?
     La mia spiegazione è la seguente: Eurostat o non Eurostat, quei 10 mld di Bot "dedicati" da emettere con cadenza annuale confluiscono nel debito pubblico violando così tutti gli accordi presi dal governo Berlusconi in materia di rientro dal debito e di pareggio di bilancio entro il 31 dicembre 2013.
     Se Bersani e Berlusconi avessero coraggio politico, dovrebbero indicare una via d'uscita sicuramente onerosa ma che riscatterebbe la politica italiana agli occhi dell'Europa e degli stessi italiani: ogni ente pubblico debitore tagli la propria spesa corrente (alle voci, per esempio, consulenze o beni e servizi) di un importo pari almeno al 50% del debito verso i fornitori; se opera in questo senso, lo Stato si accollerà l'altra metà del debito chiunque sia il titolare (Comune, Regione, Ente pubblico economico o di diritto). 
     In questo caso, si compirebbe la prima seria revisione della spesa pubblica lungo tutta la filiera dei soggetti pubblici.
     Non si capisce, poi, quale sarebbe l'utilità per lo Stato di pagare in Bot. Provo a fare un esempio concreto: Mario Rossi, falegname, ha crediti per 45 mila euro con una Asl. Bene: un bel giorno gli comunicano che riceverà Bot per 45 mila euro da accreditare sul monte titoli in conto alla sua impresa (per detenere i Bot bisogna avere un deposito titoli in banca o alle Poste). Il signor Rossi che cosa deve o che cosa può fare di quei 45 mila euro in Bot? Li può cedere sul mercato, come a lui conviene o gli sarà necessario, e quindi monetizzarli sul c/c? E se tutti i Rossi cedono sul mercato 10 mld di Bot in un anno quale sarà il deprezzamento del debito italiano?
     Se, invece, quei Bot vengono emessi sotto il vincolo della non cedibilità per un determinato periodo, il sig. Rossi deve comunque contabilizzarli come fatturato e quindi pagare tasse cash contro un credito non immediatamente esigibile?
     Sono domande alle quali si dovrebbe trovare una risposta convincente prima di sparare a vanvera proposte senza capo né coda. 
     Un fatto è sicuro: per quelle imprese che non sono rimaste schiacciate da crediti non pagati dalla PA, incassare quanto gli è dovuto da anni avrebbe un effetto leverage jobs development opportunities straordinario. Non saprei quantificare il numero di posti di lavoro che si creerebbe, ma sarebbe senz'altro cospicuo il numero di posti di lavoro che non verrebbero cancellati. Allora, meno chiacchiere e più proposte purché sensate e non parole al vento come quelle fin qui pronunciate.

mercoledì 6 febbraio 2013

DESTRA-SINISTRA, UNA POLEMICA DI FINE ANNI '30

DESTRA-SINISTRA, UNA POLEMICA DOMENICALE
FRA ORTEGA Y GASSET E MAURICE THOREZ


     Il grande filosofo liberale Josè Ortega y Gasset collaborava, alle fine del 1936, con un giornale locale del Midi della Francia (forse La Croix du Sud). A fine luglio, chiude un editoriale, dedicato alle polemiche sul voto inglese, con una considerazione di sistema sul concetto di destra e sinistra. Ortega definisce queste parole come espressione di "categorie mentali, camicie di forza con le quali si vuole annichilire la mente umana fino a renderla imbecille: in realtà non esistono e non hanno senso come categorie della politica".
    La settimana successiva, Maurice Thorez, segretario dell'allora Partito comunista francese, prende carta e penna, e scrive al quotidiano con un attacco diretto a Ortega: "chi sostiene queste tesi - scrive Thorez - è uno di destra". Ancora sette giorni, ecco la controreplica: "chi mi accusa di essere di destra è un imbecille e non mi importa a quale categoria politica sia iscritto".


BERSANI-MONTI ALLEATI DAY-BY-DAY
MA BERLUSCONI SI FA MALE DA SOLO


     Il passaggio dalla "strana maggioranza" a tre a una "ordinaria alleanza" a due Bersani-Monti non è così scontato e naturale come ha interesse a far credere Berlusconi. Il viaggio di Bersani a Berlino, non c'è dubbio, è stata un'occasione cercata e costruita perché è nella casa dell'ortodossia dell'austerità che il segretario del Pd doveva dare le rassicurazioni sulla continuità della politica di bilancio e riceverne in cambio un semaforo verde. Questo è il senso della disponibilità, proclamata nella successiva conferenza stampa, a un'alleanza con la lista di Mario Monti. Essa è stata resa necessaria perché, evidentemente, le rassicurazioni fornite da Bersani a Wolfgang Schauble non sono state ritenute sufficienti dagli interlocutori tedeschi. Il centrodestra in Italia non ha colto questi movimenti nella giornata berlinese dell'avversario e, come al solito, l'ha buttata in caciara.
     Bersani è volato a Berlino qualche giorno dopo Monti, in una successione non casuale. I due viaggi hanno consentito ai due esponenti di riannodare un filo che si stava pericolosamente consumando sotto il fuoco incrociato della campagna elettorale. Può suscitare una qualche non immotivata impressione l'idea che sia Berlino la sede di composizione di controversie interne al quadro politico italiano. E in effetti così è, al netto delle polemiche elettorali.
     Polemiche strumentali, è ovvio, se vengono dalla destra berlusconiana, ma foriere di non passeggere preoccupazioni per il futuro quando a sollevarle sono i Vendola e gli Ingroia, il primo alleato organico di Bersani mentre per il secondo non è difficile ipotizzare il ruolo parlamentare di spina nel fianco del centrosinistra (al netto, ovviamente, di quello che sarà il risultato delle urne).
     Certo è che il tono della campagna elettorale fra Monti e Bersani è mutato sensibilmente nelle ultime ore. Concentrandosi sull'agenda delle riforme da fare, a partire dalla crescita e dalla riforma del lavoro. Più sullo sfondo sono finite le questioni legate alla revisione dell'Imu o alla riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese. A conferma che l'alleanza sta muovendo i primi passi, lo stesso Monti ha ripetuto che non è nel suo orizzonte una patrimoniale, con ciò rivolgendosi a quella parte di elettori ancora indecisi, tentati dal voto ma timorosi dell'alleanza con chi invece ha fatto della patrimoniale una bandiera.
     Si tratta, per Monti e Bersani, di mandare al loro posto, a una a una, le tessere di un mosaico programmatico ancora confuso ma sicuramente complicato da comporre all'indomani dell'affermazione elettorale. Si può ragionevolmente affermare che da ieri è in funzione fra i due un'alleanza day-by-day. Da oggi il fuoco si concentra necessariamente sull'avversario irriducibile che è Berlusconi. Il quale continua imperterrito sulla sua strada utilizzando il vecchio impasto di populismo e ribellismo fiscale. L'idea della restituzione dell'Ima è davvero bislacca e fuori dal mondo, mentre senz'altro accettabile sarebbe la proposta di abolizione integrale dell'imposta. Ma quello che impedisce a Berlusconi di essere credibile è la mancanza di una visione tipica della destra liberista anglosassone. Se solo i suoi consiglieri avessero seguito per qualche ora il dibattito che scuote il Congresso americano non avrebbero esitato a suggerirgli l'unica vera risposta: finanzieremo l'abolizione dell'Imu con un taglio via via più consistente della spesa pubblica e una ridefinizione del welfare state per adattarlo al mutato contesto globale.
     Si badi bene: il che fare della spesa pubblica e come rimodellare lo Stato sociale ormai fatiscente sono i due grandi temi assenti dalla campagna elettorale. Nessuno ne parla: Monti, Berlusconi e figurarsi Bersani. Non parlarne significa soltanto due cose: se vince la sinistra, altre tasse in arrivo per conservare la macchina sfasciata del welfare; se vince la destra e in essa la posizione più populista, lo spread è pronto a ripartire verso mete sconosciute.

martedì 5 febbraio 2013

MPS, DOVE E' LO SCANDALO

     Perché tutti mostrano meraviglia e si scandalizzano per quello che sta accadendo ai vertici del Monte dei Paschi di Siena, e nessuno si chiede perché sieda ancora al suo posto il presidente della Fondazione MPS, Gabriello Mancini? Sta accadendo quello che in forme diverse, forse meno clamorose nella rottura delle procedure, accade in tutte le fondazioni bancarie. La nascita della Fondazioni, voluta dalla legge Ciampi del '93 per scongelare quella che Giuliano Amato definì la "foresta pietrificata" del sistema bancario, fu il tentativo in bonis di mettere una certa distanza fra la partitocrazia e la cassaforte. Come per ogni novità destinata a conservare sotto mutate spoglie il sostanziale dominio dei partiti, si gridò con entusiasmo alla fine della partitocrazia nel credito.
     Una menzogna o, come si direbbe oggi, una favola metropolitana buona per qualche titolazione sui giornali e niente più. Provate a leggere i nomi dei presidenti delle Fondazioni, di tutte le fondazioni di origine bancaria e indicatemi un nome - dico uno e basta - che non sia o non sia stato in un recente passato espressione della partitocrazia più pura.
     Gabriello Mancini, al pari di Sergio Chiamparino o di Cesare Guzzetti o di Giuseppe Mussari o di Antonio Patuelli, è espressione di una parte politica senza per questo violare nessuna norma di legge. Anzi, nel pieno rispetto delle norme di legge che assegnano agli Enti locali il potere di designare i consiglieri delle Fondazioni. Qual è la mission, la ragione sociale delle Fondazioni? Distribuire sul territorio le rendite che gli derivano dal possesso di quote percentuali delle banche controllate. Distribuirle ad attività socio-assistenziali, formative, ricreative, insomma in direzione di ogni e qualsivoglia iniziativa si ritenga utile alla crescita e allo sviluppo del territorio.
     Restiamo a Siena. La Fondazione è titolare di una quota della Banca MPS di poco superiore al 50%.
Ora è urgente una ricapitalizzazione di 3,7-3,9 miliardi. La Fondazione possiede 1,85-1,95 miliardi di euro per mantenere la sua quota? No, la Fondazione non dispone neanche di un centesimo. I Monti-bond vengono sottoscritti dalla Banca in forma di prestito pluriennale rimborsabile in un tot di anni. Bene. Chi garantisce quel prestito se non il socio di maggioranza, cioè la Fondazione medesima? Se i Monti-bond non sono un prestito cosa sono allora?
     L'amministratore delegato del MPS ricevette delega a ottobre dalla Fondazione (quale intuizione profetica, viene da dire) ad un aumento di capitale per sostenere il piano industriale triennale al termine del quale la Banca dovrebbe tornare a distribuire dividendi. LA Fondazione, disse il presidente Gabriello Mancini, sottolineava la non obbligatorietà dell'iniziativa e auspicava che il piano industriale potesse essere implementato senza ricorrere a risorse fresche. Qualche giorno dopo, però, il presidente della Banca, Alessandro Profumo, cominciò a vagheggiare l'arrivo di un socio finanziario forte: il sottinteso era che fosse questa l'unica alternativa all'aumento di capitale.
     La Fondazione non incassa dividendi dalla Banca da almeno tre anni, ergo le sue casse sono vuote e, sulla base della legge Ciampi, si può dire tecnicamente fallita o evaporata. Domanda: come può assolvere al ruolo di garante del prestito obbligazionario di 40 milioni del Comune di Siena? O, per connessione, deve ritenersi tecnicamente fallito anche il Comune di Siena?
     Gabriello Mancino avrebbe tutti i buoni motivi per dimettersi da presidente della Fondazione. Chi o che cosa gli impedisce di farlo? Forse il fatto che sarebbe il commissario che governa Siena a nominarne il successore e non il futuro sindaco quasi sicuramente espressione del Pd?
 

Benvenuti a quanti mi leggerrano, per curiosità o anche solo casualmente. Non penso di tenere qui un diario personale pubblico: lo fanno già in tanti e l'idea di vivere in un Truman show non mi affascina. A che serve mettere in pubblico se stessi o sbirciare dentro la vita privata di altri? Credo più utile invece  parlare di noi, dico noi italiani, dei nostri molti problemi, di come far crescere le nostre speranze, per noi ma soprattutto per chi ci sarà dopo di noi. E per farlo vorrei capire, con l'aiuto di chi legge, che cosa si spera o si teme che possa accadere all'indomani delle imminenti elezioni politiche. Buona giornata a tutti