mercoledì 28 giugno 2017

BERLUSCONI E LE MATRJOSKE DELLA SINISTRA


di Massimo Colaiacomo


     La resa dei conti nel PD e nei suoi dintorni è soltanto all'inizio. Matteo Renzi ha deciso che tornerà a interpretare se stesso, l'unica parte che gli riesce bene anche se dal pubblico salgono più fischi di disapprovazione che applausi. Una scelta temeraria, ai limiti dell'incoscienza politica ma ben dentro la coscienza che il copione non gli consente di calarsi in altri ruoli. Non può fare il federatore di una sinistra talmente atomizzata e attraversata da rivalità e rancori personali che perfino il Vinavil di Prodi non incolla più. Non può fare il tessitore di alleanze, perché a qualsiasi potenziale alleato verrebbe chiesto di donare sangue elettorale al PD senza trarne benefici per sé.
     Renzi può fare solo Renzi, con ciò ridimensionando il numero degli atouts che a suo tempo gli vennero riconosciuti in misura forse sproporzionata. Questa limitatezza ben si riflette nella decisione della Commissione Affari costituzionali di rinviare a settembre l'inizio dell'esame della legge elettorale in Aula. Se qualche fretta aveva avuto fin quando era aperta la finestra elettorale di ottobre, Renzi si prepara ora a una guerra di trincea in Parlamento e la legge elettorale non è più solo lo strumento per puntare alla vittoria elettorale ma diventa, domani più di ieri, il terreno su cui costruire un dopo-voto che è facile prevedere sarà un rompicapo.
     Berlusconi torna così, per una serie di circostanze solo in parte dovute alla fortuna, a essere il crocevia in questo fine legislatura ma ancora di più nella prossima. L'intervista del ministro Franceschini a Repubblica è significativa. Al netto della reprimenda al segretario del suo partito, è sulla legge elettorale che il ministro della Cultura si ritaglia una posizione autonoma nel PD. Laddove osserva che una legge deve consentire di dichiarare la coalizione prima del voto "o che consenta di farla dopo". "Comunque - aggiunge - una scelta di coalizione dopo le elezioni bisognerà farla". Affermazioni chiare e senza retropensieri. Franceschini dà per acquisito che dopo il voto non ci sarà nessun vincitore con una maggioranza netta in Parlamento. Il che significa che il rifiuto di Renzi a costruire una coalizione larga di centrosinistra prima del voto, implica che non potrà essere lo stesso Renzi a tentare l'impresa dopo il voto, allorché la competizione elettorale avrà ulteriormente lacerato quel campo.
     Franceschini ha girato il coltello nella piaga del renzismo. Come nelle matrjoske, e senza strappi, Franceschini non chiama Renzi sul banco degli imputati, ma uscendo dal renzismo ortodosso gli fa notare come la sua strategia gli precluda molte strade per il dopo-elezioni quando Renzi non avrà altre chances se non la disponibilità di Berlusconi per formare la maggioranza, atteso che PD e Forza Italia dispongano dei numeri necessari. Franceschini, al contrario, senza strappare la carta di Berlusconi, cerca di aprirsi un varco con la galassia alla sinistra del PD nella prospettiva di costruire una maggioranza quale che sia l'esito del voto. Il ministro si muove lungo un solco per certi versi "dalemiano", e si muove nell'ipotesi che l'abbraccio a Berlusconi non può essere del solo PD ma di tutto il campo progressista. Come, vent'anni fa, riuscì di fare a D'Alema.