mercoledì 27 novembre 2013

LETTA TROPPO IMPEGNATO A DURARE NON PUÒ GOVERNARE

di Massimo Colaiacomo

La fine del governo Letta è scritta nelle cose, nella realtà dura e prosaica resa invisibile dai polveroni mediatici, dalle folate polemiche sollevate ora della decadenza di Berlusconi, ora dalle telefonate del ministro Cancellieri, ora dalle smanie di premiership che danno prurito alle mani del sindachino di Firenze. La raffigurazione che ne esce è quella di una giostra impazzita, metafora di un sistema istituzionale giunto al capolinea e ormai irriformabile. Un premier che si trascina stancamente da mesi, in compagnia di un surreale ministro dell'Economia dai modi alquanto macchiettistici, alla ricerca di 2,4 miliardi per cancellare la seconda rata dell'Imu salvo trovare la soluzione in una serie di anticipi fiscali che colpiscono banche e imprese, è un premier che ha gettato la spugna. L'unico impegno rimasto a LEtta è la durata della sua permanenza a Palazzo Chigi. Anche lui finito prigioniero della sindrome giolittiana secon ocui "durare è tutto, governare è niente".
I problemi che ha davanti sono stati resi insormontabili dopo il voto del Senato con cui si è sancita la decadenza di Berlusconi. È bene sgombrare il campo dagli equivoci: qui non si vuole giudicare la bontà o l'opportunita del voto del Senato. Queste cose si lasciano volentieri ai Santoro e ai Floris e agli imbonitori che fioriscono per ogni dove. L'analisi dei fatti politici deve necessariamente prescindere dalla loro dimensione morale: dove c'è la morale la politica è fottuta. She died and buried.
Il cumulo di errori di Letta, assecondato da un Capo dello Stato per la prima volta in vistoso difetto di lucidità, sovrasta e annulla i suoi già scarsi meriti. La Legge di Stabilità è qualcosa di peggio che una legge inutile e dannosa, come ripetono le prefiche di Forza Italia: essa pone le premesse per il commissariamento dell'Italia. Si fa strame del reddito di impresa e si affondano le mani nelle tasche già vuote dei cittadini. Come possa crescere un Paese i cui abitanti non dispongono dei soldi necessari per alimentare i consumi rimane un mistero sul quale il ministro Saccomanni potrebbe esercitarsi con qualcuno dei suoi sonetti romaneschi.
La contabilità fiscale dello Stato presenta una casella vuota alla voce "spese da tagliare". Al contrario, non ci sono più caselle disponibili nel capitolo dedicato al prelievo fiscale. Il dramma italiano è racchiuso tutto in questo strabismo, che dura da quanto dura la Repubblica o poco meno. Con un sistema istituzionale ridotto allo stremo e in balia dei disegni sempre più umorali del Capo dello Stato, è difficile immaginare quanto possa andare avant un Parlamento dai cui scranni mancano i leader che da soli rappresentano quasi il 70% degli elettori. Le Camere non rappresentano più il Paese se Berlusconi, Renzi e Grillo ne sono fuori. L'assenza di leader politici, ma padroni del Parlamento per effetto del porcellum che li rende padroni delle nomine dei parlamentari, è una patologia che rischia di divorare le periclitanti istituzioni repubblicane.

La sola vera missione di questo Parlamento dovrebbe essere la riforma elettorale o l'eliminazione delle incongruenze del "porcellum" per andare quanto prima alle elezioni. Chi immagina che il governo possa assumere un'iniziativa in questa direzione è un povero illuso. Non l'ha fatto fino a oggi, pur godendo di una vasta maggioranza, nel timore che riforma la legge si corresse verso le urne, perché mai lo farebbe ora che la sua maggioranza corre sul filo di lana? La paralisi dei prossimi mesi, causata dai comportamenti temerari del Capo dello Stato, è fieno per la cascina di Grillo e per tutte le opzioni populiste che si vanno rafforzando, compresa quella di Berlusconi. Il quale avrebbe la possibilità, ora che è fuori dal Parlamento, di lavorare al progetto annunciato vent'anni fa e venduto come una pozione miracolosa ma mai davvero sperimentate: lavorare alla costruzione di una destra di impronta europea e mettere in piedi un'opposizione ferma, determinata e puntuale, non demagogica e senxa cedimenti alle sitene del populismo grillino. È possibile che il Cavaliere faccia ora quel che non ha fatto nei precedenti vent'anni? È difficile da credere. Allora dalla padella di Letta si passerà agevolmente nella brace di una competizione elettorale in cui si confronteranno il populismo poujadista della destra e il populismo sgangherato e utopistico d Beppe Grillo. Con tanti saluti all'Europa.

lunedì 25 novembre 2013

LA SOLITUDINE DI NAPOLITANO NELL'ULTIMA BATTAGLIA

di Massimo Colaiacomo

Una nota ufficiosa e risentita per rispondere alle critiche di Berlusconi; silenzio - si presume con profonda irritazione - per il rispetto senza venerazione di Matteo Renzi: il Quirinale è nel mirino di una polemica sempre più martellante con settori più o meno vasti del Parlamento, e non solo delle opposizioni. A parte il fuoco quotidiano di Beppe Grillo e l'asprezza dei toni berlusconiani, sono le critiche via via crescenti - nei toni e nelle argomentazioni - di Matteo Renzi a rendere complicato il già delicato ruolo di equilibrio del presidente Napolitano.
Renzi, in attesa dell'investitura delle primarie, insieme a Grillo e a Berlusconi costituiscono una vasta area parlamentare che da ruoli diversi, di maggioranza e di opposizione,  vede in Napolitano l'ostacolo più difficile da rimuovere sulla via delle elezioni anticipate. Napolitano ha varcato non da oggi il Rubicone della presidenza notarile: non è stato solo l'artefice, con il beneplacito di Berlusconi, dell'attuale governo di "larghe intese", ma ne è divenuto con il tempo anche il principale e più strenuo difensore al punto da mettere tutto il suo peso nei più recenti e complicati passaggi parlamentari. Valga per tutti la vicenda del ministro Cancellieri per superare la quale, ed evitare la sfiducia, Napolitano non ha esitato a dare una copertura istituzionale e personale come mai era prima accaduto. Al punto da mettersi contro il suo stesso partito, un PD sempre diviso e che rischia di dividersi ancora di più proprio sul sostegno al Quirinale.
Napolitano è qualcosa di più che il tutore di Letta. Egli è ormai il simbolo stesso di questo governo la cui maggioranza rischia di sfaldarsi proprio sulla opportunità, e sulla invadenza senza precedenti, della tutela quirinalizia. Al punto in cui si è spinto nella sua strategia, tutto lascia presagire che Napolitano dovrà compiere il gesto estremo delle sue dimissioni nel caso in cui Renzi dovesse decidere da qui a gennaio che le larghe intese vanno archiviate.

Si tratta di un'ipotesi meno remota oggi di quanto non fosse ancora qualche settimana fa. Perché il Quirinale si sia dovuto esporre fino a tal punto è evidente: avendo Napolitano legato la sua rielezione alla nascita di un governo con una vasta maggioranza, non potrebbe accettare un quadro politico tale da negare il significato della sua rielezione. Qualcosa tessera di questo complesso mosaico però non è andata al posto giusto. Viene da chiedersi, per esempio, in che modo e quando Napolitano ha ritenuto di poter fare a meno della "tessera" di Berlusconi essendo stato il leader del PdL uno dei principali sponsor dell'attuale maggioranza. La sua decadenza da senatore è stato un evento imprevisto nel disegno del Quirinale, oppure Napolitano aveva messo in conto un'ascesa "resistibile" di Renzi e, tutto sommato, un PD docile agli ordini del Quirinale? Il venir meno dell'uno (Berlusconi) e le divisioni dell'altro (PD) lasciano ora il Colle in una condizione di solitudine. Certo è che l'ultima cosa che Napolitano si aspettava nella sua lunga carriera era di ritornare "in minoranza" nel Parlamento. Avendo legato il destino del suo mandato a quello del governo Letta, rischia ora di trovarsi in minoranza anche nel Paese.

lunedì 18 novembre 2013

LETTA SCORTICA IL FONDO DEL BARILE, L'EUROPA NON CREDE CHE TAGLIEREMO MAI LA SPESA



QUELLO CHE LETTA PUÒ FARE, QUELLO CHE DOVREBBE FARE E QUELLO
CHE NON FARÀ PER ALLONTANARE IL VOTO E AVVICINARE LA TROJKA

di Massimo Colaiacomo

     Enrico Letta fa bene a ostentare ottimismo sulle sorti del governo e del Paese. È il presidente del Consiglio e sarebbe curioso se facesse o mostrasse il contrario. A ciò si aggiunga che la lunga scuola democristiana, sia pure sotto la guida di una personalità intelligente e di specchiata moralità come Nino Andreatta, lo ha educato a un distacco cinico rispetto ai tumulti della vicenda politica. C'è una galleria di aforismi per spiegare il mood con cui Letta osserva e si muove nel quadro politico. Valga per tutti l'adagio attribuito a Giovanni Giolitti secondo cui "durare è tutto, governare è niente".
     La spaccatura del PdL non è il divorzio da molti immaginato fra Berlusconi e Alfano ed essa non è affatto destinata a rafforzare il governo. Se vuole respingere le accuse di tradimento, Alfano dovrà necessariamente irrigidirsi sulle questioni programmatiche che stavano a cuore al PdL: dal calo della pressione fiscale alla riforma del mercato del lavoro, dai tagli della spesa pubblica hic et nunc alla riforma della Pubblica amministrazione, non c'è terreno sul quale Alquale non sarà chiamato a dar prova di coerenza con l'impostazione programmatica del PdL. È certamente vero che per Enrico Letta cesserà lo stillicidio quotidiano di agenzie che minacciano la crisi ogni tre per due, ma è altrettanto innegabile che si restringono per lui gli spazi di manovra sul programma. Di qua Alfano, di là un Matteo Retante, come si vede dal caso Cancellieri che divide il Pd. Con i renziani nel ruolo di avanguardia nella richiesta di dimissioni del ministro, difeso a spada non più tratta dal Quirinale e dal premier. Se la Cancellieri, come lasciano intuire le voci che filtrano, sceglierà la via delle dimissioni per togliere Letta da ogni imbarazzo, non è facile chiudere la vicenda con un rimpasto limitato a quella sola casella.
     E i rimpasti di governo, insegna l'esperienza, si sa come iniziano ma nessuno sa come finiscono.Nun rebus aggiuntivo per Letta, chiamato a un altro passaggio non agevole. Può darsi che la frantumazione del quadro politico, e in particolare delle forze nel centrodestra, si risolva in un cemento positivo per la maggioranza residua, almeno in una prima fase. È altrettanto evidente che la maggiore coesione della maggioranza residua dipenderà dagli interessi concreti dei protagonisti sul campo. Quello di Alfano è di prendere tempo, non precipitando la corsa elettorale, avendo il problema difficile di organizzare un partito. Quello di Renzi è diametralmente opposto: accelerare verso le urne per non perdere il favore del momento. Con un centrodestra diviso (diviso meno di quanto appaia, ma pur sempre diviso e pasticcione), perché attendere il 2015 quando Renzi sarà stato logorato dai vecchi cacicchi del partito?
     Enrico Letta avrebbe, e tuttora ha, carte importanti da giocare. Per esempio, riscrivere larghe parti della legge di stabilità, calare il sipario sullo spettacolo indecoroso e risibile (e l'Europa ride, non credendo a una sola parola) di una spending review diventata come l'albero di Bertoldo, e procedere a tagli vigorosi e socialmente dolorosi della spesa pubblica. Il modello è quello di Mariano Rajoy, in Spagna. Quel premier ha fatto una cosa semplice, due anni fa: ha preso le misure che al suo posto avrebbe preso la trojka. Ha salvato la dignità nazionale e ridato a se stesso una prospettiva politica. Per fare questo Letta dovrebbe  abbandonare la strategia della sopravvivenza e navigare in mare aperto. Lo farà? È da escludere, visto il timbro democristiano che risuona in ogni sua indecisione. Più probabile che in primavera sarà la trojka economica a fare quello che un ceto politico fallito non è in grado di fare. Del resto,bbe fare oggi quello che nessuno ha voluto fare in 65 anni di vita repubblicana?

domenica 10 novembre 2013

SE UN GIORNO GLI OPERATORI SCOLASTICI TORNASSERO BIDELLI (LA SPESA PUBBLICA SCENDEREBBE DI 10-15 MILIARDI DI BOTTO ...)

        di Massimo Colaiacomo

        L'Italia affoga in un oceano di ipocrisia. Gli affluenti principali scendono dai palazzi della politica, s'ingrossano e diventano laghi nella società, nei cosiddetti corpi intermedi (sindacati, associazioni di categoria). Come una coltre spessa e polverosa, l'ipocrisia ha inghiottito figure e ruoli sociali, funzioni, professioni, lavori. L'atomizzazione sociale è stato il colpo di grazia su un tessuto civile storicamente fragile e mai compiutamente cucito fino al punto da assumere l'aspetto di Popolo o di Nazione. La furia iconoclasta sotto i cui colpi sono caduti ruoli sociali, funzioni e lavori ha lasciato un campo di macerie, e l'ipocrisia ha ricoperto tutto. Un'ipocrisia costosa in termini sociali, ricattatoria verso la finanza pubblica e devastante verso le generazioni future alle quali sarà più difficile ancora declinare il termine "italiano".
Il desiderio di sterilizzare il conflitto sociale nascondendolo sotto la maschera del sociologismo ha distrutto figure nobili la cui memoria ha lasciato tracce indelebili nella biografia di generazioni di italiani. Lo scopino o spazzino è sparito, ribattezzato operatore ambientale. Con lui sono diventate "operatori" tutte le altre figure legate alla nostra infanzia: il bidello, il ghisa-pizzardone-vigile. Tutti loro operano, spogliati del loro ruolo sociale, privati della loro identità lavorativa. Tutti sono mal pagati, ma nessuno di loro ha più un'identità da far valere. Sono soltanto operatori che operano, nannimorettianamaente sono costretti a dire che per per vivere "vedo persone, faccio cose".
Il bidello doveva pulire le aule al termine delle lezioni, lo scopino passava alle prime luci dell'alba per pulire le strade. Lo stesso valeva per il pizzardone-ghisa. O il portantino in ospedale, che ogni mattina alle 5 in punto puliva le corsie. Il bidello non pulisce più le Aule, lo scopino è stato soppiantato da rumorosi camion e il portantino, mansionario alla mano, porta un pulmino all'interno degli ospedali.
La pulizia di ospedali, aule, strade, uffici è appaltata a ditte esterne. Quanto costa allo Stato, cioè a ogni contribuente italiano? Qualcuno ha mai fatto i conti? Secondo uno studio dell'Anci, non molto diverso da una ricerca di Bankitalia, si stima in circa 10 miliardi all'anno la spesa sostenuta dallo Stato per la pulizia di tutti i luoghi pubblici (con l'eccezione delle strade) appaltata a ditte esterne.
Nessuno dei politici ha mai pensato di indicare in questa voce di spesa il terreno più adatto per tagli vigorosi della spesa pubblica. Perché? Certo, perché i mansionari - autentiche tavole della legge - dicono che il bidello non deve più pulire le Aule né il portantino le corsie degli ospedali. Su quei mansionari, insomma, è scritto che ciascuno dei 60 milioni di abitanti dell'Italia deve sborsare più di 150 euro all'anno per finanziare la pulizia di scuole e ospedali.
  Chi ha redatto i mansionari? E chi controlla grandi e piccole società di pulizia? Qualcuno ipotizza che i mansionari siano stati redatti da persone divenute successivamente titolari, direttamente o indirettamente, delle stesse società chiamate a pulire le scuole. Politici, loro familiari o parenti, sindacalisti e affini hanno e in che misura una qualche cointertessenza nella conservazione dello status quo? Dieci miliardi tagliati alle pulizie, e bidelli e portantini restituiti alla dignità del loro ruolo, significano un taglio del cuneo fiscale pari ad almeno 50 euro al mese.
Il commissario alla spending review conosce questa realtà? Ha il mandato per agire in questa direzione o gli hanno fornito un pacco di carta assorbente soltanto per asciugare qualche goccia di troppo dal fiume di spesa pubblica inutile che continua a scorrere in tutta Italia?
Un ex presidente della Consulta confidava, durante una cena, che al Consiglio di Stato vigono norme sindacali per le quali una dattilografa, figura preziosa per la scrittura delle sentenze, una volta promossa e passata alla qualifica superiore, perde l'obbligo di scrivere a macchina o al computer. Così, qualche anno fa, c'è stata un'infornata di promozioni e il risultato è stato che il Consiglio di Stato ha dovuto appaltare a una società esterna la scritture delle sentenze, materia peraltro di qualche riservatezza d'ufficio. Il risultato è stato più spese per l'aumento di stipendio e più spese per l'appalto della redazione delle sentenze a una ditta esterna. Il commissario alla spending review conosce questa, e chissà quante altre realtà ad essa simili o assimilabili?
L'impressione sempre più netta è che qualsiasi revisione della spesa pubblica è pressoché impossibile senza coinvolgervi a pieno titolo le organizzazioni sindacali, appaltatrici in proprio della dichiarazione dei redditi di milioni di lavoratori e pensionati. La spesa pubblica è difficile da tagliare, ma non per il timore, come si crede, di lasciare frotte di italiani sul lastrico. No, è difficile da tagliare perché le sue fonti sono coperte dal mare di ipocrisia di chi dovrebbe tagliare quella spesa.
Quando si ipotizza in 60 o 70 miliardi di euro l'ammontare dei taglidi spesa, si fa un'ipotesi minimalista. Si potrebbe tagliare molto, ma molto di più. E restituire quei soldi ai loro legittimi proprietari, cioè i contribuenti che pagano le tasse. 

 

mercoledì 6 novembre 2013

IL GOVERNO E IL VOLO DELLA FENICE

                                                                di Massimo Colaiacomo
 
     Era un grande film di Robert Aldrich, con un cast tutto maschile, quello che nel 1965 spopolò nelle sale cinematografiche. "Il volo della Fenice" raccontava la storia di un gruppo di uomini il cui aereo era stato costretto a un atterraggio di fortuna nel deserto libico. Dopo mille vicissitudini, e persa ogni speranza di ricevere i soccorsi, un ingegnere del gruppogene l'idea di smantellare l'aereo precipitato per costruirne uno più piccolo e tentare un volo di fortuna. Gli attimi di maggiore suspence coincidono con i tentativi di accensione del motore. I superstiti hanno sette cartucce per l'accensione ma è soltanto con la sesta che riescono a riavviare il motore e a far decollare l'aereo.
     La metafora sembra quanto mai attagliarsi alla condizione dell'Italia. Quante sono le cartucce a disposizione del governo di Enrico Letta per tentare di riavviare il motore della - un tempo - settima potenza industriale del mondo? Poche, meno delle sette rimaste all'equipaggio dell'aereo del film. E quelle finora impiegate non hanno fatto neanche vibrare l'aereo del bimotore. Far ripartire l'economia, cioè la crescita, significa aver messo da parte scorte di carburante e il consumo maggiore, come si sa, è proprio nella fase di rullaggio e decollo. Una volta in quota, il volo si autoalimenta se il pilota sarà bravo a studiare la direzione dei venti.
     Fuor di metafora, l'esecutivo di Enrico Letta ha finora badato ad evitare le zuffe troppo frequenti fra i ministri e all'interno della sua maggioranza. Anche se in quest'opera non può certo dirsi aiutato da un ministro dell'Economia estemporaneo, improvvisato e improvvisatore. È molto grave il comportamento di Fabrizio Saccomanni. L'idea di far vivere i contribuenti sul filo della corda, di annunciare ipotesi di tasse o di ritorno dell'Imu, è un comportamento troppo dilettantesco e inspiegabile se non ha alle spalle un retropensiero o uno scenario politico diverso da quello che vediamo.
     L'outlook della Commissione Ue sulle prospettive della finanza pubblica italiana è in qualche misura assimilabile all'ultima chiamata e le risposte attese dall'Italia sono in tutto simili all'ultima cartuccia a disposizione del governo prima del naufragio suo e del Paese.
     La ricetta suggerita con la frequenza di un rosario da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina risuona come una vox clamans in deserto, rimanere paralizzati di fronte alla grandezza dell'impresa significa averla persa in partenza. L'Italia non è sull'orlo del precipizio, ma lo ha superato da un pezzo e si trova nella fase in cui la luce esterna si smorza velocemente prima di essere risucchiati nel buio. La riforma del lavoro è al palo; gli incentivi per l'assunzione dei giovani purché a tempo indeterminato non aiutano una sola assunzione; se anche in Italia non si diffonde la cultura della polizza privata da affiancare alla spesa pubblica il sistema sanitario ingoierà il poco che resta del Paese; le Regioni si sono rivelate  l'Idra a sette teste che ha consumato le finanze pubbliche ben oltre gli scandali e i fenomeni corrutivi. Abolire le Province, ridimensionare le Regioni e, soprattutto, non gridare allo scandalo se si sottrarre il sistema sanitario al controllo delle Regioni per ricondurlo al controllo statale. Il ritorno alle Casse Mutue, che tante prove eccellenti diedero nell'immediato dopoguerra, significherebbe allineare l'Italia al modello tedesco o francese. Lo Stato paga una quota per l'assistenza sanitaria, un'altra è a carico del mutuato. L'assistenza diventa così gratuita per i senza lavoro e i disoccupati, ma non per chi lavora o gode di una pensione oltre una certa soglia di reddito.
     L'esecutivo ha scelto una strada perdente e confermata tale nel corso dei decenni. Le tasse, vecchie o nuove, sono le cartucce bagnate usando le quali nessun motore potrà mai essere riavviato. Tagliare il cuneo fiscale, per di più nella misura irrisoria che si profila, non porta da nessuna parte. Anzi, porta soltanto a un ricorso alla Corte Costituzionale per discriminazione nei confronti delle categorie di reddito diverse dal lavoro dipendente (pensionati, autonomi ecc.).
     Serve all'Italia una cura drastica di alleggerimento fiscale: 50 o 60 miliardi da distribuire a tutti i contribuenti, ai redditi bassi come a quelli un tempo medio-alti e oggi prossimi alla fame. Dove reperire le risorse? Chiudendo le Province; ridimensionando le Regioni; obbligando i piccoli Comuni ad associarsi in consorzi per abbattere le spese di gestione d di servizi; vendendo (anzi: svendendo, per fare prima) tutte le aziende municipalizzate. È possibile? Sì, tutto è possibile. Il paziente portato in sala operatoria perché colpito da un ictus ha pochi minuti che lo separano dalla guarigione o dalla morte perché il suo cervello è rimasto senza ossigeno anche solo per pochi secondi. L'Italia è quel paziente. La responsabilità invocata dal presidente della Repubblica è, detto con rispetto, l'ultima e più inutile delle qualità necessarie  al governo. Più utile è il coraggio invocato da Alesina e Giavazzi.

martedì 5 novembre 2013

GOVERNO IN CERCA DI MINISTRI (E DI PREMIER)

di Massimo Colaiacomo

     Capita a tutti nella vita di andare in bambola affrontando una circostanza imprevista o nel mezzo di una situazione mal calcolata. La politica è parte della vita (parte, non la vita) e capita quello che capita nella vita. Per esempio che ministri dello stesso governo vedano situazioni diverse per uno stesso problema, oppure che gli stessi ministri vedano probemi diversi da una stessa situazione. Succede anche al presidente del Consiglio Enrico Letta i cui ministri bisticciano sullo stato del bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto. Per il ministro del Welfare Enrico Giovannini l'aumento della disoccupazione nel 2014 è da considerarsi "fisiologico". I moralisti arricciano il naso, ma non è il caso. Con il naso si possono arricciare anche le orecchie se si leggono le motivazioni date da Giovannini. Eccole: "quando c'è una ripresa economica - ha spiegato Giovannini intervenendo a "L'Economia prima di tutto" -  molte delle persone che al momento sono scoraggiate e non cercano lavoro, si mettono alla ricerca del lavoro quindi che il tasso aumenti è del tutto fisiologico. Quello che è più importante è che questa ripresa porti più posti di lavoro".
     Per chi non avesse capito, la situazione attuale è questa: ci sono disoccupati invisibili, non censiti da nessuna statistica, insomma fantasmi che sfuggono a ogni rilievo per la ragione che il lavoro non c'è e allora tanto vale starsene chiusi nelle mura di casa. Fra qualche mese, quando il Pil riprenderà a crescere, quei disoccupati si decideranno ad abbandonare le confortevoli mura domestiche e torneranno presso gli uffici delle Agenzie del lavoro senza trovarvi il lavoro annunciato dalla ripresa. Che cosa succede allora? Semplice: quei disoccupati cessano dalla loro condizione di "invisibili" e diventano disoccupati riconosciuti, ufficiali e identificabili.
     Questo è una parte dello stato dell'arte nel governo italiano. L'altra parte la racconta il viceministro dell'Economia, Stefano Fassina. Meno smaliziato politicamente del ministro Giovannini, Fassina calcola che con una crescita nel 2014 stimata dell'1% non si avranno conseguenze significative sull'occupazione. Tradotto: la crescita è talmente misera che non ci saranno posti di lavoro in più. Anzi: la disoccupazione toccherà il livello record del 12,4%.
     La gravità "fisiologica" di queste affermazioni è stata aggravata, mentre scrivo questa nota, dalle stime della Commissione europea per il 2014. Stime in linea con quelle dell'Istat per quanto riguarda la crescita del Pil stimata allo 0,7% per il prossimo anno, con il debito che arriva al 134% del Pil e il deficit al 2,7%. Tutto questo che cosa significa? Significa alcune cose molto brutte per l'Italia: afferreremo la ripresa per la coda ma non ne saremo trascinati. L'eurozona è vista in crescita dell'1,1%, mentre il debito salirà al 90,2%: quello dell'Italia, fotografato al 134%, risulterà superiore del 50% rispetto alla media eurozona.
     Sono previsioni fosche, per usare un eufemismo. Il fatto è che il governo ha fatto confusione fra i mezzi e il fine della sua azione: ha trasformato la stabilità nel suo unico fine, e non nel mezzo per fare quelle operazioni incisive e chchirurgiche dlla società italiana. La crescita dello 0,7%, se confermata, significa che un Pil di circa 1450 miliardi nel 2013, crcrescerei poco più di 10 miliardi. Mentre gli interessi sul debito, secondo le stime di Maria Cannata vice direttore di Bankitalia, ammonteranno nel 2014 a circa 85 miliardi di euro. Una situazione prossima al default, considerando che dal 2015 l'Italia dovrebbe ridurre di circa 45 miliardi l'anno il proprio debito: quindi, 45 miliardi di riduzione del debito sommati ai circa 85 di interessi (nello scenario di tassi stabili) significa trovare ogni anno 125 miliardi di euro. Che è come dire: arrendetevi e uscite mani in alto. A meno che tutta L'Eurozona non riconosca che il Fiscal compact è stato solo uno scherzo di pessimo gusto.

lunedì 4 novembre 2013

POPULISMO E RIFORMISMO, L'EUROPA ALLO SPECCHIO

di Massimo Colaiacomo

     Ha ragione Angelo Panebianco sul Corriere della Sera quando osserva che gran parte della responsabilità dell'antieuropeismo pronti a manifestarsi alle urne per il Parlamento europeo ricade sulle spalle delle élites che lo hanno provocato con le loro politiche sbagliate. Si può ragionevolmente aggiungere che l'antieuropeismo altro non è se non l'altra faccia della medaglia, cioè di un europeismo burocratico, lontano dalle persone ed alla realtà, nutrito degli interessi egoisti dei singoli Paesi. L'antieuropeismo è anche, va aggiunto, la risposta ai successi ottenuti dall'Europa sulla via dell'integrazione. Sia pure di un'integrazione sbilenca e squilibrata, in cui uno solo (la Germania) distribuisce le pagelle e detta il ritmo.
     L'antieuropeismo, aggiungiamo, è oggi più forte nei Paesi dove in passato si era registrato la più alta percentuale di adesione al progetto europeo. Come sorprendersi, del resto, se greci, spagnoli, portoghesi e italiani sono ostili al volto arcigno di un'Europa che chiede ai rispettivi Paesi sacrifici sanguinosi per risanare la finanza pubblica senza peraltro offrire nessuna prospettiva di crescita? Diverso è il caso della Francia. L'avanzata tumultuosa del Front national di Marine Le Pen si presenta più che altro come un allargamento dell'antico solco golliano dell' "Europa delle Patrie". Le Pen, balzata in testa ai sondaggi, attacca l'Europa sul terreno delle politiche concrete (l'immigrazione, la politica del lavoro e demografica) senza mai apertamente evocare l'uscita della Francia dall'Unione europea.
     Nel caso italiano, assimilabile a quello degli altri Paesi del Sud, l'antieuropeismo si nutre del rancore sordo per istituzioni avvertite come ostili e lontane. L'Europa, sognata e desiderata negli anni Settanta e Ottanta come l'approdo in un porto sicuro di benessere e di sviluppo, ha rivelato improvvisamente il suo volto inciprignito fatto di bilanci pubblici da mettere e tenere in ordine "a qualsiasi prezzo".
     Ma qual è il senso da dare alla presumibile valanga di consensi per i partiti anti-Ue? È possibile leggerlo in due modi: come voto di censura ai rispettivi governi nazionali, secondo una tradizione consolidata nel tempo; ma è anche possibile leggervi un voto dichiaratamente ostile alle modalità fin qui seguite per costruire l'integrazione europea. Come possono rispondere i governi nazionali alla manifestazioned i questo dissenso? Se quei governi sono sinceramente e intimamente convinti della bontà del progetto di integrazione (ed Enrico Letta lo è) hanno una sola strada da percorrere: fermare le macchine, porre il veto a ogni iniziativa di riforme strutturali dell'Europa senza aver prima ottenuto concessioni sostanziali e cospicue nella revisione delle politiche di bilancio. A cominciare dalla prima e più importante: la revisione del Fiscal compact per cui l'Italia dovrebbe ridurre di 50 miliardi all'anno il proprio debito pubblico.
     Si tratta di spiegare al governo di Berlino, ma soprattutto alla sua riluttante opinione pubblica, che una simile scelta è nell'interesse di tutti, dei tedeschi per primi. In sua assenza, l'Europa perderà ogni significato agli occhi delle nuove generazioni.