martedì 28 marzo 2017

EUROPEISTI IPERCRITICI ED EUROSCETTICI PIÙ RIFLESSIVI , CALA LA NEBBIA SULL'ITALIA



di Massimo Colaiacomo


     Dalla "doppia moneta" immaginata da Silvio Berlusconi alla "valuta fiscale" vagheggiata da Beppe Grillo, la fantasia degli euroscettici non conosce confini. Proposte diverse, unite però da una preoccupazione comune: uscire dall'euro sarebbe un danno e un rischio per l'Italia, meglio simulare un'uscita che non potrà mai realizzarsi. Rimanerci è un calvario quotidiano, e va cambiato radicalmente l'impianto dei trattati, fanno eco gli europeisti sempre più ipercritici verso le politiche economiche di bilancio dell'Unione. La seconda schiera ha il suo esponente di spicco nell'ex premier Matteo Renzi. Il risultato di tanto agitarsi è la caduta di ogni pregiudizio verso la moneta unica da parte di chi l'ha sempre osteggiata ed esibita come un idolo da distruggere. A mano a mano che ci si addentra nell'anno elettorale europeo (fra poche settimane si vota in Francia e, a settembre, in Germania), in Italia si alza il volume degli europeisti critici e si abbassa quello degli euroscettici. Salvini in Tv che agita il libretto per uscire dall'euro è un ricordo quasi remoto. Le scorciatoie dell'antieuropeismo sono esaurite, ma sono sbarrate anche le strade di chi, in nome dell'Europa, pretende di riservare soltanto critiche all'Unione e alle sue regole.
     Il vertice di fine a marzo a Roma per celebrare il 60/mo dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea non ha prodotto quello scatto di reni che era forse esagerato attendersi da una cerimonia celebrativa di una comunità che per un giorno ha messo fra parentesi gravi affanni, stretta nelle pastoie di procedure troppo farraginose per uno scatto in avanti nell'integrazione e di una contabilità comunitaria costruita sul Trattato di Maastricht, nel 1992, ma sempre più distante dalla realtà dei singoli Paesi. Quelle 27 firme in calce al documento comune hanno sicuramente un qualche valore simbolico e in parte politico, visto le difficoltà superate per la sua stesura. Ma non vanno al di là dei buoni propositi. Forse ha ragione il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, quando osserva che quel documento avrà un valore se sarà tradotto in atti concreti di governo attraverso l'impegno delle istituzioni comunitarie. Da qui a immaginare un percorso più agevole rispetto al passato è troppo presto. La Germania, locomotiva politica dell'Europa, è oggi ripiegata su se stessa con le elezioni politiche generali che bussano alle porte. E il voto nel piccolo land della Saar ha premiato la CDU di Angela Merkel oltre ogni più rosea previsione. Per Martin Schulz, suo sfidante in settembre, la strada si è messa subito in salita.
     È sull'Italia, però, che restano puntati i riflettori della Commissione europea e della Bce. I ritardi accumulati dai governi negli ultimi anni nel risanamento della finanza pubblica hanno messo sulle spine i commissari europei. La minaccia di riaprire una procedura di infrazione per deficit eccessivo (l'Italia ne era uscita nel giugno 2012, governo Monti) ha rinfocolato il dibattito dentro il Pd e la maggioranza di governo. La realtà è che la manovra di 3,4 miliardi (forse 4, per destinare subito 1 miliardo alle aree terremotate) è una sconfessione in piena regola della politica economica del precedente governo Renzi. In autunno, quando cioè si entra nella stagione elettorale, la strada dell'esecutivo Gentiloni si farà ancora più ripida visto che per il quarto anno consecutivo sono da trovare i 20 miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia. È questo continuo girare attorno al problema del deficit, e del conseguente debito che esso genera, che proietta in Europa l'immagine di un Paese finito in una nebbia fitta. Nessuna forza politica, alla vigilia di elezioni quanto mai incerte nell'esito, si azzarda a proporre un bagno di verità al Paese. Il fallimento delle politiche economiche di Renzi, con la crescita asfittica del Pil e quella più robusta del debito, non ha indotto nessuno dei protagonisti a proporre un discorso di realismo. Assisteremo verosimilmente a una gara fra populismi più o meno hard: 800 euro di reddito di cittadinanza proposto dai grillini; pensioni minime per tutti a 1000 euro per Berlusconi; assunzioni e turn over nella PA proposto dalla sinistre.
     In questa saga dei populismi sarà difficile che trovino spazio proposte più o meno riflessive e realistiche di risanamento della finanza pubblica. La stagione riformista di Mario Monti, con i suoi chiaroscuri, ha segnato l'ultimo tentativo compiuto dal nostro Paese di imboccare un percorso riformatore al riparo dalle tentazioni della demagogia. Da allora, nonostante il contesto favorevole creato dal basso costo del petrolio, dalle iniezioni di liquidità di Mario Draghi, nessuna riforma di struttura è stata fatta in Italia, al netto di quelle annunciate sulla carta e li rimaste.  C'è materia, insomma, perché l'Europa continui a guardare con diffidenza verso uno dei suoi protagonisti più importanti.
     

sabato 18 marzo 2017

IL VOTO OLANDESE, LE CULLE PIENE DI ERDOGAN E L'EUROPA CHE NON C'È


di Massimo Colaiacomo


     Sullo scenario caleidoscopico della politica europea si sono affollati questa settimana molti protagonisti ma anche qualche comprimario le cui ambizioni sarà bene tenere d'occhio. Il focus era sul voto olandese, diventato il termometro per misurare il livello della febbre antieuropea e anti-immigrati raggiunto in quella società. È andata come sappiamo: Gert Wilders, l'ideologo dell'antieuropeismo radicale, dei muri da alzare contro l'immigrazione, quella islamica in particolare, ha visto crescere i propri consensi, frutto di lunghi mesi di campagna elettorale condotta soffiando sul fuoco delle paure. Tanti consensi, ma insufficienti per poter aspirare al governo. È una condizione tipica, e molto diffusa, questa di partiti radicali fondati sull'avversione, quando non sull'odio, per lo straniero e i musulmani in particolare. La stessa sorte, è più che certo, si ripeterà in Francia per Marine Le Pen, nettamente sfavorita dal sistema elettorale: al primo turno raccoglierà tutto il malcontento e la paura diffusa nella società francese, il che le consentirà addirittura di arrivare davanti a Emanuel Macron. Al secondo turno, quando sono sbolliti gli spiriti, gli elettori votano con la testa e con il portafoglio e la vittoria per Macron è già scritta, al netto di clamorose inchieste giudiziarie.
     Oggi in Olanda, come domani in Francia, i partiti estremisti saranno sconfitti nelle urne non solo, o forse, non tanto per il contenuto razzista dei loro messaggi, ma perché percepiti dai cittadini come forze anti-sistema e anti-euro e come tali capaci di mettere a repentaglio la sicurezza economica, precaria e fragile quanto si vuole, nella quale vivono i Paesi europei da un quarto di secolo. Tale messaggio non è stato ancora compreso dalle forze estremiste italiane. Né Salvini né Grillo non hanno ancora chiaro che posti di fronte alla scelta, gli elettori italiani non daranno mai la maggioranza a formazioni anti-europee,  a dispetto dei costi fin qui sopportati per rimanere nel club della moneta unica. Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, coltiva l'illusione di neutralizzare le spinte anti-sistema di Salvini e rinnovare con lui l'alleanza a suo tempo stretta con Bossi. Ma la forza del messaggio leghista, la sua radicalità, è fatto per sbiancare chiunque accetti un'alleanza con lui. Espedienti come quello escogitato da Berlusconi di una "doppia moneta" sono, appunto, espedienti elettorali destinati a fallire perché sottovalutano la maturità di un elettorato molto diverso rispetto a 5 o a 10 anni fa.
     Quando si cercano i comprimari apparsi sulla scena politica europea nell'ultima settimana, il pensiero non può che andare a Racep Tayyip Erdogan. Il leader turco ha minacciato l'Olanda, dopo che il premier uscente Mark Rutte ha impedito un comizio del ministro degli Esteri turco nella comunità ospitata in quel Paese. Erdogan ha fatto di più, toccando un nervo scoperto dell'attuale condizione europea. Rivolgendosi ai suoi concittadini in Europa li ha esortati "a fare cinque figli" ogni famiglia perché in questo modo "il futuro è vostro". Non si sa che peso hanno dato a queste parole le Cancellerie europee, né se esse abbiano avuta una qualche eco, ma sarebbe sbagliato sottovalutare l'esortazione del leader islamico turco. Erdogan ha echeggiato, 50 anni dopo, la profezia di Henri Boumedienne, il leader algerino che sul finire degli Anni '60, in un discorso all'ONU pronosticava in un futuro non remoto la pacifica islamizzazione dell'Europa grazie alla demografia. Una guerra incruenta, con i bambini morti solo da questa parte e i bambini vivi, e tanti, dall'altra parte. Si spiega così il tentativo dei governi dell'emisfero Nord di incrementare le politiche pro-aborto nei Paesi africani e in quelli sottosviluppati, immaginando per questa via cruenta di bilanciare la bassa natalità di questo angolo del mondo.
     Naturalmente un tema così decisivo come quello demografico non trova cittadinanza nel discorso pubblico europeo. L'Europa è i suoi banchieri e le sue banche, gli euro che il governatore della BCE Mario Draghi continua a stampare con tanta generosità ancora per un po'.  Ma quanti europei, figli di questa civiltà, nativi d'Europa, ci saranno da qui a 30 0 anche solo a 20 anni? Pochi, e sempre di meno. I calcoli ritenuti catastrofici di Oriana Fallaci parlavano di una prevalenza di islamici in Europa dal 2050-2060. Non si tratta di fare catastrofismo né di immaginare scenari apocalittici. Si tratta di prendere atto della realtà: la demografia è il tallone d'Achille di questa e di qualsiasi altra Europa. Esultare per lo scampato pericolo del voto olandese è giusto e saggio per qualsiasi europeista convinto. Da qui a credere che l'Europa è salva, ce ne corre. L'Europa è in pericolo oggi esattamente come lo era una settimana fa. Per la semplice ragione che non esiste nessuna idea di ciò che si vuole e di ciò che si è nel mondo.    

sabato 11 marzo 2017

IL VASCELLO DEL PD SI PERDE NELLE NEBBIE DEL LINGOTTO



di Massimo Colaiacomo

     Quando Renzi ha messo in cantiere la manifestazione del Lingotto, erano passate poche settimane dalla bruciante sconfitta del referendum. Quella che nei primi giorni sembrava una pesante battuta d'arresto da cui riprendersi, cominciava invece a configurarsi come la fine di una stagione politica dominata da una personalità forte, volitiva e anche un bel po' confusa. Nelle intenzioni del suo promotore, il Lingotto doveva perciò diventare, dopo la scissione e la convocazione delle primarie e del congresso, il sipario che si alzava di nuovo su un partito pronto a riconquistare la centralità perduta nel Paese.
     L'intervento dell'ex premier ha risposto molto parzialmente alle attese. Il cambiamento del lessico, con il tormentone del passaggio dall' "io" al "noi", o l'uso di figure retoriche rubate a Roosevelt e Orwell, sono espedienti nei quali Renzi ha rivelato in questi anni un'abilità talentuosa. Dietro le sue parole si fatica però a trovare un'idea forte attorno alla quale ricostruire l'identità del PD.  È certamente vero, e nel giusto, quando Renzi afferma che il PD rimane oggi l'unico argine delle istituzioni e la sola alternativa al "partito algoritmo" e al "partito azienda". Ma è pur sempre poco per restituire al partito quella centralità nella società che sembra, al momento, definitivamente perduta e, fatto inquietante, non sostituita da altri.
     La crisi del PD lascia un vuoto pericoloso nel Paese e nelle istituzioni. Le idee esposte ieri da Renzi, da una piattaforma web da chiamare Bob (Kennedy) da contrapporre idealmente alla piattaforma Rousseau dei Cinquestelle, o le ripetute invettive contro l'Europa dei burocrati, dicono che il leit motiv del renzismo non è cambiato: il PD continua a definire la propria identità in negativo, rispetto agli avversari, e non trova al suo interno le risorse politiche, e culturali, per darsi un profilo positivo e autonomo. Se ne ricava l'idea di un partito impegnato a inseguire e a scimmiottare l'avversario più temuto (Beppe Grillo) sperando così di frenarne la crescita elettorale ma finendo, in realtà, col riconoscergli centralità nella società italiana.
     Il vascello del PD si è perduto nelle nebbie del Lingotto. Gli osservatori sono lì a contabilizzare l'età media dei partecipanti, se le teste sono più o meno incanutite, se ci sono più giovani o meno tacchi a spillo, se il clima è più o meno sobrio che alle Leopolda degli anni precedenti. Mentre il governo, pezzo dopo pezzo, è impegnato a correggere, emendare o a riscrivere le riforme degli ultimi tre anni. Dopo il Jobs act, si prepara adesso una correzione della Buona scuola. E sull'Europa, tanto invisa a Renzi, il buon Gentiloni, spalleggiato da un presidente del Parlamento europeo sempre più attivo e con l'occhio rivolto all'Italia, invita tutti a tenercela stretta. Il vascello del PD ricorda oggi un altro vascello, quello del PCI, che Italo Calvino vedeva impantanato nella "Grande bonaccia delle Antille", immagine con la quale lo scrittore raffigurava il partito di Togliatti all'indomani dell'invasione dell'Ungheria (ottobre 1956). Il PCI non sapeva quale posizione prendere. Toccò poi al giovane Giorgio Napolitano, non ancora migliorista, far pendere il piatto della bilancia dalla parte dei sovietici "liberatori". Il rischio, oggi, è che la confusione di Renzi faccia crescere la propensione a vedere in Beppe Grillo il "liberatore" dell'Italia dalla cattiva politica. 

lunedì 6 marzo 2017

PERCHÉ BERLUSCONI NON FARÀ ALLEANZE CON SALVINI E MELONI


di Massimo Colaiacomo

     È una luce corrusca quella che getta sul quadro politico il vice presidente della Camera, il grillino Luigi Di Maio. "Il partito che regge il governo è esploso, il suo alleato Verdini condannato a 9 anni di carcere, lo scandalo Consip è appena all'inizio, il Parlamento è immobile, non abbiamo ancora una legge elettorale omogenea per le due Camere, i poveri aumentano, le aziende chiudono o delocalizzano. La camomilla a un malato terminale fa lo stesso effetto di Gentiloni all'Italia di oggi. Cambiamo medicina subito. Al voto, al voto!". A parte le conclusioni, ovvie e scontate per un esponente grillino abituato a vibrare rasoiate con aria serafica, il resto della descrizione è una fotografia impietosa ma veritiera dello stato in cui versa l'Italia. Come dare torto a Di Maio? Il problema, per lui ma anche per tutti noi, è che una fotografia di ciò che nella realtà è non equivale ancora a ciò che occorre ed è indispensabile fare per cambiarla, possibilmente in meglio.
     La ricetta di Di Maio, come del mondo grillino, non è diversa da quella suggerita da tutte le altre opposizioni con l'eccezione, sempre più vistosa con il passare dei giorni, di Forza Italia: andare al voto, se possibile domani mattina. Con quale legge andarci, con quante possibilità di avere una maggioranza a urne chiuse, per prendere quali provvedimenti urgenti per arrestare la caduta verticale del Paese - sul piano sociale ed economico - rimane un mistero avvolto in un enigma. Sul leninista "che fare" si alza un uragano di voci, una Babele di ricette tutte fra loro in contrasto, tranne che su alcuni, decisivi e temibili punti: uscire dall'Europa e dall'euro (Salvini e Meloni), nonché dalla Nato (Grillo). L'idea di un'Italia che torna "a fare da sé" per risolvere problemi che non siamo riusciti a risolvere  in Europa è la prospettiva che disegnano i cosiddetti "sovranisti", cioè coloro che invocano il ritorno a una moneta italiana, la chiusura e protezione dei confini nazionali. È la reazione tipica di chi pretende di esorcizzare la realtà, brutta e complicata da decifrare e ancor più da accettare, indicando una fuga in avanti, anzi, nel caso specifico, all'indietro. È la tentazione ricorrente di quanti, nell'immediato dopoguerra, per criticare le difficoltà e la lentezza della ricostruzione, coniarono il luogo comune "si stava meglio quando si stava peggio". Perché, a ben vedere, Grillo, Meloni e Salvini sono, a vario titolo, i veri nostalgici della Prima Repubblica pur non avendone fatto parte per ovvie ragioni anagrafiche.
     Si diceva dell'eccezione di Forza Italia, voce sempre più flebile e dissonante nel coro del centrodestra "sovranista". Berlusconi ha reso noto che non voterà la mozione di sfiducia al ministro Lotti, non avendo mai accettato di votare la mozione di sfiducia individuale. Ma per la verità, negli ultimi giorni, ha detto altre cose non meno importanti: ad esempio, che considera infelice e avventurosa l'eventuale uscita dell'Italia dall'Europa e dall'euro. E già questa affermazione, da sola, dice quanto sarà difficile mettere in piedi una coalizione di centrodestra che vada oltre il cartello elettorale. A meno di clamorosi ripensamenti di Meloni e di Salvini, Berlusconi ha difatti annunciato che alle prossime elezioni sarà difficile per non dire impossibile che prenda forma una coalizione di centrodestra, tante e tanto diverse sono le visioni su euro ed Europa. Ma la responsabilità europeista di Berlusconi ha bisogno di essere corroborata da un meccanismo di voto che la metta al riparo dai ricatti elettorali dei suoi potenziali alleati e gli consenta di presentare le liste di Forza Italia. Difficilmente, infatti, potrà vedere la luce il listone unico di centrodestra, per di più recintato, come vorrebbe Meloni, da una clausola anti-inciucio, vera assurdità politica. Con una misura del genere la Germania starebbe senza governi dal 2005!
      La frantumazione del quadro politico suscita una crescente preoccupazione al Quirinale. Il presidente Mattarella, senza mai esorbitare dal ruolo, ha infittito i suoi richiami ormai quotidiani contro il clima rissoso della politica. Il timore di ritrovarsi all'indomani del voto in un quadro di ingovernabilità cronica è uno scenario cupo ma non più inverosimile. La rete di ricatti e di minacce in cui si svolge la lotta politica rischia di paralizzare la già affannosa funzionalità delle istituzioni. La legge elettorale può aiutare a costruire una via d'uscita, ma risolutiva sarà, come sempre in politica, la volontà dei leader di caricarsi sulle proprie spalle la responsabilità di governo. 
     
           

sabato 4 marzo 2017

GENTILONI SULLE TRACCE DI MONTI, UNICO ANTEMURALE AI POPULISTI


di Massimo Colaiacomo

    
     Quello che trapela sui giornali è qualcosa di più che il racconto di una svolta nell'azione di governo. Gentiloni, d'accordo con il ministro Padoan, si prepara a cambiare la natura della politica economica di bilancio degli ultimi tre anni e può farlo perché soltanto adesso, a tre mesi dal suo insediamento, si sono create, per molteplici ragioni, le condizioni politiche e parlamentari. Il Documento di Economia e Finanza è il primo atto di governo grazie al quale Gentiloni può rivolgersi all'Europa, e rassicurare, tanto Berlino quanto Francoforte, suo nuovi e più stringenti impegni che l'Italia è pronta ad assumere per risollevarsi dalla condizione di fanalino di coda in fatto di competitività e, nello stesso tempo, mandare segnali ai mercati su una rinnovata capacità di mettere sotto controllo il debito pubblico, vero macigno sulle spalle del Paese. Senza misure aggiuntive e a pochi mesi dalla fine del Quantitative easing, il debito italiano rischia di finire nuovamente nell'occhio del ciclone della speculazione finanziaria.
     Gentiloni si prepara dunque a scrivere un capitolo della spending review, dopo la pausa dei 1000 giorni di Renzi, e cerca di riprendere così il bandolo della matassa smarrito dagli esecutivi successivi a quello di Mario Monti. Il quale è ricordato, nella vulgata sempre colorita dell'informazione, come il governo del taglio delle pensioni ma assai meno è ricordato come l'esecutivo che ha tagliato le spese ai bilanci dei ministeri. "Grasso" da togliere nell'amministrazione pubblica, per usare l'immagine di Carlo Cottarelli, il commissario alla spending messo nella condizione di andarsene proprio dal governo Renzi, ce n'è e ancora molto. Per mille giorni, quell'eccesso di spesa è continuato senza colpo ferire: stabilizzati i precari della scuola; stabilizzati i precari nella sanità; 80 euro ai redditi da lavoro dipendente sotto la soglia dei 25.000 euro lordi annuali. Il grande fiume della spesa corrente ha continuato a erodere gli argini sempre più fragili del debito e sui monitor della Commissione europea si sono accese le spie. E quei segnali hanno fatto scattare una mini ondata di vendite dei titoli del debito così che lo spread con il Bund è risalito in poche settimane da 110 fino a sfondare il tetto dei 200 punti base.
     Non c'è traccia alcuna di tutto questo nello scontro politico. I partiti sono impegnati ad azzuffarsi, esattamente come un quarto di secolo fa, sulle intercettazioni che incastrerebbero il padre dell'ex premier, sospettato di "traffico di influenze" (circostanza che dovrebbe far scattare accertamenti sui suoi accusatori perché delle due l'una: o si prova che c'è traffico di influenze oppure scatta il reato di millantato credito, due territori il cui confine è molto labile). La vicenda giudiziaria è destinata a scandire tutta la campagna per le primarie del PD, fissate al 30 aprile. Il ritmo dell'inchiesta non è veloce, o almeno non lo è come la fuga di notizie con il conseguente stillicidio quotidiano sui mezzi di informazione. In attesa di conoscere l'esito dell'inchiesta, se ne possono intanto misurare i riflessi politici. Renzi è gravemente azzoppato, la solidarietà dentro il PD si è fatta avara per lui mentre dai fuorusciti arrivano stilettate, ininfluenti per il governo ma micidiali per l'ex premier. Il clima di opacità in cui si trova avvolto il partito di maggioranza al governo non aiuta certo l'azione di Gentiloni, ma neppure può intralciarla più di tanto. E qui si torna al punto: nato come "meccanico" del renzismo, l'esecutivo Gentiloni va acquistando peso a mano a mano che ricostruisce  la sua interlocuzione con l'Europa e con la Commissione Juncker.
     Abbandonati i toni della sfida quotidiana, Gentiloni e Padoan hanno cambiato rapidamente rotta nei rapporti con l'Europa. Si farà la manovra da 3.4 miliardi sollecitata dal commissario Pierre Moscovici, e si farà in tempo per evitare la procedura di infrazione. Sono in arrivo tagli ai bilanci dei ministeri ma, cosa importante, con il DEF di aprile e, dunque, con la Legge di stabilità in autunno, il governo interverrà sul cuneo fiscale prevedendo un taglio di 5 punti percentuali, 2,5 alle imprese e 2,5 sui redditi del lavoratore. Finita la stagione dei bonus, criticata ancora oggi dal ministro dello Sviluppo Calenda, chiusi i rubinetti di una spesa sociale a pioggia ma avara, come si è visto, di ritorni elettorali, l'esecutivo di Paolo Gentiloni si è costruita un'autonomia politica rispetto alla precedente stagione. Il fatto di avere il sostengo del PD e di coloro che ne sono usciti, finisce paradossalmente per renderlo l'unico punto di equilibrio accettabile agli uni e agli altri. Una situazione favorevole per Gentiloni, destinata a durare almeno fino a quando sarà stato celebrato il congresso del PD. Quello sarà il vero spartiacque per capire l'orizzonte politico dell'esecutivo, perché una nuova, possibile sconfitta di Renzi e la vittoria, magari, di Andrea Orlando metterebbe il governo definitivamente al riparo da ogni insidia.
     Rimane poi da capire come in questo quadro possa muoversi il centrodestra paralizzato dalla prova di forza ingaggiata da Salvini con Berlusconi. Intanto, marciano ancora divisi sulla mozione di sfiducia al ministro Lotti. Sulla sua bussola, Gentiloni sa di trovare una buona rotta in Europa potendo contare sul presidente del Parlamento europeo. Quell'Antonio Tajani, berlusconiano doc, impegnato a Strasburgo e nelle sedi che contano a sostenere una linea agli antipodi delle forze politiche con cui Berlusconi dovrebbe allearsi. È un ulteriore elemento di forza per il governo.