giovedì 15 dicembre 2016

GENTILONI MECCANICO DEL RENZISMO?


di Massimo Colaiacomo

     Il ministro del Lavoro non è un politico di lungo corso, anche se i molti anni passati alla Lega Coop lo hanno reso più che contiguo con la politica. La sua sortita infelice sulle elezioni da celebrare al più presto così da evitare il referendum abrogativo della Cgil sul Jobs act si spiega dunque, almeno in parte, con l'inesperienza politica. Nello stesso tempo, però, nelle parole di Poletti c'è il riflesso dell'allarme dell'ex premier per una seconda sconfitta referendaria, dopo quella subita sulla riforma costituzionale, evento che affosserebbe definitivamente la stagione del "renzismo". Fra lo scivolone di Poletti e le preoccupazioni di Renzi, si è prontamente inserita l'opposizione interna del PD per suggerire, in una chiave se si vuole anche polemica, la possibilità di modificare il Jobs act, almeno nelle norme che riguardano l'uso dei voucher diventato abuso in troppe realtà del lavoro.
     Si tratta con ogni evidenza del primo bivio, certo non l'unico, che attende il governo Gentiloni che non potrà astenersi, una volta resa nota la sentenza della Cassazione sull'ammissibilità del referendum, dal compiere un intervento legislativo ove fosse necessario. Si tratta anche, però, di un fatto rivelatore: esso conferma l'errore di chi ha immaginato che fatta la legge elettorale il governo deve sgombrare il campo per restituire la parola agli elettori.
     È il caso di osservare come l'agenda e le sorti di questo esecutivo e, in parte, il destino del renzismo sono nelle mani della Corte Costituzionale. L'11 gennaio la Consulta si pronuncerà sul referendum abrogativo voluto dalla Cgil sul Jobs act e appena qualche giorno dopo, il 24 gennaio, darà il suo parere di costituzionalità sull'Italicum, vale a dire due dei  tre capisaldi (il terzo, la riforma costituzionale, è stato smantellato dal voto popolare). Si tratta di una situazione straordinaria, per certi versi abnorme. Due anni di conflitti politici laceranti, che tanti veleni hanno disseminato nella società, approdano alla Consulta per trovare una composizione che la politica non è stata in grado di trovare.
     Che cosa ne sarà del renzismo è presto per dirlo. Certo è che il governo in carica, dopo la sentenza della Corte dell'11 gennaio, non può girarsi i pollici in attesa del 24 gennaio e dell'accordo, non facile, fra i gruppi parlamentari sulla nuova legge elettorale. Gentiloni non può farsi travolgere da una corsa disordinata e senza regole verso le elezioni al solo scopo di impedire che si celebri il referendum della Cgil. Può, invece, intervenire su quelle parti della legge sul Jobs act meritevoli di essere modificate. Si tratta di un passaggio politico non indolore per l'ex premier, costretto, a quel punto, a vedere in Gentiloni il meccanico del renzismo. Per dirla in breve, Gentiloni non sarà mai un usurpatore della leadership di Matteo Renzi, ma è certo che il suo governo può diventare un salutare pit-stop del renzismo, consentendo correzioni più o meno importanti delle politiche sociali ed economiche messe in campo dal suo predecessore.
     Renzi deve allora decidere fino a che punto può consentire una riscrittura della sua narrazione senza perdere appeal nel suo "40%". Sotto questo aspetto, è quanto meno affrettato rubricare il governo Gentiloni come la continuazione del renzismo senza Renzi. Al contrario, potrebbe rivelarsi invece un Renzi rivisto e corretto, più spendibile dell'originale perché più dell'originale tollerante e capace di dialogo.

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