mercoledì 28 dicembre 2016

LA LEGGE ELETTORALE E L'AMBIGUITÀ DEL TRIPOLARISMO

In quale polo si collocano Berlusconi e Forza Italia? 

di Massimo Colaiacomo


     In attesa della sentenza della Corte costituzionale prevista per il 24 gennaio, le forze politiche cominciano a incrociare il fioretto sulla legge elettorale, pronte, dal 25 gennaio, a incrociare la sciabola ove la Consulta dovesse intervenire sull'Italicum e ricavarne, come già per il Porcellum, una legge elettorale auto-applicativa. Non sono in pochi a scommettere su questa ipotesi, e quasi tutti sono nel PD, nella Lega Nord, in Fratelli d'Italia e nei Cinquestelle.
     Renzi, come d'abitudine, ha battuto il primo colpo davanti alla Direzione del partito quando ha rilanciato il sistema cosiddetto Mattarellum. Maggioritario al 75%, collegio uninominale a un turno, il Mattarellum è stato ampiamente sperimentato dal 1993 al 2004 e ha funzionato egregiamente alla Camera, meno bene ha funzionato al Senato per via dei collegi più ampi e del calcolo dei resti. Due diverse soglie di sbarramento (al Senato la soglia del Mattarellum si aggirava intorno all'8%) determinavano un'inevitabile discrepanza fra i consensi raccolti dalle coalizioni e la rappresentanza parlamentare che da essi scaturiva.
     Gli avversari di questo sistema elettorale argomentano, non senza ragione, che esso ha funzionato in un sistema che si andava profilando, nel 1994, sostanzialmente bipolare. Quella realtà, in larga misura posticcia, è stata frantumata dal successo elettorale di Beppe Grillo e il Mattarellum appare ad essi inadatto per calcolare la rappresentanza parlamentare in un sistema oggi tripolare. Che cosa si intende quando si usa questa espressione? Il cittadino non del tutto distratto non avrebbe difficoltà a rispondere e a indicare nel M5s, nel PD e nel centrodestra i tre poli. Se poi si chiedesse chi sono i soggetti dell'ultimo polo, lo stesso cittadino non esiterebbe a dire: Berlusconi, Salvini, Meloni. Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.
     La collocazione di Forza Italia nel centrodestra appare oggi meno scontata di qualche tempo fa. Si dice per via delle vicende aziendali del suo fondatore, mai come ora interessato a una copertura del governo per resistere alla scalata di Vivendi a Mediaset. Il che è altamente verosimile, ma in tal caso che cosa c'entra la legge elettorale? Andato via Renzi, che cosa impedirebbe a Berlusconi di sostenere  un governo senza più Renzi per ottenerne in cambio il sostegno alle proprie aziende? Altra ipotesi che si accredita, è quella che attribuisce a Berusconi l'intenzione di portare il suo partito nel contenitore del Partito della Nazione, obiettivo fallito da Renzi con il referendum del 4 dicembre, così da dar vita a un governo di coalizione dopo le prossime elezioni. In entrambi i casi, il favore di Berlusconi per la proporzionale sarebbe scarsamente motivato visto che potrebbe raggiungere gli stessi obiettivi anche con un diverso meccanismo elettorale.
     Non si considera, invece, un'altra e per niente remota ipotesi. Vale a dire la determinazione di Berlusconi a non favorire lo sfarinamento del già traballante quadro politico, consegnando i voti sempre più avari del suo elettorato di riferimento alle truppe del radicalismo di Salvini e Meloni. In fondo, il padrone di Mediaset "sceso in politica" nel '1994 ha scongelato la destra radicale e post-fascista per portarla nei suoi governi con un'impronta marcatamente moderata ed europeista. L'idea di dover percorrere, vent'anni dopo, il cammino a ritroso sarebbe per Berlusconi una sconfitta politica umiliante e in quanto tale per lui intollerabile.
     Forse le ragioni qui considerate sono troppo nobili e si ritiene sbagliato attribuirle a un protagonista inseguito e perseguitato dal cliché dell'uomo cinico e interessato soltanto al buon andamento dei propri affari personali. In questo caso, però, si nega allo stesso personaggio il diritto all'orgoglio personale e il diritto a manifestarlo con gli strumenti della politica che Berlusconi ha imparato a usare con spregiudicata intelligenza. Sarà pur vero che Renzi e Salvini si ritengono autorizzati dall'anagrafe a liberarsi di Berlusconi, ma è giusto chiedergli di farlo, se ci riescono, per via politica, dimostrando di avere gli atouts che essi ritengono non abbia più Berlusconi.
     In fondo, il vecchio combattente gode del singolare privilegio di poter scegliere tra diverse opzioni per contare e sopravvivere politicamente a se stesso. I suoi sfidanti sono messi peggio, molto peggio di lui. Salvini da solo, senza lo scudo "moderato" di Forza Italia, quanto pesa sul piano elettorale? Renzi, impegnato ad allargare il perimetro dei consensi nel PD, ritiene possibile mantenere l'influenza nell'area moderata una volta riassorbita, nella guida e nei programmi del partito, l'opposizione interna?    

giovedì 22 dicembre 2016

VENT'ANNI DOPO, IL "FATTORE B" PUÒ FARE ANCORA LA DIFFERENZA?


di Massimo Colaiacomo

     Il portavoce Giovanni Toti confida in un improvviso attacco di raucedine perché da ieri dovrà, con cadenza quotidiana, spiegare l'ennesima piroetta del suo dante causa. Le qualità politiche che tutti riconoscono a Toti non bastano, però,  a mettere in sicurezza l'alleanza di centrodestra percorsa come mai nella sua storia ventennale da divisioni e fratture difficilmente ricomponibili, destinate invece ad ampliarsi quando si entrerà nel vivo della riforma elettorale.
     Si tratta per Toti di una missione ai limiti dell'impossibile. Prova ne è la spiegazione data via agenzia sulla decisione di Berlusconi di riproporre una legge elettorale fortemente proporzionale e di lavorare per l'elezione di un'assemblea costituente cui affidare il compito di revisione della Costituzione. Toti ha negato che la nuova strategia di Berlusconi sia legata all'esigenza di difendere Mediaset posto sotto attacco del raider bretone Vincent Bolloré. Non è questo la ragione, giura Toti, che ha ispirato la nuova stagione di Berlusconi, meno conflittuale con la maggioranza e più collaborativo con il governo. È una toppa peggiore del buco, come si dice. Toti deve tutelare la genuinità delle scelte politiche, mentre lo fa però trasforma in un baratro la distanza che separa Forza Italia da Salvini e Meloni. Perché se la scelta di Berlusconi fosse davvero solo ed esclusivamente politica ( ma in lui, si sa, il binomio politica e interesse personale è difficilmente districatile) è evidente che il dialogo con Lega e Fratelli d'Italia finirà presto o tardi su un binario morto.
     La preferenza di Salvini e Meloni per il Mattarellum è ovvia e fin troppo interessata. Significa costringere Forza Italia ad accettare la loro alleanza, alle condizioni che Berlusconi non potrebbe più dettare ma soltanto accettare perché imposte dai due scalpitanti competitori. Insomma, che sia il Mattarellum o un qualsiasi altro meccanismo con prevalenza maggioritaria, Berlusconi sa che dovrebbe accettare la logica delle primarie e, dunque, rassegnarsi a cedere lo scettro ad altri. Eventualità già essa sola sufficiente per ottenere il rifiuto del Cavaliere.
     Chi immagina per questo un centrodestra finito, probabilmente sbaglia. Si ha ragione di credere, invece, che si chiude una lunga stagione del centrodestra in cui forze politiche molto diverse per storia e per obiettivi, sono state tenute insieme dalla logica imposta dal sistema maggioritario. Finito questo, diventa inevitabile un rimescolamento profondo di strategie e di orizzonte politico. Berlusconi ha contestato, ed è stato contestato in Europa ma la sua strategia non è mai stata di uscire dall'Euro o dall'Unione europea. Con il suo atteggiamento ha invece aperto la strada alle contestazioni ancora più dure, ma ugualmente inconcludenti, di Matteo Renzi, sempre per rimanendo nel solco dell'europeismo.
     Il fatto che sia Berlusconi, leader con Prodi del sistema maggioritario, a voler calare il sipario su quella stagione per tornare al vituperato proporzionale è sintomatico di una politica smarrita e confusa che non riesce più a trovare il bandolo della matassa per ricollegarsi alla concreta realtà quotidiana dell'Italia. A dispetto dell'anagrafe, Berlusconi possiede ancora la lucidità per capire quando è arrivato il momento del cambio di passo e, paradossalmente, fa sembrare attardati nella difesa del passato i suoi giovani competitori di destra. È da capire se il Cavaliere ha messo in conto tutte le conseguenze del suo passo, come il fatto, per esempio, che un sistema proporzionale ha bisogno di solide culture politiche di riferimento, come altrove in Europa. Sarà soltanto un caso, ma le forze populiste non hanno il vento in poppa proprio in quei Paesi dove le forze politiche tradizionali hanno saputo resistere senza piegarsi al vento della crisi. Socialisti e popolari, in Germania o in Spagna, hanno saputo dar vita a governi di coalizione e le forze anti-sistema, si tratti di AfD o di Podemos, sono rimaste a bocca asciutta. Il vero punto di svolta in questo reset della politica sarà però il voto francese. Il cattolico François Fillon ha stravinto le primarie del centrodestra dove, per la prima volta, si sono recati alle urne 4,5 milioni di francesi. E con un programma niente da scherzare: taglio di 500-600 mila dipendenti pubblici; stop alla settimana lavorativa di 35 ore per tornare a 39 ore; riforma del welfare state. Nella laicissima Francia, un leader cattolico può scrivere una pagina nuova e dimostrare che il populismo non è una malattia cronica a cui la democrazia deve rassegnarsi. Quando, intervistato da Le Figaro, gli è stato fatto notare che da un sondaggio risulta che il 58% dei francesi non è d'accordo sui licenziamenti nel pubblico impiego, Fillon ha risposto con candore: ho tempo fino al 21 aprile per spiegare che non ci sono alternative. Non ha detto che cambierà linea o rivedrà i suoi propositi. No, semplicemente spiegherà alla Francia che è nell'interesse della Nazione applicare quella ricetta. Così nascono i leader.

martedì 20 dicembre 2016

DOPO LA COSTITUZIONE, RENZI S'INCARTA SULLA LEGGE ELETTORALE


di Massimo Colaiacomo


     Archiviata ma non ancora meditata la sconfitta al referendum costituzionale, Matteo Renzi si prepara ad allargare il fronte delle ostilità sulla legge elettorale che vuole "qui e subito" per tornare alle urne nello spazio d'un mattino. All'assemblea del partito, che lo ha ascoltato silente, ha proposto il ritorno al Mattarellum, cioè a un sistema maggioritario con uno spruzzo di proporzionale, che alla fine degli anni '90 trasmise agli italiani la percezione di un sistema finalmente bipolare o comunque vicino a quello in uso nelle democrazie più mature.
     Molti ricordano come è andata. Tranne la legislatura dal 2001 al 2006, tutte le altre hanno avuto vita effimera. Coalizioni ampie e all'apparenza inattaccabili si sono sciolte come neve al sole per i motivi più diversi. Berlusconi gettò la spugna nel '95 perché si defilò la Lega di Bossi, Prodi passò la mano nel '98 per la contrarietà di Rifondazione comunista alla guerra nei Balcani. Nel 2008 ancora Prodi lasciò il governo dopo la vicenda giudiziaria che coinvolse il ministro della Giustizia Clemente Mastella e sua moglie. Con ciò si vuole dire che la legge elettorale è uno dei meccanismi, ma non il solo e neppure, forse, il più importante per assicurare la stabilità del sistema. Senza un quadro di valori condivisi su questioni di rilevanza nazionale - si tratti della politica estera o della lotta al terrorismo - nessun sistema elettorale è in grado di impedire lo sfarinamento del quadro politico che è sotto i nostri occhi.
     I limiti del Mattarellum sono, in misura diversa, i limiti congeniti a qualsiasi sistema elettorale riferito alla complicata situazione italiana. Rispetto agli anni '90 e alla fine del sistema proporzionale, gli elettori hanno sperimentato i più diversi meccanismi di voto, dalle Regioni ai Comuni al Parlamento. Con un'importante eccezione nei Comuni e nelle Regioni: perché una volta sfiduciato, il sindaco o il presidente della Regione, è obbligo di legge tornare alle urne. Siamo cioè in presenza dell'istituto della sfiducia che equivale all'obbligo di scioglimento del governo locale per tornare al giudizio degli elettori. Può essere utile, e in che misura, trasferire questo istituto al Parlamento nazionale? L'obiettivo del cosiddetto "sindaco d'Italia" presuppone in realtà una revisione della Costituzione molto più radicale di quella immaginata da Renzi. Perché tutto sommato nella riforma renziana non veniva toccato il potere di incarico al premier da parte del presidente della Repubblica, né venivano messe in discussione le procedure relative alla nascita di nuovi governi in Parlamento, una volta sfiduciato quello eletto dai cittadini. Una riforma quanto meno opaca su questi aspetti che sono, per certi versi, il cuore dell'equilibrio del sistema. Quella di Renzi era una riforma "pigliatutto" per il vincitore, mentre lasciava sullo sfondo altre decisive questioni.
     Per chi ritiene di avere "straperso" il referendum, non è un buon viatico battere il pugno sul tavolo per imporre il Mattarellum. Si sa, però, che nei calcoli di Renzi gli aspetti tattici hanno sempre la prevalenza sulla visione strategica. E la riproposizione del Mattarellum è l'esaltazione del tatticismo puro. Renzi sa che la sua proposta è fatta per creare scompiglio nel centrodestra decapitato di una leadership, come sa che la costrizione all'alleanza nei collegi uninominali è un limite vistoso per Grillo, da sempre votato alla corsa solitaria. Nella testa di Renzi, la vasta platea di elettori che non si riconosce in lui, o in Grillo o in Salvini-Meloni sarebbe portata a scegliere il "male minore" del PD. Ovvio che un simile schema è fatto per togliere il sonno a Forza Italia e ai partiti centristi minori, costretti gli uni e gli altri ad accasarsi in uno degli schieramenti maggiori pagando per questo un dazio pesante.
     Rimane da chiedersi se è davvero il Mattarellum la carta buona di Renzi o se siamo in presenza dell'ennesimo bluff. Finora questa proposta è valsa a ridurre le tensioni nel PD, almeno sulla legge elettorale, e a creare difficoltà negli oppositori interni del premier, da sempre sostenitori del maggioritario. I quali devono oggi confidare sul nemico di sempre, Berlusconi, e sul concorrente più temibile e insidioso, Beppe Grillo,  per uscire dall'angolo. Per Renzi, è evidente, si profila il rischio, una volta sconfitto al referendum, di incartarsi sulla legge elettorale i cui tempi, a parte la sentenza della Corte, si annunciano più lunghi rispetto al calcolo renziano di una rivincita elettorale da avere già in primavera. Soprattutto, insistere nel focalizzare ogni energia del partito sulla riforma elettorale, rischia di proiettare nel Paese e negli elettori l'immagine di un politico interessato soltanto a non perdere il potere.

domenica 18 dicembre 2016

SULLA LEGGE ELETTORALE RENZI SCOPRE UNA CARTA IN UNA PARTITA ANCORA LUNGA


di Massimo Colaiacomo


     È una partita lunga quella che si aprirà sulla legge elettorale. Più lunga, sicuramente, dell'attesa non breve della sentenza della Corte costituzionale in programma il 24 gennaio. All'assenblea del PD Renzi ha scoperto una carta, schierando il partito sul Mattarellum, un sostegno che ha spiegato quasi come atto d'omaggio all'attuale presidente della Repubblica, ma che gli era utile per ridurre il solco scavato nel PD dal referendum. Il che la dice lunga sulla consistenza della proposta, e sulla convinzione di Renzi di fare una battaglia alla morte per riavere quel sistema elettorale. La logica politica, invece, ha quasi costretto Renzi a indicare il Mattarellum perché quel sistema di voto - tre quarti maggioritario e un 25% di proporzionale - è tale da rendere difficile l'alzata di scudi della minoranza interna. Per un segretario che aspira a riconquistare e, possibilmente, ampliare il perimetro dei consensi nel PD è stato un passo obbligato e la decisione della minoranza di non partecipare al voto sul documento finale per non affossare, con un no, anche il Mattarellum dà in parte a ragione a Renzi.
     Nello stesso tempo, erano prevedibili le barricate delle opposizioni, non tutte, ma sicuramente di Forza Italia e dei grillini. Il Mattarellum va bene a Meloni e a Salvini, desiderosi di spartirsi le spoglie di Forza Italia costringendo Berlusconi a celebrare le primarie per indicare il candidato premier. Ma i Cinquestelle vedono il Mattarellum come il toro vede la tela rossa del matador. Di Maio boccia la proposta: un mezzo, è il suo back hit, per perdere tempo. Ma non dice nulla di più sul merito, con ciò lasciando coperte le carte dei grillini. È plausibile il ragionamento di chi afferma che Grillo, in fondo, non disprezza un meccanismo proporzionale, il più adatto per raccogliere consensi, mantenersi "vergini" sul terreno delle alleanze, ed evitare il "rischio" di vincere le elezioni che significherebbe accollarsi il rischio mortale di governare, come insegna il "caso Roma".
     La legge elettorale, come ha insegnato Giuseppe Maranini, è il meccanismo decisivo nella distribuzione del potere politico e la scelta del sistema di voto, maggioritario o proporzionale, a turno unico o con ballottaggio, con premio di maggioranza alla lista o alla coalizione, interagisce con gli interessi economici e sociali che si coagulano attorno a un partito per ottenerne una mera tutela o per condizionarne la politica economica. Renzi ha detto di temere un ritorno al proporzionale, ma si tratta più di una cortina fumogena alzata per creare confusione nel campo avversario che non di un convincimento intimo. Per l'ex premier, come per i suoi avversari, la questione, posta in modo ruvido, è trovare il percorso che consenta di vincere, scegliendo possibilmente l'avversario più debole o meno competitivo. Con la vena provocatoria che non lo abbandona, Renzi si è perfino augurato di trovarsi Berlusconi come sfidante. Dietro una battuta, però, si intuisce anche una verità: Berlusconi può essere lo sfidante ufficiale alla sola condizione che Forza Italia non si veda costretta nella gabbia del maggioritario, quindi alla celebrazione delle primarie per designare un candidato unico del centrodestra nel qual caso sarebbero altri gli sfidanti di Renzi.
     Dietro i ragionamenti fatti da Renzi all'assemblea del PD si intuisce il desiderio di un leader malamente disarcionato dagli elettori, di riconquistare il centro della scena senza pagare prezzi insopportabili. La stessa decisione di celebrare il congresso alla scadenza naturale, cioè alla fine del 2017, può essere letto come un gesto distensivo verso la minoranza e come il tentativo di non intralciare più di tanto l'azione del "governo amico" di Gentiloni. Dall'altro lato, Renzi punta a consolidare la sua segreteria allargandola alle componenti interne. Ma questo significa mettere in conto un rapporto diverso e meno estemporaneo con il governo. Alla minoranza di Speranza e Bersani non può bastare un governo che faccia la legge elettorale per precipitare verso il voto, lasciando ai margini le questioni sociali. Quando Renzi riconosce, come ha riconosciuto, che non ha saputo ascoltare il "dolore" sociale del Paese, non può scrivere questa lacuna nel programma del futuro governo, ma sta implicitamente scrivendo un punto nell'agenda di questo esecutivo. O almeno così gli chiederanno di fare gli oppositori interni,

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DER CAMPIDOGLIO


di Massimo Colaiacomo

     Il clima in Campidoglio è sicuramente surreale, come nel celebre romanzo di Carlo Emilio Gadda. I personaggi non sono certo all'altezza del commissario Ingravallo, delle sue nevrosi ossessive, sono però capaci di trasmettere un senso di ansietà e insieme di vuoto ai romani. Una vicenda amministrativa che si svolge fuori dal circuito istituzionale non è certo un fatto nuovo, a Roma come nel resto d'Italia. Già nel passato remoto accadeva che una crisi in un grande comune mobilitasse i vertici nazionali di un partito. Ecco: Grillo e Casaleggio si sono mossi come nel passato remoto della politica. Con un'aggravante per loro: i vertici nazionali dei partiti erano stati scelti da un congresso, o da una direzione o un da consiglio nazionale. I vertici del M5s non sono stati scelti da nessuno: è un caso, sempre più diffuso, di autoincoronazione. Grillo e Casaleggio, attraverso la società privata della Casaleggio&associati, decidono le sorti della Capitale. Hanno nominato vice sindaco un imprenditore, Massimo Colomban, e toccherà a lui, privato cittadino, nel caso dovesse finire indagata Virginia Raggi,  di reggere l'amministrazione capitolina.
     Si può immaginare che Matteo Renzi osservi questo panorama di macerie con malcelato compiacimento. Lui, accusato di essersi insediato a palazzo Chigi senza essere mai stato eletto da nessuno, avrà una carta in più da giocare il giorno in cui il Campidoglio dovesse restare senza sindaco. Anche se la legge comunale, diversamente dai progetti di Grillo, non prevede, in caso di dimissioni del sindaco il subentro del uso vice. Se Virginia Raggi si dimette, la legge prevede soltanto le urne senza alternative.
     La resa senza condizioni di Raggi ai diktat dei vertici M5s è una sconfitta per la sindaco ma, nello stesso tempo, è una prova di realismo che lei offre al movimento. Piegando la testa, ha evitato che la situazione sfuggisse di mano con danni irreparabili a livello nazionale. Rimane, certo, l'opacità delle procedure e dei riti seguiti dal M5s per superare una crisi al momento soltanto congelata visto che gli sviluppi delle indagini giudiziarie sono al momento imprevedibili e potrebbero investire direttamente il sindaco.
     I romani assistono sconcertati alle liturgie grilline, né più né meno come assistevano nel passato ai riti della partitocrazia. I problemi di Roma sono stati lasciati ai margini nei sei mesi di amministrazione grillina. Il decoro, i trasporti pubblici, la sicurezza, il verde e il degrado urbano sono piaghe che si estendono dalle periferie al centro, non ci sono angoli rimasti incontaminati. Una tale situazione non può che pesare sull'immagine del M5s e sulla credibilità dei suoi vertici. Quando Grillo si mostra risentito "per le denunce facili" non si accorge, e forse nessuno dei suoi glielo ha fatto notare, che non si esprime diversamente dai vecchi leader politici. Chiamare in causa la giustizia "a orologeria", come decenni or sono già fecero Craxi o Forlani, è un'ammissione di impotenza rispetto alla sfida del governo. Colpisce, in particolare, la circostanza per cui all'interno del M5s si sono affermate le stesse logiche correntizie e di potere tipiche dei partiti organizzati e la cui assenza , invece, avrebbe dovuto essere il timbro dell'originalità grillina. Così non è stato e questo è, al momento, il fallimento più clamoroso dei Cinquestelle.
     Cacciata dalla porta, la politica, prima o poi rientra dalla finestra e consuma le sue rivincite. Dopo il crollo del bipolarismo e dopo il tracollo del moralismo grillino, si avverte l'urgenza di aprire una fase di riflessione se non di ripensamento sugli ultimi decenni di vita politica. L'idea che i partiti siano il peccato originale da cui tutti i mali sono derivati, comincia a cedere il posto all'idea che è stata la degenerazione dei partiti a trascinare il Paese nel vortice della crisi. In mancanza di alternative, i partiti politici organizzati, con regole chiare di democrazia interna, si confermano il cardine insostituibile della democrazia parlamentare. I partiti sono il baluardo contro le ondate populiste, non a caso meno travolgenti in Germania, Francia o Spagna dove, a differenza dell'Italia, le grandi forze politiche conservano una forte credibilità sociale.  

giovedì 15 dicembre 2016

GENTILONI MECCANICO DEL RENZISMO?


di Massimo Colaiacomo

     Il ministro del Lavoro non è un politico di lungo corso, anche se i molti anni passati alla Lega Coop lo hanno reso più che contiguo con la politica. La sua sortita infelice sulle elezioni da celebrare al più presto così da evitare il referendum abrogativo della Cgil sul Jobs act si spiega dunque, almeno in parte, con l'inesperienza politica. Nello stesso tempo, però, nelle parole di Poletti c'è il riflesso dell'allarme dell'ex premier per una seconda sconfitta referendaria, dopo quella subita sulla riforma costituzionale, evento che affosserebbe definitivamente la stagione del "renzismo". Fra lo scivolone di Poletti e le preoccupazioni di Renzi, si è prontamente inserita l'opposizione interna del PD per suggerire, in una chiave se si vuole anche polemica, la possibilità di modificare il Jobs act, almeno nelle norme che riguardano l'uso dei voucher diventato abuso in troppe realtà del lavoro.
     Si tratta con ogni evidenza del primo bivio, certo non l'unico, che attende il governo Gentiloni che non potrà astenersi, una volta resa nota la sentenza della Cassazione sull'ammissibilità del referendum, dal compiere un intervento legislativo ove fosse necessario. Si tratta anche, però, di un fatto rivelatore: esso conferma l'errore di chi ha immaginato che fatta la legge elettorale il governo deve sgombrare il campo per restituire la parola agli elettori.
     È il caso di osservare come l'agenda e le sorti di questo esecutivo e, in parte, il destino del renzismo sono nelle mani della Corte Costituzionale. L'11 gennaio la Consulta si pronuncerà sul referendum abrogativo voluto dalla Cgil sul Jobs act e appena qualche giorno dopo, il 24 gennaio, darà il suo parere di costituzionalità sull'Italicum, vale a dire due dei  tre capisaldi (il terzo, la riforma costituzionale, è stato smantellato dal voto popolare). Si tratta di una situazione straordinaria, per certi versi abnorme. Due anni di conflitti politici laceranti, che tanti veleni hanno disseminato nella società, approdano alla Consulta per trovare una composizione che la politica non è stata in grado di trovare.
     Che cosa ne sarà del renzismo è presto per dirlo. Certo è che il governo in carica, dopo la sentenza della Corte dell'11 gennaio, non può girarsi i pollici in attesa del 24 gennaio e dell'accordo, non facile, fra i gruppi parlamentari sulla nuova legge elettorale. Gentiloni non può farsi travolgere da una corsa disordinata e senza regole verso le elezioni al solo scopo di impedire che si celebri il referendum della Cgil. Può, invece, intervenire su quelle parti della legge sul Jobs act meritevoli di essere modificate. Si tratta di un passaggio politico non indolore per l'ex premier, costretto, a quel punto, a vedere in Gentiloni il meccanico del renzismo. Per dirla in breve, Gentiloni non sarà mai un usurpatore della leadership di Matteo Renzi, ma è certo che il suo governo può diventare un salutare pit-stop del renzismo, consentendo correzioni più o meno importanti delle politiche sociali ed economiche messe in campo dal suo predecessore.
     Renzi deve allora decidere fino a che punto può consentire una riscrittura della sua narrazione senza perdere appeal nel suo "40%". Sotto questo aspetto, è quanto meno affrettato rubricare il governo Gentiloni come la continuazione del renzismo senza Renzi. Al contrario, potrebbe rivelarsi invece un Renzi rivisto e corretto, più spendibile dell'originale perché più dell'originale tollerante e capace di dialogo.

domenica 11 dicembre 2016

GENTILONI STRETTO FRA LEALTÀ A RENZI E RESPONSABILITÀ VERSO IL PAESE


di Massimo Colaiacomo

     Saranno tempi brevi quelli necessari per il varo dell'esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Ricevuto l'incarico dal presidente Mattarella, il ministro degli Esteri ha avviato le consultazioni nel tardo pomeriggio con l'obiettivo dichiarato di presentare la lista dei ministri fra lunedì sera e martedì mattina, così da prestare giuramento ed entrare pienamente in carica prima del Consiglio europeo in programma mercoledì prossimo.
     Una partenza sprint, come auspicano le forze di opposizione, ma per una ragione diversa dalla legge elettorale che tutti invocano "qui e ora". Il governo non può presentarsi sulla ribalta europea privo dei crismi dell'ufficialità senza trasmettere l'immagine di un Paese ripiombato nella precarietà dei suoi esecutivi. Quando la cancelliera Merkel saluterà Gentiloni stringerà la mano al sesto presidente del Consiglio italiano da lei incontrato durante i suoi 9 anni di cancellierato. Una circostanza sufficiente da sola a sottolineare l'anomalia italiana sulla scena europea.
     Paolo Gentiloni si presenterà in Parlamento probabilmente giovedì o venerdì al più tardi, una volta rientrato dal vertice europeo. Il suo mandato ha una strada già chiaramente tracciata. La continuità con il precedente governo Renzi sarà sicuramente nella politica di governo e in larga misura nella stessa struttura dell'esecutivo, salvo gli inevitabili ricambi per evitare un effetto fotocopia difficile da spiegare agli occhi stranieri. Si muoverà entro il perimetro della maggioranza attuale, e potrà risolvere l'ambiguità, impossibile da affrontare per Renzi, sul ruolo dei verdiniani: Ala entrerà organicamente nel governo, e questo è già il prezzo che Renzi impone ai suoi oppositori interni.
     È vero che le opposizioni, centrodestra e grillini, hanno già ritirato fuori lo spartito del quarto governo non eletto dal popolo, refrain caro a Silvio Berlusconi il quale, però, lo ha messo da parte per questa circostanza segnando già così un primo distinguo dai suoi recalcitranti alleati. È gioco facile ricordare a grillini e leghisti che tutti i governi sono eletti dal Parlamento e non dal popolo, e che il cambio delle leggi elettorali non è mai stato accompagnato dalle necessarie correzioni della Carta costituzionale per chiedere un premier "eletto dal popolo". Addirittura si sarebbe preteso che Gentiloni indicasse già al momento dell'incarico la data delle elezioni, una volta modificata la legge elettorale. Si tratta di richieste inconcludenti, fanno parte del bagaglio polemico e della propaganda di chi sente già di essere in campagna elettorale.
     Le smanie per il voto, però, devono fare i conti con la realtà delle cose. Il governo Gentiloni, che le opposizioni si sono affrettate a bollare come una fotocopia del governo Renzi o il suo avatar (copyright Di Maio) non avrà una navigazione facile in Parlamento per la naturale difficoltà di un esecutivo che viene battezzato per rassicurare, o almeno non smentire quanto fatto da Renzi, ma nello stesso tempo il nuovo premier, apprezzato per il suo low profil sicuramente e per la sua lealtà al premier uscente, sa di doversi muovere sul terreno di una responsabilità verso il Paese e affrontare dossier delicati che vanno dalle difficoltà del sistema bancario alla questione dell'immigrazione o alla ricostruzione del post-terremoto. L'incarico conferito da Mattarella non è a un governo di scopo ma a un governo che può e deve agire nella "pienezza delle sue funzioni". Il che significa che non può limitarsi a lavorare affinché il Parlamento trovi un punto di convergenza sulla legge elettorale, ma deve operare sulle grandi questioni già scritte sull'agenda di Renzi: dal vertice per il 60/mo anniversario del Mec al G7 di Taormina a maggio. L'idea di un esecutivo che nasca e operi con un timer incorporato che ne preveda l'autoaffondamento una volta approvata la legge elettorale è un espediente polemico delle opposizioni, perché nessun governo può nascere "a termine", non essendo previsto dalla prassi né dalla Costituzione.
     Vero è che il governo nascente affiancherà, sul piano politico, il confronto acceso che si annuncia nel PD in vista del congresso, ancora da fissare ma previsto tra febbraio e marzo. Sarà in quella occasione che si potrà comprendere meglio l'orizzonte temporale dell'esecutivo. Con tutte le cautele del caso. Perché un governo che nasce in Parlamento dura in carica finché riceve la fiducia della maggioranza. E questo è ovviamente un problema per il PD: come sfiduciare il "proprio" governo e poi presentarsi al giudizio degli elettori solo perché è stata fatta la legge elettorale. Non mancano i precedenti: il governo Fanfani, nel 1987, un monocolore nato come "governo amico" venne affondato dalla DC per andare alle urne nella convinzione di un successo che tutti i sondaggi davano ampio. Si ricorderà come andò a finire: il buon De Mita fece perdere 6 punti percentuali al suo partito. Il parallelismo finisce qui, perché troppo diversi sono i protagonisti e il contesto in cui si muovono. Ma non sarà semplice per il PD e per Renzi "staccare" la spina al governo Gentiloni solo perché si deve andare alle urne per avere "un governo eletto dal popolo" ma non previsto in Costituzione.


sabato 10 dicembre 2016

DA GENTILONI A GENTILONI?


di Massimo Colaiacomo

     Può il presidente dimissionario Matteo Renzi vincolare la delegazione del PD a dare il solo nome di Paolo Gentiloni, sia pure camuffato in una rosa di nomi, alla consultazioni del Quirinale? Un vincolo simile, in assenza di un chiarimento interno al PD, suona come l'ennesima provocazione di Renzi all'opposizione interna e come un muro alzato alle opposizioni. Come unica alternativa, il presidente dimissionario intravvede un governo di "responsabilità nazionale", vale a dire l'attuale maggioranza più Forza Italia costretta a quel punto a una rottura definitiva con Lega e Fratelli d'Italia.
     La rigidità renziana si spiega, ma solo in parte, con la ritardata elaborazione del lutto. Essa rischia di mettere ostacoli ulteriori al già difficile compito del presidente della Repubblica che dovrà ricorrere a tutte le sue non poche e riconosciute qualità diplomatiche e alla sensibilità politica maturata nella lunga militanza DC. Quando riceverà la delegazione del PD, composta dal "franceschiniano" Luigi Zanda e da due fedeli "renziani" come Lorenzo Guerini ed Ettore Rosato,  Mattarella ascolterà argomenti già ampiamente affrontati dagli opinionisti e sui mass media. Nessuno dei quali, però, tiene conto della più complessa realtà del Paese, che va ben oltre le fregole elettorali di Renzi, Grillo e Salvini. Perché l'aut-aut del PD - o una maggioranza ampia o un governo che faccia la legge elettorale per andare subito dopo al voto - è disancorato dai problemi che premono e da scadenze drammatiche, a cominciare dal rifiuto della BCE di concedere altro tempo al Monte dei Maschi di Siena per ricapitalizzarsi sui mercati o dai 7-10 miliardi che mancano alla Legge di Stabilità e per i quali la Commissione UE potrebbe aprire una procedura di infrazione nel bel mezzo della campagna elettorale agognata da Renzi.
     Tanto distacco dai problemi che bussano alla porta dell'Italia è la misura del cortocircuito in cui sta entrando la politica. Ed è un regalo ulteriore fatto al grillismo, pronto a sfruttare e a inserirsi nelle contraddizioni di una politica incapace di uno scatto di reni. Per il M5s, che rifiuta ogni tavolo elettorale, è facile gioco chiamarsi fuori lasciando che le forze tradizionali si consumino nel gioco devastante dei veti incrociati. Il governo di responsabilità proposto da Renzi a quella che aveva definito un' "accozzaglia", e respinto perentoriamente da Salvini e Meloni,  è una provocazione nell'ottica renziana, per come è stata avanzata e per i toni che l'hanno accompagnata. Renzi continua a ragionare e a muoversi su un terreno di pura conflittualità, pur sapendo che più esteso è il fronte degli avversari più la soluzione che troverà Mattarella sarà necessariamente lontana dai calcoli renziani.
     Il nome del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è l'unico ramoscello d'ulivo che Renzi può offrire ai suoi avversari interni. Discendente di Vincenzo Ottorino Gentiloni, il nobile che diede il nome al Patto che portò per la prima volta i cattolici a superare il "non expedit" e a candidarsi nelle liste liberali di Giovanni Giolitti, Paolo Gentiloni incarna perfettamente la vocazione pattizia di una certa Italia. Si parla qui di un patto di potere che Renzi è pronto a siglare se gli avversari interni faranno finta di non riconoscere in Gentiloni un'assicurazione sulla continuità del "renzismo senza Renzi". Il che, tradotto nelle cifre della politica, equivale a mantenere Luca Lotti a Palazzo Chigi per gestire il delicato dossier delle nomine di primavera: da Enel ed Eni, a Leonardo Finmeccanica, alle Poste e alla Rai, passando per i servizi segreti e le forze militari.
     È accettabile dalle minoranze del PD un simile schema? Possono Franceschini e Cuperlo, Bersani e Speranza, accontentarsi dell'uscita di Renzi da palazzo Chigi lasciando intatte, nelle mani di Lotti, le leve del potere? Ammesso che Gentiloni si faccia in qualche misura garante degli equilibri interni al PD, come potrà, una volta a palazzo Chigi, lasciare intonsi dossier scottanti come le banche da ricapitalizzare, o i miliardi da trovare per coprire i buchi della Legge di Stabilità? All'orizzonte si intravvede un crocevia di problemi la cui urgenza è destinata a far impallidire l'esigenza, pur giusta, di riscrivere una legge elettorale uniforme per Camera e Senato. Se Gentiloni sarà il successore di Renzi, non potrà essere fino in fondo il suo avatar. I problemi che dovrà affrontare e le difficoltà che dovrà superare sono fatti per conferire al futuro nuovo governo uno spessore politico e una dimensione istituzionale che necessariamente sfuggiranno dalle mani di Renzi. Che sia Gentiloni o un altro, poco importa. Il futuro governo, e le opposizioni oggi tanto agguerrite, dovranno misurarsi con la realtà complessa dei problemi e sulla base delle risposte che sapranno dare, dal governo come dall'opposizione, si potrà assistere a una ridefinizione complessiva degli schieramenti e delle opzioni politiche in vista delle elezioni. Che saranno, con buona pace di Grillo, alla scadenza naturale della legislatura.

martedì 6 dicembre 2016

RENZI SEEKING THE RECKONING INSIDE PD AND CALL FOR IMMEDIATELY NEW ELECTIONS

by Massimo Colaiacomo

     President Mattarella is in a quandary after PM Matteo Renzi resigned. The thrashing of Renzi and his majority at constitutional referendum have created a serious political context. Bigger party call for immediately new elections, despite the lack of a electoral law for Senate's election. Several month ago, Italian parliament approved new electoral law, so-called Italicum, but didn't approve a law for the Senate because the constitutional overhaul provide for direct election just for the Congress.
     So, what does it urge PM Renzi to call for immediately elections? It matter of the firm belief the result of referendum would be a strong basis whom built a new electoral success. Italy'people knows  very well the sinuous road of politic crisis and is accustomed to his liturgy. News analyst are divided around the causes of Renzi's defeat. Several their point to the haughtiness of premier as the main cause and as a consequence the decision of voters to turn away him. For whatever reason, PM lost his tremendous appeal on the public opinion and inside his party.
     Renzi aims the election for a day of reckoning with internal minority. Whether he will be able to obtain  early election, he will keep the power building the list. In this case Renzi will able to free himself from his own opponent. It is an optimistic assessment in this big picture. President Mattarella asks for PM to pospone resignation almost as long as Parliament will approve the budget. But, even after, President Mattarella believes they are other problems who wait for an answer, starting of the situation of financial institution.
     It's not totally correct, like this morning wrote Jason Horowitz on The New York Times, that "for once, Prime minister Matteo Renzi doesn't seem to be in a hurry". To the contrary, Mr. Renzi is in a hurry because the time that spent bolsters his internal opposing. Almost alike is the situation in the centre-right with former Prime minister, Silvio Berlusconi, will be at loggerheads with allied Salvini and Meloni. Berlusconi would postpones new elections at better time or at least when it will be possibile to have a new electoral law maybe proportional. Salvini, Lega's leader, is absolutely unfavorable because an proportional representative could reduce his weight in the centre-right, inasmuch Forza Italia could show without his allied to judgment of the voters.
     President Sergio Mattarella is known for his institutional carefulness. He won't be rude to Renzi as the other political scene's protagonist. He will take for all time necessary to set relevant question, at beginning from financial institution. After, it need wait for Supreme Court's sentence on the present electoral law, expected for January. They are many probability that new elections will be possibile not before fall 2017. 

sabato 3 dicembre 2016

BREXIT'S UNHAPPINESS AND ITALY'S REFERENDUM


by Massimo Colaiacomo

     There wasn't need of Brexit to understand the Europe's growing difficulties. But there was need of them to understand what could be a country outside of EU. The Brexit's lesson still is starting and already we can see first hard consequences. It won't be easy for the Chancellor, David Hammond, to persuade that party of English people favorable to Brexit over the hard necessaries struggle to hold public balance under control. Hammond has disclose a budget plan very hard for next years. It calls for total cut about 120 million pound as well as a dropping of 500.000 job role.
     This is only a little part of the big picture. English government should fiddle with strong save's plan to face fall of pound change. Theresa May will sit down with Merkel and Juncker thinking in one hand to the advantages that will miss his country and in one other hand should be flexible to bring less hard conditions to safeguard the access to European market.
     So it makes sense the hustle who divides Conservative between hard and soft-Brexit. English people discovered later the consequences of his own choices. Europe just wasn't a choosy stepmother because inside EU English industries could have enormous advantage as public funding and have available a great market for export.
     What does that have to do with Italy's referendum? Nothing, in appearance. To the contrary there's a thin thread who link Brexit and referendum on Italy. It matter of the behavior in front the Europe. The alliance for NOT to referendum shows divergent over Europe. Mr Berlusconi criticized European partner but he has never back outside from euro or EU. His allied Salvini, Lega's leader, and Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia's leader, have always kept an open mind on it. This fact made the alliance less credible to the eyes of public opinion. Also Mr Renzi criticized EU with his excess of duties until to threaten to put the veto to next community budget. But Mr Renzi has never threatened exiting from Europe Union. In the pubic sentiment that is a remarkable difference and could weigh in the final decision