venerdì 27 dicembre 2013

I PANNICELLI CALDI DI LETTA DIVENTATO DI COLPO BABBO NATALE E BEFANA

 di Massimo Colaiacomo

Aveva detto Enrico Letta, da Bruxelles, che non si poteva chiedere a lui di diventare Babbo Natale senza con ciò compromettere l'andamento di finanza pubblica e riportare l'Italia dentro la procedura d'infrazione della Commissione europea da cui era uscita nel maggio 2013. Con il decreto "salva Roma", però, Letta ha subìto la metamorfosi che più temeva. È riuscito in un solo colpo a diventare Babbo Natale e la Befana, distribuendo regalie a dritta e a manca proprio come accadeva in altri tempi.
Quanto è successo ha dell'incredibile, e a poco vale invocare il clima affannoso in cui è stato partorito un decreto urgente senza il quale il sindaco di Roma avrebbe dovuto portare i libri in Tribunale. È dunque in un quadro confuso e in un Parlamento reso sempre ribollente dalle incursioni dei grillini che il governo ha partorito un pasticcio. Mettere la fiducia su un decreto, farlo controfirmare dal Capo dello Stato e, il giorno dopo, ritirarlo per le incongruenze che conteneva, trasmette l'immagine di un esecutivo allo sbando. Senza uno straccio di politica di bilancio che non preveda altro che tener fermo il deficit al 3%. Come dire, conseguito questo obiettivo Letta si ritiene sciolto da ogni altro obbligo verso il Paese. Un orizzonte tanto minimalista mal si concilia con i toni trionfalistici della conferenza di fine anno quando Letta aveva indicato nel 2014 l'anno dei quarantenni. Troppo facile ironizzare che se questo è il loro passo,  presto, molto presto, la scena politica dovrà riaprire qualche sarcofago per tirar fuori le mummie ...
È di tutta evidenza che l'esecutivo, come sostiene Brunetta, appare frastornato e la sua maggioranza solcata da tensioni politiche e contraddizioni programmatiche non facili da appianare. Lo stesso "job act" di Matteo Renzi, per ora più immaginato che elaborato, risente di un certo velleitarismo: assomiglia tanto a una bandiera da agitare in campagna elettorale e molto poco a un atto di governo di possibile se non facile realizzazione. Renzi ha taciuto sulle risorse necessarie per pagare due anni di reddito minimo agli over 18, invita ad abbassare i toni sull'art. 18 divenuto, a suo dire, una bandiera ideologica inservibile ma, così dicendo, dimostra anche lui di temere il conflitto con la Cgil. Perché l'art. 18, piaccia o meno, è un ostacolo ben concreto nella politica delle assunzioni per le imprese con più di 15 dipendenti. A Renzi non sono venute repliche dal centrodestra, che appare smarrito e confuso di fronte all'offensiva mediatica del sindaco fiorentino. Si sta parlando qui di un centrodestra che appare stravecchio e il cui leader sta lavorando a impostare un rilancio di immagine di Forza Italia nel più completo deserto di contenuti politici. A Renzi nessuno ricorda dal centrodestra che il socialdemocratico Gerhard Schröder in quattro ore di riunione del governo tedesco abolì, alla vigilia di Ferragosto 2003, l'equivalente dell'art. 18 italiano? E il tutto avvenne al termine di rapide consultazioni con sindacati e imprese?
Conta forse, come ricorda il ministro Quagliariello in un'intervista su l'Unità, una certa farraginosità dei meccaismi istituzionali, la macchinosità di un bicameralismo fatto più per complicare che per risolvere le questioni, ma alla fine dei giochi conta, e sempre è decisiva, la qualità della politica di governo. E in Italia rimane molto scarsa, ben al di sotto delle necessità del Paese per non dire rispetto agli standard europei.
La patologia non è di poco conto, come dimostra la vicenda rocambolesca e penosa del decreto "salva Roma". Un calesse su cui sono saliti gli interessi più disparati, in quella gara di campanilismi mai cessata in cui ogni parlamentare pensa ad arraffare qualcosa per sé o per il suo collegio, anche se il porcellum aveva cancellato i collegi. Ma siccome il tirono al giudizio degli elettori è sempre possibile, la gara a salire sul carro della finanza pubblica per saccheggiarlo non è mai venuta meno.
Che cosa è accaduto? Che il decreto "salva Roma", divenuto strada facendo uno di quei decreti omnibus che tanto male hanno fatto alle finanze pubbliche, è stato sostanzialmente bocciato dal Capo dello Stato dopo che il governo aveva messo e ottenuto la fiducia del Parlamento. Il risultato è stato una vera e propria ubriacatura della politica, in una hybris di populismi, da destra a sinistra, mai vista prima d'ora. Se un parlamentare di centrodestra, Francesco Aracri, presenta un sub emendamento con il quale si vuole impedire ogni esubero di personale nelle aziende comunali della Capitale, è evidente che l'ultimo liberale rimasto in Italia dovrà rassegnarsi e chiedere il passaporto per un qualsiasi altro Paese dell'Europa comunitaria. Il sub emendamento Aracri è stato naturalmente votato da tutti i gruppi, nessuno escluso. A conferma che la natura populista del ceto politico italiano non ha lasciato incontaminato nessun gruppo parlamentare.
Chi ritiene di essere un moderato e in quanto tale rappresentante di interessi sociali aperti al riformismo e al cambiamento pensa forse di essere moderato solo in quanto capace di "moderare" le iniziative altrui senza bisogno di averne di proprie. Se le cose stanno così, c'è di che disperare. I pannicelli caldi di Enrico Letta sono forse quanto di meglio (peggio) riesce a produrre la politica italiana in questaa stagione.




  

domenica 15 dicembre 2013

LETTA-ALFANO SOTTO LO SCIAME SISMICO DI RENZI

di Massimo Colaiacomo

Non c'è nessuna rottura all'orizzonte fra Renzi e Letta, ma non si vede neppure né il tempo né lo spazio per scrivere quel "patto" sulle riforme così solido e impegnativo da poter durare 15 mesi. L'incoronazione di Renzi leader del PD è avvenuta nel rispetto parziale delle liturgie di un tempo. Renzi ha smorzato i toni da palingenesi, ora che è segretario non gli sono consentiti. Ma non li ha abbandonati del tutto. Il suo discorso è stato un aut-aut non al governo ma agli alleati di maggioranza. O si fa così sul lavoro, sulle unioni civili, sulla Bossi-Fini oppure è "il pantano" e al PD, che porta il fardello del governo, tutto si può chiedere ma non di impantanarsi in nome di una astratta governabilità. Le sneakers che Letta indossava ieri, Renzi vuole metterle a tutto l'esecutivo per costringerlo a un cambio di ritmo.
Da ieri la sfida del sindaco ha un percorso più articolato, ma l'obiettivo è rimasto intatto. Disegnare per il governo l'orizzonte temporale di un mese entro cui fare la legge elettorale, la riforma del lavoro e non si sa quante altre cose, ricorda un po' l'ansia febbrile del vecchio massimalismo Anni '60 che Nanni Balestrini riassumeva nell'aforisma nenniano: "non sappiamo che cosa vogliamo, ma lo vogliamo tutto e subito".
Renzi ha colorato il suo discorso con qualche nuance populistica per lanciare la sfida a Grillo: un prezzo inevitabile da pagare per tentare di "agganciare" Grillo e costringerlo a combattere sul terreno della politica. Ma sul monitor del sindaco compare soltanto un bersaglio: la legge elettorale da fare prima di qualsiasi altro provvedimento.
Un'urgenza che Renzi non ha ritenuto di dover spiegare, né a Letta né a quello che da ieri è il "suo" partito. Si sa soltanto che dovrà conservare e rafforzare il bipolarismo e consentire appena contati i voti di sapere chi sarà il presidente del Consiglio e con quale maggioranza governerà. Per il resto, Renzi ha tenuto coperte le carte sui meccanismi e sulle tecnicalità. Per evitare, si presume, di mettere gli alleati nella condizione di "prendere o lasciare", il che equivarrebbe a dichiarare aperta la crisi di governo; dall'altro lato, tanta vaghezza consente a Renzi di lasciarsi aperte tutte le porte, per avere una legge elettorale approvata dalla "maggioranza residuale" o, in alternativa, da una maggioranza diversa. Difficilmente potrà cogliere l'obiettivo di avere insieme il voto di Alfano e Berlusconi, in aperta rotta di collisione, almeno fino a ieri, con il Cav favorevole al Mattarellum e Alfano al meccanismo del "sindaco d'Italia", maggioritario non si sa quanto ma sicuramente doppioturnista.
Come si regolerà Renzi di fronte a una matassa tanto intricata? Aspetterà che siano gli altri a fare la prima mossa, per capire quanto accidentato può essere il terreno di un'intesa, oppure lancerà la sua proposta con il rischio di trovare il primo Quagiariello che passa e proclama la crisi?
Forza Italia e Berlusconi per ora stanno a guardare. Il Cav ha lanciato un amo rispolverando, come Grillo, il Mattarellum. Renzi non ha battuto ciglio. Ma per Forza Italia, come per Grillo, c'è un problema che precede la legge elettorale: chi sarà il loro candidato premier? Il PD ha sciolto questo nodo. Si può supporre che il Cav aspetti di conoscere le disponibilità dei potenziali candidati prima di avanzare una proposta sulla legge elettorale. E anche Grillo non potrà sfuggire, come a febbraio, dall'obbligo di avere un candidato premier: quesa esigenza nel Mattarellum era più avvertita che nel "porcellum".
Sono ancora diverse le tessere del mosaico da mandare al loro posto. Le sortite di Renzi sul programma del governo (dalle unioni civili all'abolizione della Bossi-Fini) sono il tentativo scoperto, come ha riconosciuto un politico di razza quale Rosy Bindi, di alzare la temperatura fra gli alleati di governo, per provocarne la reattività. C'è da scommettere che una volta ottenuta la legge elettorale, con Alfano e gli altri che tengono botta e resistono, Renzi tornerà alla carica su qualche tema scabroso nel tentativo di provocare reazioni di rottura negli alleati. Il problema del sindaco fiorentino è di trovare qualcuno che gli levi le castagne dal fuoco, provocando la crisi di governo che il PD per evidenti motivi non può provocare.
Questa non è la strategia di Renzi, si sostiene da Palazzo Chigi, ma nessuno sa dire quale sarebbe l'alternativa a questo orizzonte. L'idea del "patto" è un espediente da assemblea, e ha funzionato egregiamente per mostrare, dopo alcuni anni, un PD finalmente unito attorno al suo segretario e nel sostegno al governo. Domanda: un PD unito attorno al segretario che ha fretta di portare a casa risultati, e unito attorno a un premier che deve camminare sulle uova per non rompere equilibri tenuti su con lo spillo, quanto può resistere senza finire in una crisi di nervi? Casini ha mostrato di avere intuito quanto il cambio di marcia voluto da Renzi finirà in tempi brevi col ripercuotersi sul governo. Il fiuto di un vecchio democristiano, sia pure acciaccato da mille battaglie, è rimasto intatto. Dovendo riaggiustare la linea in vista di nuove alleanze, Casini anticiperà tutti di qualche secondo nel salutare la maggioranza.

Il punto rimane sempre lo stesso: ma Berlusconi quale premier dirà di votare agli italiani? Finché questa domanda rimane senza risposta, Enrico Letta potrà contare su una navigazione relativamente tranquilla. Dopo, cambierà tutto e lo sciame sismico di Renzi potrà trasformarsi in un sisma vero e proprio. 

mercoledì 27 novembre 2013

LETTA TROPPO IMPEGNATO A DURARE NON PUÒ GOVERNARE

di Massimo Colaiacomo

La fine del governo Letta è scritta nelle cose, nella realtà dura e prosaica resa invisibile dai polveroni mediatici, dalle folate polemiche sollevate ora della decadenza di Berlusconi, ora dalle telefonate del ministro Cancellieri, ora dalle smanie di premiership che danno prurito alle mani del sindachino di Firenze. La raffigurazione che ne esce è quella di una giostra impazzita, metafora di un sistema istituzionale giunto al capolinea e ormai irriformabile. Un premier che si trascina stancamente da mesi, in compagnia di un surreale ministro dell'Economia dai modi alquanto macchiettistici, alla ricerca di 2,4 miliardi per cancellare la seconda rata dell'Imu salvo trovare la soluzione in una serie di anticipi fiscali che colpiscono banche e imprese, è un premier che ha gettato la spugna. L'unico impegno rimasto a LEtta è la durata della sua permanenza a Palazzo Chigi. Anche lui finito prigioniero della sindrome giolittiana secon ocui "durare è tutto, governare è niente".
I problemi che ha davanti sono stati resi insormontabili dopo il voto del Senato con cui si è sancita la decadenza di Berlusconi. È bene sgombrare il campo dagli equivoci: qui non si vuole giudicare la bontà o l'opportunita del voto del Senato. Queste cose si lasciano volentieri ai Santoro e ai Floris e agli imbonitori che fioriscono per ogni dove. L'analisi dei fatti politici deve necessariamente prescindere dalla loro dimensione morale: dove c'è la morale la politica è fottuta. She died and buried.
Il cumulo di errori di Letta, assecondato da un Capo dello Stato per la prima volta in vistoso difetto di lucidità, sovrasta e annulla i suoi già scarsi meriti. La Legge di Stabilità è qualcosa di peggio che una legge inutile e dannosa, come ripetono le prefiche di Forza Italia: essa pone le premesse per il commissariamento dell'Italia. Si fa strame del reddito di impresa e si affondano le mani nelle tasche già vuote dei cittadini. Come possa crescere un Paese i cui abitanti non dispongono dei soldi necessari per alimentare i consumi rimane un mistero sul quale il ministro Saccomanni potrebbe esercitarsi con qualcuno dei suoi sonetti romaneschi.
La contabilità fiscale dello Stato presenta una casella vuota alla voce "spese da tagliare". Al contrario, non ci sono più caselle disponibili nel capitolo dedicato al prelievo fiscale. Il dramma italiano è racchiuso tutto in questo strabismo, che dura da quanto dura la Repubblica o poco meno. Con un sistema istituzionale ridotto allo stremo e in balia dei disegni sempre più umorali del Capo dello Stato, è difficile immaginare quanto possa andare avant un Parlamento dai cui scranni mancano i leader che da soli rappresentano quasi il 70% degli elettori. Le Camere non rappresentano più il Paese se Berlusconi, Renzi e Grillo ne sono fuori. L'assenza di leader politici, ma padroni del Parlamento per effetto del porcellum che li rende padroni delle nomine dei parlamentari, è una patologia che rischia di divorare le periclitanti istituzioni repubblicane.

La sola vera missione di questo Parlamento dovrebbe essere la riforma elettorale o l'eliminazione delle incongruenze del "porcellum" per andare quanto prima alle elezioni. Chi immagina che il governo possa assumere un'iniziativa in questa direzione è un povero illuso. Non l'ha fatto fino a oggi, pur godendo di una vasta maggioranza, nel timore che riforma la legge si corresse verso le urne, perché mai lo farebbe ora che la sua maggioranza corre sul filo di lana? La paralisi dei prossimi mesi, causata dai comportamenti temerari del Capo dello Stato, è fieno per la cascina di Grillo e per tutte le opzioni populiste che si vanno rafforzando, compresa quella di Berlusconi. Il quale avrebbe la possibilità, ora che è fuori dal Parlamento, di lavorare al progetto annunciato vent'anni fa e venduto come una pozione miracolosa ma mai davvero sperimentate: lavorare alla costruzione di una destra di impronta europea e mettere in piedi un'opposizione ferma, determinata e puntuale, non demagogica e senxa cedimenti alle sitene del populismo grillino. È possibile che il Cavaliere faccia ora quel che non ha fatto nei precedenti vent'anni? È difficile da credere. Allora dalla padella di Letta si passerà agevolmente nella brace di una competizione elettorale in cui si confronteranno il populismo poujadista della destra e il populismo sgangherato e utopistico d Beppe Grillo. Con tanti saluti all'Europa.

lunedì 25 novembre 2013

LA SOLITUDINE DI NAPOLITANO NELL'ULTIMA BATTAGLIA

di Massimo Colaiacomo

Una nota ufficiosa e risentita per rispondere alle critiche di Berlusconi; silenzio - si presume con profonda irritazione - per il rispetto senza venerazione di Matteo Renzi: il Quirinale è nel mirino di una polemica sempre più martellante con settori più o meno vasti del Parlamento, e non solo delle opposizioni. A parte il fuoco quotidiano di Beppe Grillo e l'asprezza dei toni berlusconiani, sono le critiche via via crescenti - nei toni e nelle argomentazioni - di Matteo Renzi a rendere complicato il già delicato ruolo di equilibrio del presidente Napolitano.
Renzi, in attesa dell'investitura delle primarie, insieme a Grillo e a Berlusconi costituiscono una vasta area parlamentare che da ruoli diversi, di maggioranza e di opposizione,  vede in Napolitano l'ostacolo più difficile da rimuovere sulla via delle elezioni anticipate. Napolitano ha varcato non da oggi il Rubicone della presidenza notarile: non è stato solo l'artefice, con il beneplacito di Berlusconi, dell'attuale governo di "larghe intese", ma ne è divenuto con il tempo anche il principale e più strenuo difensore al punto da mettere tutto il suo peso nei più recenti e complicati passaggi parlamentari. Valga per tutti la vicenda del ministro Cancellieri per superare la quale, ed evitare la sfiducia, Napolitano non ha esitato a dare una copertura istituzionale e personale come mai era prima accaduto. Al punto da mettersi contro il suo stesso partito, un PD sempre diviso e che rischia di dividersi ancora di più proprio sul sostegno al Quirinale.
Napolitano è qualcosa di più che il tutore di Letta. Egli è ormai il simbolo stesso di questo governo la cui maggioranza rischia di sfaldarsi proprio sulla opportunità, e sulla invadenza senza precedenti, della tutela quirinalizia. Al punto in cui si è spinto nella sua strategia, tutto lascia presagire che Napolitano dovrà compiere il gesto estremo delle sue dimissioni nel caso in cui Renzi dovesse decidere da qui a gennaio che le larghe intese vanno archiviate.

Si tratta di un'ipotesi meno remota oggi di quanto non fosse ancora qualche settimana fa. Perché il Quirinale si sia dovuto esporre fino a tal punto è evidente: avendo Napolitano legato la sua rielezione alla nascita di un governo con una vasta maggioranza, non potrebbe accettare un quadro politico tale da negare il significato della sua rielezione. Qualcosa tessera di questo complesso mosaico però non è andata al posto giusto. Viene da chiedersi, per esempio, in che modo e quando Napolitano ha ritenuto di poter fare a meno della "tessera" di Berlusconi essendo stato il leader del PdL uno dei principali sponsor dell'attuale maggioranza. La sua decadenza da senatore è stato un evento imprevisto nel disegno del Quirinale, oppure Napolitano aveva messo in conto un'ascesa "resistibile" di Renzi e, tutto sommato, un PD docile agli ordini del Quirinale? Il venir meno dell'uno (Berlusconi) e le divisioni dell'altro (PD) lasciano ora il Colle in una condizione di solitudine. Certo è che l'ultima cosa che Napolitano si aspettava nella sua lunga carriera era di ritornare "in minoranza" nel Parlamento. Avendo legato il destino del suo mandato a quello del governo Letta, rischia ora di trovarsi in minoranza anche nel Paese.

lunedì 18 novembre 2013

LETTA SCORTICA IL FONDO DEL BARILE, L'EUROPA NON CREDE CHE TAGLIEREMO MAI LA SPESA



QUELLO CHE LETTA PUÒ FARE, QUELLO CHE DOVREBBE FARE E QUELLO
CHE NON FARÀ PER ALLONTANARE IL VOTO E AVVICINARE LA TROJKA

di Massimo Colaiacomo

     Enrico Letta fa bene a ostentare ottimismo sulle sorti del governo e del Paese. È il presidente del Consiglio e sarebbe curioso se facesse o mostrasse il contrario. A ciò si aggiunga che la lunga scuola democristiana, sia pure sotto la guida di una personalità intelligente e di specchiata moralità come Nino Andreatta, lo ha educato a un distacco cinico rispetto ai tumulti della vicenda politica. C'è una galleria di aforismi per spiegare il mood con cui Letta osserva e si muove nel quadro politico. Valga per tutti l'adagio attribuito a Giovanni Giolitti secondo cui "durare è tutto, governare è niente".
     La spaccatura del PdL non è il divorzio da molti immaginato fra Berlusconi e Alfano ed essa non è affatto destinata a rafforzare il governo. Se vuole respingere le accuse di tradimento, Alfano dovrà necessariamente irrigidirsi sulle questioni programmatiche che stavano a cuore al PdL: dal calo della pressione fiscale alla riforma del mercato del lavoro, dai tagli della spesa pubblica hic et nunc alla riforma della Pubblica amministrazione, non c'è terreno sul quale Alquale non sarà chiamato a dar prova di coerenza con l'impostazione programmatica del PdL. È certamente vero che per Enrico Letta cesserà lo stillicidio quotidiano di agenzie che minacciano la crisi ogni tre per due, ma è altrettanto innegabile che si restringono per lui gli spazi di manovra sul programma. Di qua Alfano, di là un Matteo Retante, come si vede dal caso Cancellieri che divide il Pd. Con i renziani nel ruolo di avanguardia nella richiesta di dimissioni del ministro, difeso a spada non più tratta dal Quirinale e dal premier. Se la Cancellieri, come lasciano intuire le voci che filtrano, sceglierà la via delle dimissioni per togliere Letta da ogni imbarazzo, non è facile chiudere la vicenda con un rimpasto limitato a quella sola casella.
     E i rimpasti di governo, insegna l'esperienza, si sa come iniziano ma nessuno sa come finiscono.Nun rebus aggiuntivo per Letta, chiamato a un altro passaggio non agevole. Può darsi che la frantumazione del quadro politico, e in particolare delle forze nel centrodestra, si risolva in un cemento positivo per la maggioranza residua, almeno in una prima fase. È altrettanto evidente che la maggiore coesione della maggioranza residua dipenderà dagli interessi concreti dei protagonisti sul campo. Quello di Alfano è di prendere tempo, non precipitando la corsa elettorale, avendo il problema difficile di organizzare un partito. Quello di Renzi è diametralmente opposto: accelerare verso le urne per non perdere il favore del momento. Con un centrodestra diviso (diviso meno di quanto appaia, ma pur sempre diviso e pasticcione), perché attendere il 2015 quando Renzi sarà stato logorato dai vecchi cacicchi del partito?
     Enrico Letta avrebbe, e tuttora ha, carte importanti da giocare. Per esempio, riscrivere larghe parti della legge di stabilità, calare il sipario sullo spettacolo indecoroso e risibile (e l'Europa ride, non credendo a una sola parola) di una spending review diventata come l'albero di Bertoldo, e procedere a tagli vigorosi e socialmente dolorosi della spesa pubblica. Il modello è quello di Mariano Rajoy, in Spagna. Quel premier ha fatto una cosa semplice, due anni fa: ha preso le misure che al suo posto avrebbe preso la trojka. Ha salvato la dignità nazionale e ridato a se stesso una prospettiva politica. Per fare questo Letta dovrebbe  abbandonare la strategia della sopravvivenza e navigare in mare aperto. Lo farà? È da escludere, visto il timbro democristiano che risuona in ogni sua indecisione. Più probabile che in primavera sarà la trojka economica a fare quello che un ceto politico fallito non è in grado di fare. Del resto,bbe fare oggi quello che nessuno ha voluto fare in 65 anni di vita repubblicana?

domenica 10 novembre 2013

SE UN GIORNO GLI OPERATORI SCOLASTICI TORNASSERO BIDELLI (LA SPESA PUBBLICA SCENDEREBBE DI 10-15 MILIARDI DI BOTTO ...)

        di Massimo Colaiacomo

        L'Italia affoga in un oceano di ipocrisia. Gli affluenti principali scendono dai palazzi della politica, s'ingrossano e diventano laghi nella società, nei cosiddetti corpi intermedi (sindacati, associazioni di categoria). Come una coltre spessa e polverosa, l'ipocrisia ha inghiottito figure e ruoli sociali, funzioni, professioni, lavori. L'atomizzazione sociale è stato il colpo di grazia su un tessuto civile storicamente fragile e mai compiutamente cucito fino al punto da assumere l'aspetto di Popolo o di Nazione. La furia iconoclasta sotto i cui colpi sono caduti ruoli sociali, funzioni e lavori ha lasciato un campo di macerie, e l'ipocrisia ha ricoperto tutto. Un'ipocrisia costosa in termini sociali, ricattatoria verso la finanza pubblica e devastante verso le generazioni future alle quali sarà più difficile ancora declinare il termine "italiano".
Il desiderio di sterilizzare il conflitto sociale nascondendolo sotto la maschera del sociologismo ha distrutto figure nobili la cui memoria ha lasciato tracce indelebili nella biografia di generazioni di italiani. Lo scopino o spazzino è sparito, ribattezzato operatore ambientale. Con lui sono diventate "operatori" tutte le altre figure legate alla nostra infanzia: il bidello, il ghisa-pizzardone-vigile. Tutti loro operano, spogliati del loro ruolo sociale, privati della loro identità lavorativa. Tutti sono mal pagati, ma nessuno di loro ha più un'identità da far valere. Sono soltanto operatori che operano, nannimorettianamaente sono costretti a dire che per per vivere "vedo persone, faccio cose".
Il bidello doveva pulire le aule al termine delle lezioni, lo scopino passava alle prime luci dell'alba per pulire le strade. Lo stesso valeva per il pizzardone-ghisa. O il portantino in ospedale, che ogni mattina alle 5 in punto puliva le corsie. Il bidello non pulisce più le Aule, lo scopino è stato soppiantato da rumorosi camion e il portantino, mansionario alla mano, porta un pulmino all'interno degli ospedali.
La pulizia di ospedali, aule, strade, uffici è appaltata a ditte esterne. Quanto costa allo Stato, cioè a ogni contribuente italiano? Qualcuno ha mai fatto i conti? Secondo uno studio dell'Anci, non molto diverso da una ricerca di Bankitalia, si stima in circa 10 miliardi all'anno la spesa sostenuta dallo Stato per la pulizia di tutti i luoghi pubblici (con l'eccezione delle strade) appaltata a ditte esterne.
Nessuno dei politici ha mai pensato di indicare in questa voce di spesa il terreno più adatto per tagli vigorosi della spesa pubblica. Perché? Certo, perché i mansionari - autentiche tavole della legge - dicono che il bidello non deve più pulire le Aule né il portantino le corsie degli ospedali. Su quei mansionari, insomma, è scritto che ciascuno dei 60 milioni di abitanti dell'Italia deve sborsare più di 150 euro all'anno per finanziare la pulizia di scuole e ospedali.
  Chi ha redatto i mansionari? E chi controlla grandi e piccole società di pulizia? Qualcuno ipotizza che i mansionari siano stati redatti da persone divenute successivamente titolari, direttamente o indirettamente, delle stesse società chiamate a pulire le scuole. Politici, loro familiari o parenti, sindacalisti e affini hanno e in che misura una qualche cointertessenza nella conservazione dello status quo? Dieci miliardi tagliati alle pulizie, e bidelli e portantini restituiti alla dignità del loro ruolo, significano un taglio del cuneo fiscale pari ad almeno 50 euro al mese.
Il commissario alla spending review conosce questa realtà? Ha il mandato per agire in questa direzione o gli hanno fornito un pacco di carta assorbente soltanto per asciugare qualche goccia di troppo dal fiume di spesa pubblica inutile che continua a scorrere in tutta Italia?
Un ex presidente della Consulta confidava, durante una cena, che al Consiglio di Stato vigono norme sindacali per le quali una dattilografa, figura preziosa per la scrittura delle sentenze, una volta promossa e passata alla qualifica superiore, perde l'obbligo di scrivere a macchina o al computer. Così, qualche anno fa, c'è stata un'infornata di promozioni e il risultato è stato che il Consiglio di Stato ha dovuto appaltare a una società esterna la scritture delle sentenze, materia peraltro di qualche riservatezza d'ufficio. Il risultato è stato più spese per l'aumento di stipendio e più spese per l'appalto della redazione delle sentenze a una ditta esterna. Il commissario alla spending review conosce questa, e chissà quante altre realtà ad essa simili o assimilabili?
L'impressione sempre più netta è che qualsiasi revisione della spesa pubblica è pressoché impossibile senza coinvolgervi a pieno titolo le organizzazioni sindacali, appaltatrici in proprio della dichiarazione dei redditi di milioni di lavoratori e pensionati. La spesa pubblica è difficile da tagliare, ma non per il timore, come si crede, di lasciare frotte di italiani sul lastrico. No, è difficile da tagliare perché le sue fonti sono coperte dal mare di ipocrisia di chi dovrebbe tagliare quella spesa.
Quando si ipotizza in 60 o 70 miliardi di euro l'ammontare dei taglidi spesa, si fa un'ipotesi minimalista. Si potrebbe tagliare molto, ma molto di più. E restituire quei soldi ai loro legittimi proprietari, cioè i contribuenti che pagano le tasse. 

 

mercoledì 6 novembre 2013

IL GOVERNO E IL VOLO DELLA FENICE

                                                                di Massimo Colaiacomo
 
     Era un grande film di Robert Aldrich, con un cast tutto maschile, quello che nel 1965 spopolò nelle sale cinematografiche. "Il volo della Fenice" raccontava la storia di un gruppo di uomini il cui aereo era stato costretto a un atterraggio di fortuna nel deserto libico. Dopo mille vicissitudini, e persa ogni speranza di ricevere i soccorsi, un ingegnere del gruppogene l'idea di smantellare l'aereo precipitato per costruirne uno più piccolo e tentare un volo di fortuna. Gli attimi di maggiore suspence coincidono con i tentativi di accensione del motore. I superstiti hanno sette cartucce per l'accensione ma è soltanto con la sesta che riescono a riavviare il motore e a far decollare l'aereo.
     La metafora sembra quanto mai attagliarsi alla condizione dell'Italia. Quante sono le cartucce a disposizione del governo di Enrico Letta per tentare di riavviare il motore della - un tempo - settima potenza industriale del mondo? Poche, meno delle sette rimaste all'equipaggio dell'aereo del film. E quelle finora impiegate non hanno fatto neanche vibrare l'aereo del bimotore. Far ripartire l'economia, cioè la crescita, significa aver messo da parte scorte di carburante e il consumo maggiore, come si sa, è proprio nella fase di rullaggio e decollo. Una volta in quota, il volo si autoalimenta se il pilota sarà bravo a studiare la direzione dei venti.
     Fuor di metafora, l'esecutivo di Enrico Letta ha finora badato ad evitare le zuffe troppo frequenti fra i ministri e all'interno della sua maggioranza. Anche se in quest'opera non può certo dirsi aiutato da un ministro dell'Economia estemporaneo, improvvisato e improvvisatore. È molto grave il comportamento di Fabrizio Saccomanni. L'idea di far vivere i contribuenti sul filo della corda, di annunciare ipotesi di tasse o di ritorno dell'Imu, è un comportamento troppo dilettantesco e inspiegabile se non ha alle spalle un retropensiero o uno scenario politico diverso da quello che vediamo.
     L'outlook della Commissione Ue sulle prospettive della finanza pubblica italiana è in qualche misura assimilabile all'ultima chiamata e le risposte attese dall'Italia sono in tutto simili all'ultima cartuccia a disposizione del governo prima del naufragio suo e del Paese.
     La ricetta suggerita con la frequenza di un rosario da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina risuona come una vox clamans in deserto, rimanere paralizzati di fronte alla grandezza dell'impresa significa averla persa in partenza. L'Italia non è sull'orlo del precipizio, ma lo ha superato da un pezzo e si trova nella fase in cui la luce esterna si smorza velocemente prima di essere risucchiati nel buio. La riforma del lavoro è al palo; gli incentivi per l'assunzione dei giovani purché a tempo indeterminato non aiutano una sola assunzione; se anche in Italia non si diffonde la cultura della polizza privata da affiancare alla spesa pubblica il sistema sanitario ingoierà il poco che resta del Paese; le Regioni si sono rivelate  l'Idra a sette teste che ha consumato le finanze pubbliche ben oltre gli scandali e i fenomeni corrutivi. Abolire le Province, ridimensionare le Regioni e, soprattutto, non gridare allo scandalo se si sottrarre il sistema sanitario al controllo delle Regioni per ricondurlo al controllo statale. Il ritorno alle Casse Mutue, che tante prove eccellenti diedero nell'immediato dopoguerra, significherebbe allineare l'Italia al modello tedesco o francese. Lo Stato paga una quota per l'assistenza sanitaria, un'altra è a carico del mutuato. L'assistenza diventa così gratuita per i senza lavoro e i disoccupati, ma non per chi lavora o gode di una pensione oltre una certa soglia di reddito.
     L'esecutivo ha scelto una strada perdente e confermata tale nel corso dei decenni. Le tasse, vecchie o nuove, sono le cartucce bagnate usando le quali nessun motore potrà mai essere riavviato. Tagliare il cuneo fiscale, per di più nella misura irrisoria che si profila, non porta da nessuna parte. Anzi, porta soltanto a un ricorso alla Corte Costituzionale per discriminazione nei confronti delle categorie di reddito diverse dal lavoro dipendente (pensionati, autonomi ecc.).
     Serve all'Italia una cura drastica di alleggerimento fiscale: 50 o 60 miliardi da distribuire a tutti i contribuenti, ai redditi bassi come a quelli un tempo medio-alti e oggi prossimi alla fame. Dove reperire le risorse? Chiudendo le Province; ridimensionando le Regioni; obbligando i piccoli Comuni ad associarsi in consorzi per abbattere le spese di gestione d di servizi; vendendo (anzi: svendendo, per fare prima) tutte le aziende municipalizzate. È possibile? Sì, tutto è possibile. Il paziente portato in sala operatoria perché colpito da un ictus ha pochi minuti che lo separano dalla guarigione o dalla morte perché il suo cervello è rimasto senza ossigeno anche solo per pochi secondi. L'Italia è quel paziente. La responsabilità invocata dal presidente della Repubblica è, detto con rispetto, l'ultima e più inutile delle qualità necessarie  al governo. Più utile è il coraggio invocato da Alesina e Giavazzi.

martedì 5 novembre 2013

GOVERNO IN CERCA DI MINISTRI (E DI PREMIER)

di Massimo Colaiacomo

     Capita a tutti nella vita di andare in bambola affrontando una circostanza imprevista o nel mezzo di una situazione mal calcolata. La politica è parte della vita (parte, non la vita) e capita quello che capita nella vita. Per esempio che ministri dello stesso governo vedano situazioni diverse per uno stesso problema, oppure che gli stessi ministri vedano probemi diversi da una stessa situazione. Succede anche al presidente del Consiglio Enrico Letta i cui ministri bisticciano sullo stato del bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto. Per il ministro del Welfare Enrico Giovannini l'aumento della disoccupazione nel 2014 è da considerarsi "fisiologico". I moralisti arricciano il naso, ma non è il caso. Con il naso si possono arricciare anche le orecchie se si leggono le motivazioni date da Giovannini. Eccole: "quando c'è una ripresa economica - ha spiegato Giovannini intervenendo a "L'Economia prima di tutto" -  molte delle persone che al momento sono scoraggiate e non cercano lavoro, si mettono alla ricerca del lavoro quindi che il tasso aumenti è del tutto fisiologico. Quello che è più importante è che questa ripresa porti più posti di lavoro".
     Per chi non avesse capito, la situazione attuale è questa: ci sono disoccupati invisibili, non censiti da nessuna statistica, insomma fantasmi che sfuggono a ogni rilievo per la ragione che il lavoro non c'è e allora tanto vale starsene chiusi nelle mura di casa. Fra qualche mese, quando il Pil riprenderà a crescere, quei disoccupati si decideranno ad abbandonare le confortevoli mura domestiche e torneranno presso gli uffici delle Agenzie del lavoro senza trovarvi il lavoro annunciato dalla ripresa. Che cosa succede allora? Semplice: quei disoccupati cessano dalla loro condizione di "invisibili" e diventano disoccupati riconosciuti, ufficiali e identificabili.
     Questo è una parte dello stato dell'arte nel governo italiano. L'altra parte la racconta il viceministro dell'Economia, Stefano Fassina. Meno smaliziato politicamente del ministro Giovannini, Fassina calcola che con una crescita nel 2014 stimata dell'1% non si avranno conseguenze significative sull'occupazione. Tradotto: la crescita è talmente misera che non ci saranno posti di lavoro in più. Anzi: la disoccupazione toccherà il livello record del 12,4%.
     La gravità "fisiologica" di queste affermazioni è stata aggravata, mentre scrivo questa nota, dalle stime della Commissione europea per il 2014. Stime in linea con quelle dell'Istat per quanto riguarda la crescita del Pil stimata allo 0,7% per il prossimo anno, con il debito che arriva al 134% del Pil e il deficit al 2,7%. Tutto questo che cosa significa? Significa alcune cose molto brutte per l'Italia: afferreremo la ripresa per la coda ma non ne saremo trascinati. L'eurozona è vista in crescita dell'1,1%, mentre il debito salirà al 90,2%: quello dell'Italia, fotografato al 134%, risulterà superiore del 50% rispetto alla media eurozona.
     Sono previsioni fosche, per usare un eufemismo. Il fatto è che il governo ha fatto confusione fra i mezzi e il fine della sua azione: ha trasformato la stabilità nel suo unico fine, e non nel mezzo per fare quelle operazioni incisive e chchirurgiche dlla società italiana. La crescita dello 0,7%, se confermata, significa che un Pil di circa 1450 miliardi nel 2013, crcrescerei poco più di 10 miliardi. Mentre gli interessi sul debito, secondo le stime di Maria Cannata vice direttore di Bankitalia, ammonteranno nel 2014 a circa 85 miliardi di euro. Una situazione prossima al default, considerando che dal 2015 l'Italia dovrebbe ridurre di circa 45 miliardi l'anno il proprio debito: quindi, 45 miliardi di riduzione del debito sommati ai circa 85 di interessi (nello scenario di tassi stabili) significa trovare ogni anno 125 miliardi di euro. Che è come dire: arrendetevi e uscite mani in alto. A meno che tutta L'Eurozona non riconosca che il Fiscal compact è stato solo uno scherzo di pessimo gusto.

lunedì 4 novembre 2013

POPULISMO E RIFORMISMO, L'EUROPA ALLO SPECCHIO

di Massimo Colaiacomo

     Ha ragione Angelo Panebianco sul Corriere della Sera quando osserva che gran parte della responsabilità dell'antieuropeismo pronti a manifestarsi alle urne per il Parlamento europeo ricade sulle spalle delle élites che lo hanno provocato con le loro politiche sbagliate. Si può ragionevolmente aggiungere che l'antieuropeismo altro non è se non l'altra faccia della medaglia, cioè di un europeismo burocratico, lontano dalle persone ed alla realtà, nutrito degli interessi egoisti dei singoli Paesi. L'antieuropeismo è anche, va aggiunto, la risposta ai successi ottenuti dall'Europa sulla via dell'integrazione. Sia pure di un'integrazione sbilenca e squilibrata, in cui uno solo (la Germania) distribuisce le pagelle e detta il ritmo.
     L'antieuropeismo, aggiungiamo, è oggi più forte nei Paesi dove in passato si era registrato la più alta percentuale di adesione al progetto europeo. Come sorprendersi, del resto, se greci, spagnoli, portoghesi e italiani sono ostili al volto arcigno di un'Europa che chiede ai rispettivi Paesi sacrifici sanguinosi per risanare la finanza pubblica senza peraltro offrire nessuna prospettiva di crescita? Diverso è il caso della Francia. L'avanzata tumultuosa del Front national di Marine Le Pen si presenta più che altro come un allargamento dell'antico solco golliano dell' "Europa delle Patrie". Le Pen, balzata in testa ai sondaggi, attacca l'Europa sul terreno delle politiche concrete (l'immigrazione, la politica del lavoro e demografica) senza mai apertamente evocare l'uscita della Francia dall'Unione europea.
     Nel caso italiano, assimilabile a quello degli altri Paesi del Sud, l'antieuropeismo si nutre del rancore sordo per istituzioni avvertite come ostili e lontane. L'Europa, sognata e desiderata negli anni Settanta e Ottanta come l'approdo in un porto sicuro di benessere e di sviluppo, ha rivelato improvvisamente il suo volto inciprignito fatto di bilanci pubblici da mettere e tenere in ordine "a qualsiasi prezzo".
     Ma qual è il senso da dare alla presumibile valanga di consensi per i partiti anti-Ue? È possibile leggerlo in due modi: come voto di censura ai rispettivi governi nazionali, secondo una tradizione consolidata nel tempo; ma è anche possibile leggervi un voto dichiaratamente ostile alle modalità fin qui seguite per costruire l'integrazione europea. Come possono rispondere i governi nazionali alla manifestazioned i questo dissenso? Se quei governi sono sinceramente e intimamente convinti della bontà del progetto di integrazione (ed Enrico Letta lo è) hanno una sola strada da percorrere: fermare le macchine, porre il veto a ogni iniziativa di riforme strutturali dell'Europa senza aver prima ottenuto concessioni sostanziali e cospicue nella revisione delle politiche di bilancio. A cominciare dalla prima e più importante: la revisione del Fiscal compact per cui l'Italia dovrebbe ridurre di 50 miliardi all'anno il proprio debito pubblico.
     Si tratta di spiegare al governo di Berlino, ma soprattutto alla sua riluttante opinione pubblica, che una simile scelta è nell'interesse di tutti, dei tedeschi per primi. In sua assenza, l'Europa perderà ogni significato agli occhi delle nuove generazioni.

sabato 19 ottobre 2013

STABILITÀ E CORAGGIO, DUE COSE CHE NON STANNO INSIEME (ALMENO IN ITALIA)


di Massimo Colaiacomo

Tutti invocano la stabilità politica, nuovo totem da adorare, e molti di essi addirittura pretendono il coraggio nelle scelte di politica economica e fiscale del governo. Pochi si sono accorti, e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi meno di altri, che si tratta di un ossimoro, cioè di due parole che tendono ad autoescludersi, almeno nella politica italiana. In Germania, invece, è stato (e sarà) ben diverso.  Per la ragione che a Berlino le larghe intese non sono fondate sulla "reciproca sopportazione" ma più realisticamente funzionano sulla "reciproca corresponsabilizzazione". In Italia, coraggio non c'era nelle scelte fatte da maggioranze stabili e omogenee e coraggio non è consentito di avere a Enrico Letta. Compiere scelte arduous e too-bold esporrebbe il governo a una crisi immediata. Le "non scelte" di Letta, un colpo qui e uno là, gli consentono invece di traccheggiare e guadagnare tempo nevigando sottocosta. Letta è l'estremo erede dell'adagio giolittiano secondo cui "governare è niente, durare è tutto".
La Legge di stabilità contiene la promessa di nuove tasse, se alla fine di ogni anno fiscale si dovesse registrare uno scostamento significativo negli obiettivi di bilancio. Con l'uso della clausola di salvaguardia, vero e proprio atto di auto-spoliazione della politica, si entra infatti sul terreno della deresponsabilizzazione politica. L'aumento dell'IVA dal 1° ottobre era contenuto nella clausola di salvaguardia messa da Mario Monti nella Legge di stabilità per il 2013. Monti lo aveva a sua volta ereditato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
Il taglio del cuneo fiscale è irrisorio, mentre ben pesante è l'abolizione di una serie di detrazioni fiscali che toccano diverse fasce di reddito. Gli eco-bonus sono addirittura una misura surreale, calata in un Paese la cui popolazione è, in una misura stimata dalle stastiche intorno al 30%, nelle condizioni di dover prima di tutto far fronte alle spese quotidiane.
I partiti sono troppo impegnati a ridefinire il proprio perimetro di interesse e a costruire nuovi sistemi di alleanze per curarsi delle politiche di governo. La finanziaria non piace a nessuno e Letta sa già che proprio per questa ragione sarà approvata. Dove il premier ha sbagliato, per un eccesso di furbizia, è stato nella decisione di rimettersi agli accordi fra le parti sociali e le forze politiche per distribuire il miliardo e mezzo di tagli fiscali. Letta ha imparato a convivere con l'instabilità, come ha detto, ma rischia di farsi davvero male se pensa di utilizzare l'instabilità politica per tenere il governo al riparo dalla tempesta.
Pensare di salvare l'esecutivo limitandosi a fissare le grandezze economiche della finanziaria per lasciare alla dialettica parlamentare di trovare il giusto mix di tagli e incentivi è una furbizia che rischia di ritorcersi contro l'esecutivo. È vero che Letta lavora con una maggioranza eterogenea, ma la sua rinuncia a sostenere con vigore un indirizzo di politica economica chiaro e riconoscibile non produce per questo l'effetto di mettere tutti d'accordo. Rischia invece di esasperare la contesa tra i fautori delle tasse e i loro avversari.
Pd e PdL sono tenuti insieme però da un robusto filo: i tagli alla spesa pubblica, annunciati e poi trionfalmente (sì, proprio così: trionfalmente!) smentiti dai ministri interessati, a cominciare dalla responsabile della Salute, Beatrice Lorenzin.
La spesa pubblica è il terreno dove le distanze fra Pd e PdL diventano colmabili e accordi ritenuti impossibili su altri capitoli diventano invece tranquilli e a portata di mano quando si tratta di non toccare gli interessi delle potenti corporazioni che stanno sulla spesa pubblica come le cozze sullo scoglio.
È risibile la nomina di un commissario, sia pure nella persona rispettabile e competente di Cottarelli, che dovrebbe aprire un cantiere sulla spending review per cercare le voci di spesa da tagliare e che il governo non taglierà mai. GLi unici tagli di spesa sono quelli subiti dai Comuni, almeno da 10 anni a questa parte. Tutti gli altri operatori che ricadono nel perimetro dlela spesa pubblica non sono stati toccati o lo sono stati soltanto marginalmente.
Come può tirare avanti un Paese dove la crisi ha falcidiato il tessuto delle piccole e medie imprese, con ciò riducendo la platea dei contribuenti, mentre è rimasto sostanzialmente invariato il perimetro della spesa pubblca? Come immaginare il futuro dell'Italia se dal 2007 a oggi si stima che sono oltre 350 mila i giovani, laureati e formati a spese dello Stato, in giro per il mondo a cercare lavoro, mentre si calcola in circa 700-800 mila il numero di immigrati irregolari e senza titoli di studio arrivati in Italia?
La bilancia dell'import-export di intelligenza e formazione presenta un saldo drammaticamente negativo per l'Italia. Questo saldo è per certi aspetti più drammatico del 134% del rapporto debito-Pil. Un Paese che non sa trovare un lavoro a una generazione è già tecnicamente fallito. È doppiamente fallito se lasciando scappare tante intelligenze pensa di compensarle ospitando alla rinfusa gente in fuga da Paesi remoti in nome di un buonismo bigotto e molto sciocco.

giovedì 17 ottobre 2013

CHI AMA ISRAELE DICE NO AL PROVVEDIMENTO SUL NEGAZIONISMO

di Massimo Colaiacomo

L'idea di rendere obbligatoria la memoria del genocidio è soltanto l'ultima delle aberrazioni prodotte dalla narrow correctness asfissiante del nostro tempo. È tipico delle dittature il tentativo di costruire o ricostruire il passato e imporlo al presente con la forza delle leggi. Così l'idea stessa di proibire a qualsivoglia titolo la negazione del genocidio del popolo ebreo può essere partorita soltanto in un Paese e da una classe politica che deve mondarsi di gravi peccati (le leggi razziali del 1938) ed esorcizzare un presente scosso dal vento lugubre dell'antisemitismo.
Esiste, ed è innegabile, un nesso profondo fra le espressioni più truculente dell'antisemitismo di questi anni e un'avversione profonda verso lo Stato di Israele che affonda le sue radici nella prima guerra del Medio Oriente (1967). C'è una fetta importante del ceto politico, soprattutto di sinistra, ostinata a negare l'esistenza di questo nesso. Per la ragione che riconoscerlo avrebbe comportato un'autocritica di non poco conto sulla politica estera italiana e sull'atteggiamento della nostra diplomazia riguardo alla "questione" israeliana.
Per dirla con le parole pronunciate qualche anno fa da Walter Veltroni, si può criticare la politica di Israele nei territori occupati ma questo non significa coltivare sentimenti antisemiti. La dialettica veltroniana non faceva una piega, almeno in superficie. Scavando un po' più a fondo, si poteva invece scoprire un tessuto raggrinzito di luoghi comuni soltanto in apparenza lontani dall'antisemitismo ma in realtà profondamente congiunti ad esso.
Alcuni esempi: se la politica di Israele nei Territori occupati è sbagliata e i coloni si rifiutano di abbandonare le case costruire a Est del Giordano o sul versante israeliano della Bekaa, non è una critica generica al governo di un Paese generico. In discussione si sta mettendo la politica di un Paese impegnato dal 1948, anno della sua nascita, a difendere "il diritto a esistere". Questo aspetto quasi mai è presente nel discorso pubblico in Europa. "Diritto a esistere", cioè il diritto di uno Stato e del suo popolo a vivere e vedersi riconosciuto per questa sola ragione.
La critica ai governi israeliani, quindi, per quanto legittima e politicamente plausibile, non ha mai scontato in partenza questo handicap: criticare Israele significava, dal punto di vista israeliano, criticare il suo diritto a esistere.    Si aggiunga a questo, il filo-arabismo tradizionale della Farnesina, matrice del dominio democristiano e andreottiano in quel dicastero, spesso motivato con la "necessità" di buoni rapporti con i Paesi produttori di petrolio.
Comportamenti del presente e omissioni della memoria fanno spesso un tutt'uno in una miscela malmostosa che sprigiona sentimenti talmente estranei capaci di sorprenderci. Negare il genocidio deve essere una possibilità da riconoscere. La questione è un'altra: per affermare che esso è stato compiuto e realizzato bisogna nutrire la coscienza dell'opinione pubblica, alimentare la memoria di ciò che è stato ma, ancora più significativo, rischiarare il giudizio critico della persona facendo conoscere in lungo e in largo perché da quel genocidio è nato lo Stato di Israele e perché questo Stato, costretto dai fatti a sbagliare e a caricarsi sulle spalle mille errori, è oggi l'unico Stato sulla Terra che combatte per affermare il proprio diritto "a esistere". Se nell'opinione pubblica europea non prende a circolare una visione più liberale e meno dogmatica sulle vicende mediorientali attuali non si vede di quale utilità possa essere una legge che vieta di negare il genocidio. Parola, fra l'altro, che è altra cosa da "olocausto", come ama ripetere un ceto politico formato sui Bignami di storia. Shoah non è un sacrificio umano fatto a Dio (quale Dio, poi, per il Führer?). Shoah è lo sterminio scientifico del popolo di Abramo e di Isacco, un popolo senza il quale non sarebbe mai esistita l'umanità di cui siamo parte.
Se un ragazzo afferma che lo sterminio degli Ebrei è stato realizzato dal nazismo ma che la politica attuale del governo israeliano ripete verso gli arabi gli stessi errori di cui gli ebrei sono state vittime, avremo costruito una nuova specie di antisemita "in vitro". Qualcuno provi a spiegare questo alla presidente della Camera Boldrini e all'on. D'Alema.

NELLA FINANZIARIA LA RESA DELLA DEMOCRAZIA ALLA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA


di Massimo Colaiacomo

Ci sono molti modi per ingessare le procedure tipiche della democrazia parlamentare. E sono diverse le circostanze che richiedono o addirittura impongono una buona ingessatura per salvaguardare la democrazia e l'impalcatura statuale nelle quale la identifichiamo. La Legge di stabilità approvata mercoledì dal Consiglio dei ministri rientra, consapevoli Letta e Alfano, nella categoria dei gessi flessibili. Essa prevede, nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, la cosiddetta clausola di salvaguardia, un tool ampiamente sperimentato già dal ministro Giulio Tremonti e dal governo di Mario Monti. Il funzionamento della "clausola" è di semplice ed efficace ruvidezza: scattano una serie di misure, tasse micro e macro, nuove accise. Insomma, si compie un "rastrellamento" forzoso dalle tasche dei contribuenti. Senza alcuna responsabilità della politica in quanto tale.
Insomma, un castigatore automatico come automatici sono i meccanismi della "democrazia di Maastricht". "La democrazia del 3%" (rapporto deficit-Pil), al pari della "democrazia del 60%" (rapporto debito-Pil) è il seme gettato da una vecchia generazione di europeisti ancora credenti nel sogno di un'Europa federale. Hanno gettato il cuore oltre l'ostacolo, lasciando alla generazione successiva di sbrogliare una matassa della quale essi stessi avevano smarrito il bandolo. Nasce così l'ingessatura del sogno europeo. Tutti allineati sulla linea di partenza, è stata la tragica illusione, come se non ci fossero décalage da superare, differenze, anche vistose, da recuperare.
Il Six pact è il gesso rinfrescato sugli arti malfermi dell'Unione europea (Italia, Spagna, Irlanda, Grecia) con il traguardo stellare di ridurre, a partire da gennaio 2015, il debito pubblico di 2 punti percentuali all'anno (grosso modo 42 miliardi di euro). Meccanismi che si vorrebbero automatici e ai quali una politica sempre più afasica risponde inserendo altri automatismi, come appunto la clausola di salvaguardia. Non riusciamo a raggiungere gli obiettivi concordati in Parlamento dalla maggioranza? Bene, scatterà una rappresaglia finanziaria per la quale non ci sono responsabilità politiche da invocare.
La china lungo la quale si incammina la politica è quella di una resa incondizionata alle sue stesse ragioni. Procedendo lungo questo sentiero si incontra il collasso della democrazia parlamentare, almeno per come è stata vissuta e conosciuta fino a ieri. Che non coincide necessariamente con il tracollo della democrazia tout court. Certo, fenomeni come l'antipolitica, almeno quella che vediamo in Italia, hanno molto a che fare con la perdita di ruolo e di funzione della politica tradizionale. In Francia, per esempio, non si può archiviare come antipolitica la crescita di consensi per Marine Le Pen. Lì c'è un fenomeno di rigetto dell'Europa che ha basi sociali ed economiche molto solide e antiche. Marine Le Pen ha in qualche modo riesumato la voce potente dello scetticismo gaulliano verso l'Europa unita contro la quale rilancia l'Europa delle Patrie.
Grillo e il grillismo sono la risposta a una politica che si ostina a difendere l'europeismo tradizionale dell'Italia adottando però strumenti e risposte inadeguate per intestarsi il titolo di Paese stabile e affidabile. La politica dovrebbe fare quello che non vuole (tagliare la spesa pubblica con la scure), ma fa quello che non deve (mantenere una pace sociale i cui costi sono socialmente insostenibili e incompatibili con i parametri europei).
È in queste ragioni lo scetticismo sulla Legge di stabilità. Per essere una finanziaria da "larghe intese" è davvero asfittica, se confrontata con la finanziaria da "Grosse Koalition" varata da Merkel nel 2005. Essa fotografa il presente, prova a tracciare una curva ma non sufficiente per portare la finanza pubblica fuori dal percorso al termine del quale c'è il baratro. Quel baratro, però, non è lo sfracelo del Paese. Esso ha l'aspetto di quei signori austeri che girano l'Europa del sud con scritto nel biglietto da visita: Fondo monetario Internazionale, Banca Centrale europea, Unione europea. Chissà se in fondo al baratro sempre evocato e temuto non ci sia la salvezza dell'Italia.  


 

mercoledì 16 ottobre 2013

L'ITALIA NELLA BONACCIA DELLA STABILITÀ. LETTA DEVE SPERARE NELLA BUONA STELLA


di Massimo Colaiacomo

È un brodino ristretto la legge di Stabilità uscita dal Consiglio dei ministri. Le tasse non sono il profluvio da tanti temuto, ma ci sono. I tagli alla spesa si leggono in controluce. I vantaggi fiscali per famiglie e imprese sono quasi impercettibili. Si può onestamente dire che la finanziaria della svolta, come enfaticamente era stata annunciata dal premier Letta, è in realtà un provvedimento per la sopravvivenza. Da buon democristiano, Letta confida nella ripresa dell'economia mondiale e cerca di attrezzare l'Italia per prendere un po' di vento alle vele. Ma quello che si legge sui giornali di stamane, e in attesa di vedere come quel vestito uscirà dalla sartoria parlamentare, non autorizza  rosee previsioni.
Letta ha fatto quel che poteva, cioè poco. Lo shock da molti atteso - a cominciare da Confindustria e dai sindacati - non c'è stato e l'Italia continuerà a navigare sottocosta. Timidi o inesistenti gli interventi strutturali. Solo un atto di cortesia gli sgravi fiscali. Da capire come sarà modulata la tassazione sulla casa che, piaccia o non piaccia al PdL, esiste in ogni angolo della Terra sia pure nella forma di una service tax. Perché è evidente anche alle pietre, che i servizi pubblici collettivi e individuali necessari per vivere in un'abitazione moderna hanno un costo e ogni cittadino deve contribuire.
A colpire negativamente è la filosofia complessiva dei due disegni di legge licenziati ieri sera dal Consiglio dei ministri. Ogni misura è stata distillata con l'alambicco delle vecchie preparazioni galeniche. Valga per tutte l'esempio del taglio al cuneo fiscale, considerato da Letta il cuore della finanziaria. Si tratta di 2,3 miliadi per il 2014 da dividere fra lavoratori (1,5 mld) e imprese (800 mln). Se così stanno le cose, si può dire che quel cuore è allo stremo e prossimo a cessare. Si immagina di rilanciare i consumi mettendo 7 o 8 euro al mese in più nelle buste paga dei lavoratori con reddito inferiore ai 55 mila euro lordi annui?
È di tutta evidenza che quello del governo è un semplice wishful thinking, un desiderio destinato a non realizzarsi mai. Letta e il governo potranno obiettare che il governo italiano ha messo nell'operazione quello che le condizioni della finanza pubblica consentono in questo momento, e il resto dovrà venire dall'Unione europea e da una decisa accelerazione delle politiche pro-crescita. C'è del vero in questa argomentazione, ma essa non toglie che gli sforzi del governo italiano su questo versante sono al momento davvero irrisori.
Capitolo a parte è quello della spesa sanitaria. C'è una leggenda metropolitana messa in giro dai difensori della spesa pubblica secondo cui in Italia la spesa sanitaria è inferiore di 1 o 2 punti percentuali rispetto alla spesa sanitaria di Germania, Francia e in genere i Paesi della UE. Nessuno di questi difensori ferma mai il suo sguardo sulle tabelle del PIL: quello italiano è in caduta libera da alcuni anni di 2 o 3 punti percentuali rispetto a quello di altri Paesi europei. Quando il segno negativo sparisce, lascia posto a un frazionale positivo 0,. Nella sanità, terreno di approvvigionamento della politica e fonte di una corruzione senza confini, si può intervenire con tagli mirati ma incisivi. Non si tratta di ridurre i servizi, ma se dopo vent'anni che ci si interroga sul perché una siringa costi 100 a Milano e 500 a Messina o 700 a Napoli e ancora non si è trovata la risposta, vuol dire quanto meno che la politica non intende mettere mano a quel bubbone perché da esso scorre linfa vitale per le casse dei partiti.
In ogni demcorazia moderna, ispirata a criteri di equità e giustizia sociale, il finanziamento dei servizi pubblici collettivi e individuali dovrebbe rispecchiare il più democratico dei principi: lo Stato finanzia in base all'andamento della ricchezza disponibile. Se nel 2013 il Pil  è sceso del 2,8% lo Stato dovrebbe ridurre della stessa percentuale il finanziamento per la sanità, il trasporto pubblico ecc. Altrimenti è stata una solenne presa in giro l'aver introdotto in Costituzione, all'art. 81, l'obbligo del pareggio di bilancio.

venerdì 11 ottobre 2013

DRAGHI E SINDACATI DICHIARANO GUERRA ALLE TASSE, LETTA E ALFANO SI TRASTULLANO CON LA STABILITÀ


di Massimo Colaiacomo 

Come ogni anno liturgico, anche il governo italiano rispetta il calendario quando bussa alle porte la Legge di stabilità, il provvedimento di finanza pubblica che ha preso il posto del Def (Documento di economia e finanza) che, a sua volta, qualche anno fa aveva preso il posto della più semplice Finanziaria. Tanti mutamenti di denominazione, ma la direzione di marcia del debito è rimasta sempre immutata e in costante crescita.
La liturgia degli incontri preparatori con le forze sociali è stata rispettata alla lettera da tutti i protagonisti, così che da qualche giorno a Palazzo Chigi è un viavai di sindacalisti, imprenditori, agenti immobiliari, rappresentanti di ciascuna e di tutte le mille corporazioni di cui è ricca l'Italia. A tutti Enrico Letta ha assicurato che il taglio del cuneo fiscale sarà il cuore della manovra, insieme alle politiche per la crescita.
A tutti, nello stesso tempo, ha ricordato la scarsità di risorse disponibili per fissare traguardi più ambiziosi e questo non sarà possibile fino a quando l'Europa non si scrollerà di dosso l'egemonia rigorista della Kanzelerin e del suo ministro delle Finanze Wolfgang Schüble.
Questo è il racconto, con le varianti del caso, che si sentono ripetere gli ospiti di Palazzo Chigi.
Il racconto, però, da qualche tempo non funziona più. Si è inceppato. E' diventato una cornice troppo labile per contenere la realtà dell'Italia che, come ogni realtà, recalcitra e si vendica contro chiunque si sforzi di concettualizzarla. Se finanche i sindacati si spingono a dire, come ha detto Angeletti, che senza provvedimenti shock di abbassamento delle tasse non si uscirà da questa situazione, evidentemente qualcosa si è rotto, o non gira più nel verso in cui aveva finora girato tenendo in piedi quella gabbia dorata e socialmente costosissima chiamata "concertazione sociale".
Proviamo a chiederci come mai, nel giro di 24 ore, il presidente della Bce Mario Draghi e i sindacalisti italiani si sono ritrovati a invocare (quasi) le stesse cose: giù le tasse e (Draghi) giù la spesa pubblica. Senza decisioni energiche e coraggiose in questi settori, da malferma che è la ripresa potrebbe ghiacciarsi, è stato in soldoni il messaggio di Draghi. Che cosa può voler significare questa coincidenza di messaggi e come essa è destinata a impattare nel mainstream di un Paese sia pure conservatore fin nel midollo come l'Italia?
Di che cosa si è occupata la politica in queste stesse ore? Quali sono stati i commenti dei grandi giornali al discorso pronunciato da Mario Draghi a New York?
Sul primo punto si fa presto: il Parlamento ha licenziato il ddl sul femminicidio; Berlusconi ha invitato il PdL a rinfoderare le armi e rimanere unito; Cuperlo ha formalizzato la propria candidatura alla segreteria del Pd; Grillo si prepara alla resa dei conti con i parlamentari disallineati sull'immigrazione. Commenti ed editoriali ai moniti di Draghi? Zero uguale zero.
Di che cosa si è occupato il presidente del Consiglio Enrico Letta? Si è occupato di "stabilità", la propria e quella dell'esecutivo. Stabili. "Il nostro paese  si salva se avrà istituzioni che funzionano. L'impasse politica che abbiamo subito intorno alle elezioni ha provocato danni, anche economici, al paese. La stabilità è un valore perché crea le condizioni per avere credibilità e fare le riforme strutturali".
Unica voce dissonante ascoltata in queste ore è stata quella di Mario Monti. L'ex premier ha cosparso di british subtlety l'invocazione quotidiana della stabilità: senza le riforme la stabilità è inutile e Scelta Civica è pronta a lasciare il governo.
Letta è prigioniero della sua maggioranza. La stabilità che lui persegue impone prezzi da pagare e costringe Letta a muoversi come in una cristalleria. A chi serve il taglio del cuneo di 4-5 miliardi? Perché in Italia serve nominare un tecnico per la spending review quando negli altri Paesi sono il governo e la maggioranza ad assumersi la titolarità politica dei tagli di spesa? La politica in Italia è debole ma soprattutto è pervasa di populismo e di demagogia. Nessun partito, di destra o di sinistra, ha trovato il coraggio fino a oggi di spiegare agli italiani che il sistema di Stato sociale fin qui conosciuto deve essere superato e drasticamente ridotto, affidando al mercato servizi anche essenziali fin qui svolti dallo Stato. Né Letta né Alfano hanno la forza, e forse neppure il convincimento personale oltre che l'orizzonte politico, per immaginare di cambiare il corso della storia del nostro Paese incidendo in profondità nella spesa pubblica. Per fare un esempio: il Congresso non ha autorizzato l'aumento del tetto del debito al presidente Obama. Come conseguenza, 800 mila dipendenti pubblici dal 1/mo ottobre sono a casa. Circostanza mai destinata ad accadere in Italia.
La verità è che questo esecutivo, come quelli che lo hanno preceduto, punta tutta le sue fiches sulla spinta che può venire all'Italia dalla ripresa internazionale. In attesa di avere un filo di vento alle vele, tutti si trastullano nel tiro al bersaglio contro il rigorismo della Kanzelerin diventata ormai l'alibi dietro il quale si nascondo i governi europei, a cominciare da quello francese finito imballato e privo di ogni visione riformatrice. Letta non è da meno. Si invoca la crescita, ma non si trova la forza per prelevare 50-60 miliardi dalle spese correnti e spostarli sulle spese per investimenti e di sostegno alle imprese. 

giovedì 10 ottobre 2013

GRANDI AMBIZIONI PERSONALI MA CORTA VISIONE POLITICA PER LETTA E ALFANO


        di Massimo Colaiacomo

          Le ambizioni personali sono grandi, come è giusto che sia per protagonisti con la loro anagrafe. Ma sono ambizioni claudicanti, malferme, generate all'interno di quel campo di gioco sempre più asfittico che è la politica italiana. Stiamo parlando del presidente del Consiglio Enrico Letta e del suo "vice" Angelino Alfano. Entrambi freschi di una vittoria politico-parlamentare che promette di dargli ossigeno nuovo per alcuni mesi. Alfano ha "strappato", come si è visto, rispetto al padre politico, una mossa criticata ma che, in fondo, è stata salvifica per Silvio Berlusconi e il PdL altrimenti condannati a un ruolo di minoranza dopo anni da protagonisti sulla scena.
Enrico Letta avrebbe trovato un modus vivendi con Matteo Renzi. Nel senso che il sindaco si troverà la strada spianata per la segreteria del Pd, in cambio, però, non disturberà il manovratore da Palazzo Chigi almeno fino al primo semestre del 2015. Tutto bene per l'Italia? In parte sì, nel senso che l'Araba Fenice della stabilità per qualche tempo se ne sta in gabbia.
Ovviamente è da chiedersi se si tratta di una stabilità che ci porta all'immobilismo oppure le biglie ferme della politica daranno a Letta e Alfano l'ardimento finora neppure mai intravisto per fare quelle scelte coraggiose da pochi invocate e da molti temute. Alcuni atti fanno propendere purtroppo per la prima ipotesi.
Proviamo a spiegare meglio. Il governo si prepara a tagliare il cuneo fiscale, vale a dire il prelievo a due mani che lo Stato fa ogni mese alleggerendo lo stipendio dei lavoratori e facendo pagare oneri pesanti alle loro aziende. Hai un reddito di 3000 euro lordi? In tasca ne arrivano 1700. In sostanza, perché tu possa portare a casa 1700 euro, il datore di lavoro deve metterne 3000 in ballo. Lo Stato è il socio occulto nel rapporto fra lavoratore e azienda e riscuote la sua parte senza colpo ferire.
Il governo pensa di intervenire riducendo la "mano morta" dello Stato di 4-5 miliardi. Quanto va in tasca al lavoratore e quanto rimane nelle casse dell'azienda? Briciole, briciole offensive e umilianti. Nell'ipotesi di un taglio del cuneo di 5 miliardi, essi vanno divisi equamente: 2,5 miliardi ai lavoratori, e altrettanti alle aziende. La popolazione attiva e con contratti in regola è in Italia, secondo stime dell'Inps, intorno ai 21,5 milioni. Quanto va in tasca a ciascuno di essi? Dividete 2,5 miliardi per 21,5 milioni e si scoprirà che ciascun italiano regolarmente al lavoro avrà dal primo gennaio circa 9 euro in più al mese. Moltiplicati per 13 mesi fanno circa 117 euro all'anno. Se l'impresa ha cinquecento dipendenti, risparmiando 9 euro per ciascuno di essi, risparmierà circa 58.500 euro all'anno. Tutto ciò quanto potrà aiutare la ripresa dei consumi o quanto meno l'uscita dalla stagnazione per molte famiglie? E quanto ossigeno in più darà alle aziende alle prese con il credit crunch? Non serve arrovvellarsi molto per trovare una risposta a questa domanda.
Tornano più che mai attuali i moniti a più riprese lanciato da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina dalle colonne del Corriere della Sera quando esortano il governo a prendere il toro per le corna e tagliare il cuneo fiscale di 40 o 50 miliardi di euro. Che significa moltiplicare per 8 o per 10 i vantaggi di lavoratori e imprese rispetto ai 5 miliardi ipotizzati dal governo. Significa cioè che il lavoratore di cui sopra si trova fra 900 e 1170 euro in più in busta paga durante l'anno e quella stessa imprese con 500 dipendenti si troverà in cassa fra 468.000 e 585.000 euro da reinvestire.
Le cifre modeste fin qui circolate a proposito del taglio del cuneo fiscale hanno un effetto leva estremamente limitato, prossimo allo zero, ai fini del mercato dei consumi. Esse non saranno sufficienti neppure a coprire il rincaro dei ticket dei bus in città o qualche imprevisto aumento dell'energia elettrice o del gas.
Dove prendere risorse tanto importanti, infine, è la domanda scontata che una politica allo stremo ripete ogni volta. Sono da prendere dove sono state malamente messe per anni senza vantaggio per nessun cittadino tranne che per i percettori di stipendi erogati per lavori socialmente "inutili". Battute a parte, ma 135 miliardi di spese per beni intermedi (cancelleria, timbri, penne, fax, risme di carta) sono davvero spese incomprimibili riducendo le quali si ferma la macchina amministrativa?
Ultima curiosità: qualcuno sa dire qual è l'azienda che più si avvantaggia dal taglio del cuneo fiscale? La risposta è semplice: lo Stato. Avendo il maggior numero di dipendenti sotto diverse amministrazioni (quella centrale, poi Regioni, Province, Comuni, Enti e aziende pubbliche) lo Stato, risparmiando un minimo di 9 euro al mese per 13 mesi per ciascuno dei circa 4,4 milioni di dipendenti tratterrà in cassa oltre 510 milioni di euro all'anno. Un bel gruzzolo da spendere chissà come. Magari qualcuno penserà anche di ridurre il debito.

sabato 5 ottobre 2013

DUE FRONTI APERTI PER ALFANO, DECISIVO QUELLO DEL GOVERNO

 
di Massimo Colaiacomo
     Il centrodestra, cioè il PdL, ha ancora la forza per imporre al rimpannucciato esecutivo di Enrico Letta il rispetto degli accordi di politica fiscale? Oppure il premier e il ministro Saccomanni si preparano, senza maliziosi obiettivi politici, a decretarne la nullità e quindi a ripristinare (parzialmente) la seconda rata dell'Imu al solo scopo di riportare sotto il 3% il rapporto deficit-Pil? Attorno a queste questioni si giocano un pezzo del loro futuro il governo, Enrco Letta e il PdL a trazione alfaniana.
     Alfano ha messo le mani sul timone, ancora scivoloso, del PdL. Separando la stabilità dell'esecutivo dalla vicenda giudiziaria di Berlusconi, è riuscito a tirare dalla sua parte il predestinato, non più unto dal Signore, nella battaglia interna con la componente radicale. E ha segnato un punto importante a suo favore. Ma la partita di Alfano si gioca su due campi. Se Berlusconi è pronto a sostenerlo, con alcuni paletti, nella conquista del partito, più insidiosa è la partita che lo attende nel governo. Da un paio di giorni, per esempio, il Pd ha preso a tambureggiare sul buco di bilancio da colmare, secondo il vice ministro Stefano Fassina, riesumando la seconda rata dell'Imu, sia pure limitata alle case con una rendita catastale superiore a 750 euro.
     Alfano non può accettare questa impostazione senza compromettere mortalmente la sua battaglia nel partito. Non poteva accettarla fino a ieri, perché contraria alla volontà del suo padre politico; a maggior ragione non può accettarla oggi perché quello che sbrigativamente e fantasiosamente è stato rubricato come un tradimento, acquisterebbe d'improvviso una concretezza terribile. Se Alfano accettasse una sia pur minima inversione di rotta nella politica fiscale del governo, la spaccatura del PdL, fin qui temuta o anche solo evitata, diventerebbe una necessità e la componente "radicale" si troverebbe legittimata a passare all'opposizione dell'esecutivo Letta. Applausi, sul momento, da Letta e Pd per questa spaccatura ma poi, rinsavendo, si troverebbero con un Alfano malconcio e i numeri della maggioranza tornati sul filo del rasoio.
     È ovvio che Alfano eviterà di commettere un errore simile, né si vede chi potrebbe indurvelo dei ministri che lo hanno assecondato nell o strappo. Esiste, nel Pd, e non è meno legittima, la tentazione politica di monetizzare la sconfitta di Berlusconi attraverso un revirement nelle politiche economiche e di bilancio del governo.
     Alfano, Quagliariello e Lupi sanno di dover giocare due partite complesse ma inevitabilmente contemporanee e contro avversari che venderanno cara la pelle. Il Pd sa che senza una frattura del PdL non potrà accontentarsi di mostrare al suo elettorato la testa di Berlusconi. Alfano sa che una frattura del PdL lo renderebbe più debole nella maggioranza, costringendolo a una guerra di trincea con il Pd e i "radicali" PdL dai quali non può aspettarsi nessuno sconto.

martedì 1 ottobre 2013


di Massimo Colaiacomo
   
     Silvio Berlusconi non è Agamennone e di sicuro non sacrificherà Marina-Ifigenia per propiziarsi il favore degli dei. Nel cielo di Berlusconi non ci sono più dei. Il combattente di mille battaglie sta affrontando nel peggiore dei modi l'ultima, decisiva battaglia della sua non breve stagione politica. Berlusconi ha mille e una ragioni per gridare al cielo il furore e la rabbia per la persecuzione giudiziaria di cui è stato vittima per vent'anni. Vittima e insieme beneficiario, se è vero che milioni di italiani lo hanno votato a dispetto, o forse grazie all'ostilità pregiudiziale e antropologica dei magistrati.
     All'ultima battaglia, quella che lo avrebbe dovuto impegnare nel passaggio del patrimonio più grande costruito in questi anni - si parla dell'oceano di consensi elettorali - la sua mente sempre vivida si è appannata, la strategia si è fatta oscillante e il furore ha invaso ogni angolo del suo animo. Con una sequenza micidiale di errori - le dimissioni in massa dei parlamentari, poi quelle dei ministri - è riuscito a infilarsi in una gimcana suicida al punto da mandare in frantumi, come si vede in queste ore, il partito divenuto bacino di raccolta dei moderati e liberali italiani cresciuti e allevati nell'avversione per la sinistra, un tempo comunista e oggi ancora un po'.
     Berlusconi aveva davanti a sé il percorso disegnato da Marco Pannella: dimissioni spontanee dal Senato, indossando così il laticlavio di estremo difensore dell'autonomia del Parlamento rispetto alle ingerenze della magistratura, e, dopo, una grande battaglia nel Paese per la riforma della giustizia. Ha scelto, invece, di inoltrarsi nella boscaglia fitta dei giochini parlamentari, cercando affidavit e rassicurazioni, magari anche ricevendone ma senza sapere che non esistono polizze quando l'angelo sterminatore della Ingiustizia italiana ha segnato lo stipite della tua porta.
     Rovesciare il tavolo della maggioranza e insieme quello del governo sono stati, però, due atti di estrema debolezza politica. Nel gioco degli specchi che foderano le pareti di quel labirinto chiamato politica Berlusconi ha perso se stesso, ha perso soprattutto il contatto con chi in lui aveva identificato un certa idea dell'Italia, arruffona e insieme bonaria, sicuramente briccona e ottimista, diligentemente spensierata e pensosamente noncurante.
     Tutto questo è il passato e pensare di riproporlo con Forza Italia è stato il segnale di chi aveva coltivato dentro di sé una nostalgia profonda di quello che era stato e più non sarà. Votare o negare la fiducia a un Letta-bis ora non cambierà di una virgola il suo destino personale, ma può cambiare il destino personale di milioni di italiani all'improvviso privati di un riferimento nel campo moderato. È difficile capire quanto il secondo aspetto rientri ancora oggi nelle preoccupazioni di un super-Ego cresciuto a dismisura ma anche sgonfiato come un soufflé dalla corte d'Appello di Milano e tramortito dal super-Ego di Antonio Esposito.
     Angelino Alfano deve fare da sé. Voterà la fiducia al Letta-bis, in compagnia di altri 20 o 30 senatori mentre il suo inventore e mentore si interroga come Amleto sull'essenza della vita, di quella politica e di quella agli arresti domiciliari. Alfano dovrà portare sulle spalle un fardello terribile. La separazione dal cordone ombelicale che lo ha nutrito per anni non è di per sé garanzia di una crescita robusta. In politica non ci sono eredità assegnate, perché quei notai esigenti e costosi chiamati elettori  sono diventati nel tempo renitenti al loro mestiere. Senza Berlusconi, dopo Berlusconi, ma come e in che modo contro Berlusconi? Alfano non deve sciogliere un nodo, ma reciderlo con utto. Ogni esitazione lo trascinerà nello stesso destino del padre.

domenica 29 settembre 2013

BERLUSCONI IN RETROMARCIA MA LETTA NON ESAGERI SE VUOLE ANDARE AVANTI

     Le colombe di Forza Italia hanno tirato fuori gli artigli. Il Cavaliere è come Napoleone incalzato dal generale Kutuzov. Se vuole evitare l'umiliazione di una Beresina parlamentare deve macinare politica snebbiandosi la mente dall'incubo della decadenza.

di Massimo Colaiacomo

     La swing policy fin qui seguita da Silvio Berlusconi nei confronti del governo ha lasciato molti cocci sul terreno. Se è vero che la scorsa notte è riuscito a dormire oltre 10 ore per la prima volta dopo 59 notti insonni, è pur vero che agli italiani deve aver tolto il sonno la giornata al cardiopalmo di ieri. I ministri del PdL dimissionari, una maggioranza accartocciata e quasi cestinata, hanno aperto crepe difficilmente ricomponibili sul piano politico. Però, si provi a guardare alla parte mezzo piena del bicchiere: il 4 ottobre, giorno che Berlusconi considera del Giudizio universale dal momento che la Giunta del Senato voterà la sua decadenza, potrebbe paradossalmente diventare il giorno del riscatto del centrodestra. Letta ha bloccato il decreto che doveva congelare l'aumento dell'Iva ma una ricomposizione della maggioranza, sempre possibile e sempre meno improbabile, potrebbe sbloccare lo stallo e Berlusconi, nel ruolo di martire che interpreta magistralmente, potrà mostrarsi come colui che rinunciando alla battaglia per la sua libertà si è sacrificato per il bene del portafoglio degli italiani.
     È una lettura, lo so, poco politica delle convulsioni di queste ore, ma per un personaggio imprevedibile e sempre desideroso di épater les bourgeois potrebbe essere la chiave giusta per comprendere capriole dialettiche altrimenti incomprensibili. Berlusconi ha la psicologia dell'uomo solo al comando,taggi e gli handicap del caso: può essere rapido nelle decisioni, ma anche rovinoso se sbaglia il calcolo delle conseguenze. Il che è esattamente quanto è accaduto ieri.
     Il Cavaliere è impegnato in queste ore in una difficilissima retromarcia, paragonabile per danni politici alla ritirata dell'esercito napoleonico quando, giunto a Mosca, trova la città bruciata e torna sui suoi passi per farsi decimare dalla fame, dal freddo e dalle battaglie ingaggiate dal generale Kutuzov.
     Letta si ritrova ora, paradosso di queste ore, il vento alle vele. Può alzare la voce, ma non deve esagerare se vuole rimettere insieme i cocci e riprendere la navigazione. Avendo chiaro che soltanto il ricompattamento di questa e non di un altra maggioranza può aprirgli la strada per altri mesi di governo. La trasformazione dell'esecutivo da governo di servizio in governo elettorale gli sarà resa impossibile dal suo Pd e in particolare da Renzi.
     Se a Letta è consigliabile di non esagerare, a Berlusconi si può suggerire di volare basso. Il PdL non è più diviso tra falchi e colombe ma rischia, da domani, di essere diviso tra chi lascia e chi rimane. E a lasciare non sarebbero pochi. Il Cavaliere lo sa ed è corso ai ripari nel modo che si è visto in queste ore. Potrà mascherare la sua ritirata con qualche espediente tattico, ma non potrà negarla. Non potranno negarla soprattutto i cosiddetti falchi, si chiamino Verdini o Santanchè o Capezzone: dopo l'affondo e il viso delle armi, saranno loro i veri sconfitti. Le colombe hanno tirato fuori gli artigli e ai fafalchino resta che travestirsi da pecore se vogliono assicurata una qualche sopravvivenza politica. Nel PdL si stanno scontrando ambizioni e destini personali e la linea politica è poco più di un paravento. La scalata di Santanchè ai vertici del partito è fallita per la semplice ma non irrilevante ragione che essa rischia di portare il partito al fallimento e Berlusconi, se vuole tenere unito il PdL oggi e domani Forza Italia, dovrà ratificare questo risultato nella riunione dei gruppi parlamentari convocati per domani pomeriggio.

sabato 28 settembre 2013

L'AZZARDO DI BERLUSCONI IN UN SISTEMA ALLO SFASCIO


di Massimo Colaiacomo

     L'imprevisto, ma non imprevedibile, è accaduto. Silvio Berlusconi, si dice dopo aver saputo da Ghedini che erano in partenza ordini d'arresto nei suoi confronti, ha intimato ai ministri del PdL di dimettersi. Un gesto traumatico, figlio di una condizione disperata e di una condizione personale di forte sofferenza. Ha sbagliato? Ha fatto bene? Si potrà valutare dalle mosse successive perché in politica non esiste, come negli scacchi, la mossa risolutiva. Le dimissioni dei ministri precipitano il PdL in una condizione di isolamento politico e, sul piano mediatico, di sicura sofferenza. Ma, come si diceva, la politica è un arte in continuo divenire. La reazione di Enrico Letta ha sorpreso non meno delle dimissioni dei ministri del PdL. Il premier che usa parole taglienti non manifesta soltanto l'irritazione personale ma denota anche una condizione di impotenza rispetto agli sviluppi. Letta ha parlato stasera come un politico che sente di non avere ponti alle proprie spalle. Rimettere insieme la stessa maggioranza significa per Letta pagare un qualche prezzo sul piano programmatico (per esempio, la riforma della giustizia, invocata anche dal presidente della Repubblica).
     Una spia che gli eventi stessero precipitando si è avuta in mattinata quando il presidente Napolitano, in visita al carcere di Poggioreale, ha ripreso, quasi a freddo, il tema dell'indulto e dell'amnistia. Gli osservatori vi hanno letto il tentativo di socchiudere la porta per lasciar sfiatare gli umori sempre più densi e neri del Cavaliere. È invece probabile che Napolitano, avvertito delle intenzioni di Berlusconi, ha compiuto un ultimo affannoso tentativo di moral suasion.
     Berlusconi ha sbagliato i suoi calcoli? Oppure il suo azzardo è il risultato di un ragionamento politico su tempi più lunghi? Potrebbe avere sbagliato, per due ragioni: l'impatto mediatico, e sui mercati, è sicuramente negativo per l'Italia e pesantemente negativo per i consensi del PdL. Potrebbe invece aver fatto un calcolo più ambizioso. Il governo ha lasciato aumentare l'IVA e presto tornerà l'IMU con la sua seconda rata. Questi sono i primi prezzi sul conto di ogni famiglia italiana. Ma altri si preparano, con la ripresa dello spread e l'ulteriore riduzione del credito alle imprese.
     Enrico Letta che cosa potrà dire e fare martedì in Parlamento? Intanto, non potrà più dire prendere o lasciare. Per la ragione che i ministri del PdL hanno già scelto la seconda opzione. Davanti a Letta si aprono due strade: ricomporre la maggioranza, facendo concessioni al PdL sul piano del programma, magari affrontando la riforma della giustizia definita "gravemente malata" da Nichi Vendola; oppure tirare dritto, dimettersi e tornare in Parlamento a cercarsi una maggioranza ancora più raccogliticcia. Per fare che cosa? La riforma della legge elettorale? Con chi, se Grillo e Casaleggio hanno già detto che è meglio andare a votare con il Porcellum? C'è poi un ulteriore risvolto personale: Letta non rischia, con un governicchio rabberciato, di aprire un'autostrada a Renzi e precludersi ogni chance di restare in campo da protagonista?
     La reazione irritata di Letta alle dimissioni dei ministri del PdL è la spia di un uomo in affanno, ferito nelle sue ambizioni e malmesso nella sfida con Renzi. Questo non significa che Letta non provi anche una sincera afflizione per le conseguenze che la frantumazione del quadro politico provoca al Paese e agli italiani. Ma in circostanze drammatiche come questa è sempre la preoccupazione per il proprio destino personale che ha il sopravvento su tutto. Berlusconi non vorrebbe andare agli arresti domiciliari. Allo stesso modo Letta non vorrebbe chiudere in modo inglorioso la propria carriera non proprio recente. Mentre Renzi scalpita, come è ovvio, per lasciare la panchina nella quale rischia di rimanere a lungo.
     Letta può scegliere la strada coraggiosa di recarsi in Parlamento, e lì rilanciare lae sul piano del programma. Certo, la riforma della giustizia ricompattarebbe il PdL e nello stesso tempo spaccherebbe il Pd. Letta ha provato, su mandato di Napolitano, a mettere insieme uomini e storie per vent'anni su barricate diverse e sempre generosi nello spararsi addosso.
     La crisi di governo è la somma di più crisi: della rappresentanza parlamentare, debilitata dal Porcellum; delle istituzioni, poiché l'esercizio solitario di un potere abnorme da parte del Capo dello Stato ha accentuato il distacco fra la volontà popolare e i poteri decisori; della "ruling class" italiana, ridotta dalla globalizzazione al ruolo di circolo per anziani. Sono tutte queste crisi che si possono leggere stasera dietro i miserevoli fatti di un'altra inutilmente incendiaria giornata di politica italiana.