giovedì 28 agosto 2014

IN EUROPA SI TAGLIA OVUNQUE LA SPESA, RENZI ASSUME 100 MILA INSEGNANTI

Massimo Colaiacomo

La parola austerità ha una strana declinazione in Italia, eccentrica sicuramente rispetto al resto dell'Unione europea. Dal Regno Unito alla Germania, passando per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda essa ha significato, dal 2008 in avanti, tagli draconiani alla spesa pubblica, riduzione del personale pubblico a tutti i livelli e, ove possibile, riduzione delle tasse su imprese e persone.
Il vulcanico premier italiano, titolare pro tempore del terzo pubblico al mondo, ha imboccato la direzione contraria come succede a qualche sbadato quando entra in autostrada. Il crash non è sicuro, se Renzi saprà in tempi brevi invertire la rotta. Purtroppo, per come si sono messe le cose, sembra che anche Renzi abbia deciso di andare a sbattere come i suoi predecessori Monti e Letta.
Che idea si faranno Mario Draghi e Wolfgang Schaüble dell'azione di governo dal lato della finanza pubblica leggendo di 100 mila insegnanti da stabilizzare nelle scuole italiane? La metà di essi dovrebbe essere presa dalle graduatorie di vecchi concorsi, il che significa che si tratta di concorrenti che non avevano superato la prova. Bene: e la meritocrazia sbandierata da Renzi che fine ha fatto?
Nel luglio del 2015 verrà a scadenza il meccanismo dell'OMT (Outright monetary transaction), voluto caparbiamente da Mario Draghi nel luglio 2012 con il famoso annuncio che impegnava la Bce whatever it make, a fare qualunque cosa fosse necessaria per impedire la disintegrazione dell'euro.
Quel meccanismo altro non era se non l'acquisto di tempo da parte della Bce che si impegnava a sostenere il corso dei Titoli di Stato dei Paesi indebitati, comprando i titoli sul mercato secondario, così da concedere tempo ai rispettivi governi per fare le riforme strutturali. Nei due anni trascorsi non una sola delle riforme necessarie è stata fatta, nel senso che è stata approvata e resa operativa con i decreti attuativi. Mercato del lavoro, riforma della P.A., riforma delle agenzie del lavoro, della scuola: nulla di fatto su tutti i fronti.
Il governo Renzi naviga a vista, a dispetto della girandola di annunci quotidiani, si direbbe ad horas, stretto come è dalle mille contraddizioni del PD e privo di un'opposizione di destra davvero liberale, europea e riformista. Il populismo di Renzi non solo non trova contrasto nell'opposizione, ma si alimenta anzi del populismo di Berlusconi che ha tracciato una strada ampia sulla quale, con l'eccezione parziale di Monti, si sono incamminati tutti i governi. È come se l'Italia, prigioniera dell'eterna incertezza della sua ruling class, preoccupata unicamente di salvare se stessa, avesse già deciso di gettare la spugna e uscire dal ring europeo.
Come ha dimostrato Giancarlo Elia Valori in un'analisi lucida su Formiche.net, non c'è bisogno di alcun Redemption Fund European poiché la proprietà di migliaia di nostre piccole e medie imprese è già passata nelle mani di imprenditori tedeschi, olandesi o inglesi. L'Italia non è e non sarà svenduta per volontà di "circoli" finanziari internazionali (la sirena del complottismo che tanto piace evocare a Berlusconi e alla destra italiana) ma è stata svenduta a causa del fallimento del suo ceto politico. Se Renzi vuole assicurare il posto a 100 mila insegnanti-elettori evidentemente non ha escluso dal suo orizzonte il ricorso alle urne nella primavera 2015, una volta approvata la riforma elettorale e la riforma del Senato, inutili entrambe per salvare l'Italia ma utilissime per salvare il ceto politico.

Non è antipatriottismo, a questo punto, sperare che sia la trojka economica a prendere il timone delle operazioni in Italia per farne un Paese europeo, cioè "normale" come tutti gli altri. 

martedì 26 agosto 2014

RENZI E L'ITALIA PIÙ SOLI IN EUROPA

di Massimo Colaiacomo

Ha giustamente osservato Antonio Polito sul Corriere della Sera di oggi che chiunque sia al governo in Francia "Parigi non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania". Il riferimento è alla grave crisi di governo che ha portato alla sostituzione del ministro dell'Economia, fiero avversario dell'austerità made in Germany. Quasi nelle stesse ore del licenziamento di Montebourg, Angela Merkel, ospite di Mariano Rajoy a Santiago de Compostela, sua città natale, accoglieva con entusiasmo la candidatura del ministro del'Economia spagnolo, De Guindos, quale successore dell'olandese Dissjelbom nel ruolo di presidente dell'Eurogruppo.
Che cosa è accaduto fra Parigi e Santiago de Compostela? Una cosa molto semplice: Francia e Spagna sono allineate con Berlino sulla politica di austerità fiscale. Rajoy ha già fatto i compiti, Hollande si prepara a farli con provvedimenti economici ancora da definire ma sulla cui incisività, dopo il licenziamento del riottoso Montebourg, non è lecito dubitare. L'Italia di Matteo Renzi da ieri è più sola nell'Europa politica. Renzi non ha cambiato verso all'Europa, come aveva più volte anunciato, non si sa se con più presunzione o più ingenuità, e ora è l'Europa che si prepara a cambiare verso all'Italia. Il legame più forte, ma anche più condizionante, rimane quello con il governatore della Bce. L'idea bislacca di Romano Prodi e, a quanto pare, di Silvio Berlusconi, frutto della furbizia levantina dei due personaggi, di costituire un asse mediterraneo per arginare la politica fiscale di Berlino è fallita miseramente. Pochi si erano accorti che a giugno, al vertice dell'Eurogruppo, la Spagna aveva opposto un netto rifiuto alla richiesta italiana di rinviare al 2016 il pareggio di bilancio.
Rajoy ha fatto digerire due anni di austerity fiscale agli spagnoli, ha risanato i conti grazie alla moratoria concessa dall'Europa ma ripagata da Rajoy con riforme coraggiose, soprattutto nel mercato del lavoro ma anche con licenziamenti nella pubblica amministrazione e un taglio degli stipendi nel pubblico impiego. Soltanto un ingenuo - e Prodi e Berlusconi non lo sono - poteva immaginare che Rajoy potesse concedere a Renzi quel che lui si era dovuto guadagnare sfidando le piazze piene di indignados.
Il ceto politico italiano è inguaribilmente votato al populismo. Quando Draghi aveva accennato, prima di Ferragosto, alla necessità di cedere "quote di sovranità nazionale" all'Europa, e dunque alla Commissione e alla Bce, per fare le riforme struturali a chi altri se non all'Italia correva il suo pensiero?
L'ipocrisia è la leva a cui si aggrappa il ceto politico italiano per esorcizzare gli scenari più cupi. Non è forse ipcrita la destra che si straccia le vesti quando viene evocata la costituzioe di un Redemption Fund per l'Italia in cui far confluire gli asset più importanti dello Stato per alleggerire il debito pubblico? Bene, nessuno vuole svendere lo Stato, ma il governo che cosa aspetta allora a prendere le misure drastiche per raddrizzare la rotta del Paese? Invece di girare attorno all'art. 18 e strepitare contro la discussione ideologica e il totem e i tabù, perché Renzi, come fece Schröder nell'agosto 2003, non riunisce il Consiglio dei ministri e dichiara unilateralmente decaduto l'art. 18 delo Statuto dei lavoratori anziché aggirare l'ostacolo e allungare i tempi in attesa di una riscrittura dello Statuto?
L'Italia è da oggi più sola in Europa, il Pd è più isolato nella famiglia dei socialisti e Forza Italia è addirittura in quarantena dentro il Ppe. L'Italia è sicuramente un grande Paese, come ama ripetere Renzi, ma il suo problema è il ceto politico composto da personalità unfit, si chiami il premier Berlusconi o Renzi.

giovedì 21 agosto 2014

LA JIHAD CHE È IN NOI

di Massimo Colaiacomo

Le Chiese, quelle cattoliche, sono vuote. Pochi i fedeli che si recano a Messa la domenica. Una stima della Cei, alcuni anni fa, calcolava in circa 7 milioni i cattolici che frequentavano la Chiesa nel giorno dedicato a Dio. Pochi rispetto ai circa 23-24 milioni degli anni Sessanta. Quel numero segnala l'avvenuto processo di secolarizzazione della società italiana ma in generale dell'Occidente scristianizzato. Un grande Papa come Benedetto XVI aveva capito l'insidia luciferina di quei numeri ed era corso ai ripari, o così credeva, nominando mons. Rino Fisichella responsabile dell'evangelizzazione in Europa. La Chiesa globalizzata di Papa Wojtyla non si era accorta di aver perso le radici proprio dove era nata.
Il discorso di Ratzinger a Ratisbona, non meno della sua lectio magistralis al Bundestag nell'autunno 2011, venne salutato da una salva di critiche poiché per la prima volta un Pontefice romano aveva sostenuto che le religioni, tutte meritevoli di rispetto e ciascuna dignitosa nella propria ricerca della trascendenza, non erano per questo tutte uguali. Ratzinger aveva cercato di portare la teologia cristiana fuori dalle secche del relativismo di una globalizzazione che tende a fare di tutte le erbe un fascio. Lo stesso Dio dei cattolici, degli ebrei e dei musulmani - era il succo del discorso di Benedetto XVI - non può suggerire la carità agli uni e indurre gli altri a cercare il martirio uccidendo un fratello diverso nella fede.
L'Occidente secolarizzato non può porsi domande scomode perché ciò comporta una notevole perdita di tempo nella ricerca di risposte che non sono più scontate. Non si trovano su internet o su un qualsiasi sito on line. La secolarizzazione di una società non è mai un fenomeno indolore poiché comporta un travaso di valori, e più spesso una loro distruzione, e mette a disposizione degli individui vie di fuga le più impensate. Perché, allora, una società secolarizzata e scristianizzata avverte il bisogno di valori spirituali e li trova nell'islamismo o nel buddhismo o in qualsiasi altra religione ma non più in quella cristiana e nelle sue varianti protestante o evangelica?
La confusione fra secolarizzazione e fine della vita spirituale ha prodotto quel fenomeno che tutti vediamo e di fronte al quale solo gli ingenui sgranano gli occhi per la sorpresa: la jihad fa proselitismo nel cuore di una società un tempo cattolica o protestante. È un proselitismo sui generis, poiché alla spinta spirituale si associa un'evangelizzazione ideologica contro l'occidentalismo e in genere contro le società ricche e opulente. Un cocktail simile viene servito da qualche decennio in tutti i Paesi della vecchia Europa e in America, nei modi e attraverso canali i più diversi. Certo l'immigrazione ha il suo peso, ma non è risolutivo. Una persona che crede in una causa, si infervora in sua difesa e infervora chi lo ascolta, ha una forza di persuasione incredibile e incontenibile per chi vive in una società senza più altra rotta che non sia il benessere materiale.
Aveva ragione Arturo Graf, storico piemontese dell'Ottocento, quando osservava, a proposito delle cause dei conflitti fra i popoli, che esse non vanno quasi mai cercate nei bisogni materiali dell'uomo. "Terribile e incoercibile - scriveva Graf - è la forza delle cose che non furono, non sono e non saranno". La fede, le idee, i valori ideali sono le molle più potenti che spingono l'uomo ad aggredire i propri simili.
James Fowley è stato decapitato. Un coltello, invece di un colpo di pistola alla testa, ha una forza evocatrice straordinaria perché è un altro uomo, con le sue mani, ad uccidere un proprio simile. La pistola o una raffica di kalasnikhov sarebbero state una mediazione meccanica che privava l'uccisione di Fowley della ritualità e della ferocia primitiva del gesto.
La jihad è destinata a crescere in Occidente, a fare nuovi proseliti in Gran Bretagna e altrove. La sua forza è nel deserto di valori spirituali e morali cui è ridotta questa parte del mondo. Loro credono in una cosa, noi crediamo in troppe cose per credere anche a una sola di esse. Le religioni non sono tutte uguali e il Dio di Abramo e di Isacco non può essere lo stesso Dio che ordina ai jihadisti di sgozzare i cristiani. Sarà bene che la Chiesa prenda consapevolezza piena di ciò che sta accadendo e non trasmetta, invece, nuovi segnali di resa culturale e spirituale.


martedì 12 agosto 2014

AUTUNNO DI SCELTE PER EVITARE L'AUTUNNO DEL GOVERNO

di Massimo Colaiacomo

Matteo Renzi può concedersi una breve pausa estiva e godersi la soddisfazione della riforma del Senato. Ha messo a segno, è innegabile, un punto importante nella sua strategia del cambiamento. Un punto che lo rafforza dentro la maggioranza parlamentare e che rende agevole gli altri passaggi della riforma prima che questa diventi norma costituzionale. Questo, però, è un percorso, per così dire, che disegna l'Italia che verrà per le nuove generazioni. Alla ripresa autunnale Renzi dovrà mettere la testa sulle difficoltà presenti di un quadro economico periclitante sul quale si addensano nuvoloni carichi di pioggia. L'outlook di Moody's che prevede un 2014 con il segno meno del Pil è un campanello d'allarme da non sottovalutare ma neppure da enfatizzare come qualche oppositore ha fatto.
Le difficoltà strutturali dell'economia italiana sono oggi le stesse di tre o cinque anni fa: le mancate riforme del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione sono la zavorra che rende difficoltosa qualsiasi ripresa economica. La riforma delle pensioni di Elsa Fornero, tanto vituperata a suo tempo, è stato quasi svuotata dalle 6 deroghe di questi ultimi due anni. Renzi dovrà dissodare un terreno accidentato e reso sterile dai veti politici e corporativi. La riforma della P.A. licenziata dalla Camera è uno strumento ridicolo. L'idea di rottamare i dirigenti derogando alla legge Fornero e quindi con pensionamenti anticipati, è semplicemente folle. Si sposta in questo modo il debito dallo Stato all'Inps, per poi accrescerlo assumendo 15 mila giovani.
Una frase è sfuggita a Renzi qualche giorno fa, in un colloquio con La Stampa. "Lo Stato non crea lavoro - ha detto - ma deve crare le condizioni migliori perché le imprese possano crescere e dare lavoro". Una frase quasi simile fu la risposta che Alcide De Gasperi diede, nel gennaio 1953, all'allora ministro dell'Agricoltura Amintore Fanfani il quale si era recato da lui per perorare un aumento delle tasse e la creazione di posti di lavoro da parte dello Stato.
Quella frase pronunciata da Renzi lascerebbe pensare a un aggiustamento di rotta, se non di strategia, da parte dell'esecutivo. Certo, Renzi deve far di conto con una parte della sua maggioranza che, al contrario, pensa ancora allo Stato come datore di lavoro per chi un lavoro non ce l'ha. A parte poi l'affermazione di principio, si tratterà di vedere come Renzi affronterà in concreto il tema del lavoro. Il jobs act è stato congelato alla Camera e trattandosi di un ddl delega ha tempi di attuazione piuttosto lunghi e incompatibili con le urgenze della questione.
Renzi deve cercare un altro percorso, più veloce per essere al passo con i problemi. Anticipare parte dei contenuti del jobs act con il ricorso al decreto legge potrebbe creare tensioni nella maggioranza, soprattutto se Ncd dovesse insistere sull'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Ignorare questa richiesta da parte di Renzi verrebbe interpretato come un segno di ostilità da parte di Alfano ma, nello stesso tempo, impedirebbe il soccorso di Forza Italia all'esecutivo essendo Berlusconi dello stesso avviso di Alfano.

C'è poi il capitolo dei tagli alla spesa pubblica. Ancora non si vede neppure l'ombra dei 4 miliardi di risparmi ipotizzati dal commissario Carlo Cottarelli. Risparmi che dovrebbero salire a 15 nel 2015 e addirittura a 32 miliardi nel 2017. Si tratta di interventi molto profondi nella struttura della spesa per realizzare i quali Renzi deve poter contare su una maggioranza parlamentare molto coesa. Ogni incertezza su questo versante verrebbe seriamente punita dai mercati con riflessi onerosi per il debito pubblico. Come si vede, a mano a mano che ci si inoltra nel cammino autunnale si apre per Renzi la questione della "tenuta" politica della sua maggioranza. Su questo varco lo aspettano Berlusconi e Forza Italia. L'ex Cav. manda segnali in direzione dell'esecutivo, ma non più di tanto. La coesione dei gruppi parlamentari non è uscita incrinata più di tanto al Senato e Berlusconi non ha fretta: può guardare gli sviluppi della situazione e decidere con tutta calma. Renzi e Berlusconi sono divisi su un punto strategico rilevante: Renzi vuole raggiungere i suoi obiettivi senza sforare il 3% nel rapporto deficit-Pil; Berlusconi mantiene intatta la sua sfida all'Europa e sostiene, con Giavazzi e Alesina, la necessità di sforare temporaneamente quella soglia per avviare le riforme radicali necessarie all'Italia. La fedeltà renziana ai parametri di Maastricht non è un eccesso di zelo, ma un espediente per attenuare l'impatto delle riforme che Mario Draghi, invece, vuole incisive e radicali. Per un paradosso del caso, quindi, è Berlusconi a farsi più europeista di Renzi.