martedì 30 aprile 2013

COESI SU CONTESTAZIONI UE, MA DIVISI SU POLITICA ECONOMICA: PER LETTA STRADA SUBITO IN SALITA

di Massimo Colaiacomo

     Si comincia a intravvedere la linea strategica attorno alla quale il presidente del Consiglio Enrico Letta cerca di imbastire l'azione del governo. I due interventi in Parlamento, in particolare quello di ieri alla Camera, hanno delineato due differenti approcci del presidente nei confronti della sua maggioranza. Ciascuno di essi comporta, naturalmente, dei rischi per la stabilità di governo. Vediamoli. Letta ha dato la netta impressione di puntare a una forte coesione politica aprendo un fronte di contestazione verso la UE per chiedere la revisione del Fiscal compact o, almeno, un alleggerimento del Patto di stabilità interno. Su questo versante, che tanto costò a Silvio Berlusconi in termini di credibilità, Letta si muove né più né meno come il Cavaliere. Segno che le feroci critiche della sinistra al governo Berlusconi accusato di essersi isolato in Europa erano quanto meno strumentali. Diversamente dal Cav, però, l'attuale presidente, figlio e diligente allievo di quella straordinaria scuola politica che è stata la Dc, prepara il terreno conflittuale con l'Europa alzando la bandiera dell'europeismo e della fede dell'Italia nelle prospettive dell'unità politica della UE. Su questo terreno, è ovvio, Letta incontra solidarietà convinte che vanno oltre il perimetro della maggioranza.
     Quanto poi questo cemento sia capace di unire ciò che è diviso, e anche aspramente, sul piano del programma di governo resta tutto da verificare. E l'IMU si presenta come un caso di scuola. Su questo punto non si può nascondere che l'arte democristiana della simulazione e della dissimulazione non sarà di grande aiuto a Letta. Il fatto di aver chiamato ieri una sorta di time-out sull'IMU annunciando che a giugno non si pagherà ma che non per questo si deve considerare abolita, ha mostrato la fragilità della posizione del governo stretto fra le richieste perentorie del PdL e la contrarietà sorda del Pd favorevole, come si sa, all'abolizione dell'IMU solo per gli importi pari o inferiori a 500 euro.
     Il governo ha mostrato quanto meno di non avere ancora le idee chiare sul da farsi e questa circostanza rivela la strada tutta in salita per un esecutivo che sarà costretto a fare della mediazione il suo ossigeno vitale. E mediazione, per la DC, ha spesso se non quasi sempre significato rinviare ogni decisione a un tempo indeterminato.
     Non è poi da sottovalutare un altro aspetto. Quasi a voler rassicurare la sua maggioranza, LEtta ha fissato un orizzonte temporale per il suo esecutivo indicando nei 18 mesi necessari per varare le riforme costituzionali il termine massimo di sopravvivenza. Meglio: ha argomentato, in modo non è chiaro se più tattico o ingenuo, spiegando che se entro 18 mesi non saranno state approvate le riforme più attese (riforma della legge elettorale; riduzione del numero dei parlamentari; riforma del finanziamento pubblico dei partiti; abolizione delle province; legge sulla corruzione) egli sarà pronto a trarne le conseguenze. In sostanza, Letta ha avviato un timer sul quale chiunque, alleati o avversari, può agevolmente costruire la propria strategia conoscendo in largo anticipo la procedura da seguire per scaricare il governo.
     Uniti per chiedere le modifiche alle costrizioni troppo severe degli accordi europei, e pronti a lasciare senza l'approvazione delle riforme: in mezzo a questi due estremi c'è o dovrebbe esserci lo svolgimento di un programma di governo imperniato su politiche economiche e sociali in grado di rianimare una crescita da troppi anni sparita dai monitor dei governi.
     Letta ha richiamato tutti al realismo e alla durezza di una crisi nient'affatto al suo epilogo. Nella replica al Senato, il presidente del Consiglio è stato guardingo, quasi a voler riequilibrare l'agenda di impegni annunciata ieri alla Camera con qualche accento ottimistico di troppo. Al punto che perfino Umberto Bossi ha avuto buon gioco a chiedere: sì, va tutto bene, ma dove sono i soldi per fare migliori politiche sociali, rimborsare le imprese e ridurre la pressione fiscale? Quei soldi non ci sono o, se ci sono, restano chiusi nei bilanci saldamente inchiodati dalle ferree regole del fiscal compact. Come a dire, tutto si può fare se l'Europa ci autorizza a farlo. E' un versante infiammabile questo scelto dal governo. Si rischia, per questa via, di ritrovarsi esattamente dove l'Italia era due anni fa. All'epoca dei sorrisini denigratori scambiati da Merkel e Sarkozy in danno di Berlusconi.
     Letta dovrà inventarsi una via d'uscita "alta" agli impegni, per la verità vaghi e generici, annunciati in Parlamento. La situazione rimane fragile, e su questo è difficile dar torto al premier. Ma pensare di venirne a capo con un colpo al cerchio e uno alla botte rischia di farla deragliare. Letta non ha molto tempo davanti a sé per agire e mettersi subito al riparo dai veti incrociati che i partiti alleati hanno già alzato. Accettarne uno significa accettarli tutti e condannare l'esecutivo all'impotenza. E i 18 mesi per le riforme potrebbero rivelarsi un tempo infinito   

domenica 28 aprile 2013

COLPI DI PISTOLA NEI DINTORNI DI PALAZZO CHIGI, NON E' SARAJEVO NE' IL PALAZZO D'INVERNO MA UN BRUTTO SEGNALE IN UN BRUTTO PAESE

di Massimo Colaiacomo

     Luigi Preite, 49 anni, ha sparato contro due carabinieri in servizio a Palazzo Chigi. Sarebbe da escludere che abbia scambiato Palazzo Chigi per il Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo. Lo sparatore e le tre vittime (la terza è una donna colpita di striscio) hanno riportato ferite non letali. Preite è stato licenziato da poco tempo. E' stato licenziato anche dal ruolo di marito. E' stato vittima di un uno-due terribile per chiunque. Però, diversamente da altre persone incappate come lui nella stessa drammatica circostanza, Preite si è armato di pistola, è salito in treno e dalla Calabria natale si è trasferito a Roma. Una volta nella Capitale ha deciso di portarsi sotto Palazzo Chigi e lì scaricare la sua pistola contro due carabinieri di servizio in uno dei varchi che delimitano lo spazio della piazza. Un folle? Se questa tesi è vera, allora siamo in presenza di una follia lucida, pianificata, costruita con calcolo meticoloso.
     Quella di Preite, potrebbe sentenziare certa sociologia da tot a chilo, è l'esplosione della rabbia di una persona contro la quale la vita si è accanita devastando il suo equilibrio complessivo. Vero? Sì, ma soprattutto no. Di Luigi Preite se ne trovano decine di migliaia in giro per l'Italia: alcuni, come lui, armati; altri invece disarmati. Qualcuno pronto, come Preite, a trovare un percorso clamoroso e drammatico per sfogare rabbia e frustrazione sociale. Molti altri, invece, licenziati o lasciati dalla moglie, sono pronti all'autopunizione perché considerano se stessi colpevoli di quelle circostanze avverse.
     Preite non è un folle. Né tantomeno può considerarsi, come ha detto con incredibile superficialità la presidente della Camera Laura Boldrini, una vittima che si è fatta carnefice e rispetto al quale la politica deve trovare le risposte. Vedere tanta leggerezza, non dico di giudizio ma di analisi politica da parte della terza carica dello Stato, fa correre qualche brivido lungo la schiena. Sarebbe dunque la mancata risposta della politica al dramma della disoccupazione la molla che ha spinto Preite a sparare contro due carabinieri? Il gesto di Preite sarebbe quindi da considerare un atto politico rilevante e il suo autore "un prigioniero politico" come si consideravano i brigatisti?
      Duole dirlo, ma la signora Boldrini ha aperto bocca per mostrare i denti e sicuramente senza aver prima inserito il cervello. E' facile immaginare lo squillo del suo telefono e all'altro capo del filo la voce stentorea del presidente della Repubblica.
     Preite nel ruolo di "un compagno che sbaglia" è un'immagine stantia e remota. E' il dagherrotipo di un'Italia sconfitta ma mai morta. Laura Boldrini non sa o, se sa, ha dimenticato che il PCI si infognò in questo errore di giudizio considerando le Br alla stregua di compagni che sbagliano finché scoprì il volto truce del terrorismo allorché, nel gennaio 1979, uccisero un operaio genovese, Guido Rossa. Quell'assassinio aprì gli occhi ai ciechi e i compagni in errore divennero terroristi.
     E' da escludere che Preite sia un terrorista. E' invece sicuro che Preite ha respirato, come milioni di altri italiani, l'aria avvelenata di una contesa politica impegnata da troppo tempo ad avvelenare i pozzi, a demonizzare partiti e persone. Sa dire qualcuno quale sia la differenza fra il lessico dell'odio che circola e trasuda da alcuni siti web e le parole di un "cattivo maestro" come Toni Negri accusato dal pm Pietro Calogero di fomentare il terrorismo attraverso il centro Hyperion di Parigi? Una differenza c'è: Toni Negri era un principe della dialettica sovversiva, una persona colta nella sua aberrazione morale. Gli odiatori di oggi hanno come livello scolastico più elevato il web. Il loro master si chiama Wikipedia o poco più.   
     Grillo ma non solo. Il grillismo in tutte le sue declinazioni e ramificazioni. Le manifestazioni di intolleranza che spopolano nei programmi televisivi dove dietro la cortina dell'ironia e dell'irrisione si scorge qui e là un sentimento di rancore e di disprezzo verso i diversi attori della vita politica e istituzionale. Accuse mai provate, processi mai celebrati ma con gli imputati già condannati cos'altro devono considerarsi se non un introibo alla legittimità della violenza fisica? Quando la responsabilità oggettiva della politica viene trasformata in responsabilità penale soggettiva del politico che non trova i soldi per la cassa integrazione, che veste può assumere la condanna sociale di quel politico?
     L'animo ingenuo e denutrito della signora Boldrini ha fatto il resto. Preite una "vittima" del sistema ... L'Italia non ha mai girato le pagine del calendario. L'ultimo anno visibile per buona parte del ceto politico è sempre lo stesso: 1968.

giovedì 25 aprile 2013

LETTA PRONTO A SCOLLINARE, MA VERA PARTITA E' SU DURATA ESECUTIVO

Secondo un'antica e sperimentata tradizione, il presidente Letta agisce su due leve per centrare il bersaglio: la struttura del governo da concordare e aggiustare in funzione del programma.

Berlusconi incontrerà domani il presidente incaricato ma è pronto a trovare il punto di mediazione. L'abolizione dell'IMU non è uno scoglio insuperabile e sarà aggirato con qualche espediente (la restituzione delle somme con titoli di Stato decennali).

La piaga aperta è la mezza rivolta della sinistra "grillina" del Pd nei confronti della quale Grillo si muove come il lupo in mezzo alle pecore.

I vari Puppato, Civati e Gozzi che annunciano voto contrario sulla fiducia,  probabilmente imbeccati dai prodiani desiderosi di vendette contro D'Alema e Veltroni, hanno in realtà già offerto la loro testa a Grillo che ha definito "morto" il 25 aprile.

Vendola, più intelligente, ha capito che nell'opposizione al governo Letta deve guardarsi da Grillo, minaccia mortale per qualunque opposizione di quello schieramento. E gli ha replicato definendolo "becchino universale".

Il Pd rimane in uno stato comatoso e rappresenta la vera incognita per la nascita del governo.

La Lega e Fratelli d'Italia, d'intesa con il PdL, rimangono all'opposizione per un calcolo politico. Alle opposizioni spettano infatti le presidenze di due commissioni strategiche come la Vigilanza Rai e il Comitato parlamentare sui Servizi segreti. Con leghisti e Fratelli d'Italia all'opposizione è scongiurato che vadano a Vendola e Grillo. 

di Massimo Colaiacomo

     Enrico Letta presenterà il suo governo alla Camera lunedì o, al più tardi, martedì della prossima settimana. Il suo tentativo è destinato al successo per forza di cose: diversamente non si aprirebbe nessun paracadute per la legislatura e si tornerebbe alle urne prima dell'estate. E' il percorso segnato dal presidente Napolitano e i partiti che lo hanno supplicato con il cappello in mano perché accettasse la rielezione sanno che non sono consentiti deragliamenti. Berlusconi, al di là di quanto viene riferito nei retroscena tanto fantasiosi quanto inutili, non è così sciocco da imboccare una via per lui piena di incognite non meno che per il Pd. Il fenomeno grillino, infatti, ha conosciuto una battuta d'arresto pesante nelle regionali del Friuli Venezia Giulia ma sarebbe un errore mortale considerarlo estinto.

     E' vero che Grillo deve alzare ogni giorno di più il tiro e aumentare il volume di fuoco degli insulti contro i partiti, Napolitano e perfino una data simbolo come quella del 25 aprile da lui considerato "morto" dopo "l'inciucio" (termine, si spera, destinato a sparire una volta che i partiti lo avranno effettivamente consumato)  fra Pd, PdL e Napolitano. Il comico genovese fatica a mantenere il centro della scena e sa che la sua posizione di rendita elettorale è destinata a un drastico ridimensionamento una volta che il governo dovesse vedere la luce. Grillo deve inoltre fare i conti con un competitore nuovo che si affaccia nel suo campo. Scegliendo il ruolo di opposizione "responsabile" al governo Letta, infatti, Nichi Vendola punta a una ulteriore riarticolazione della sinistra e lavora per attirare il malcontento di quei settori del PD non del tutto pronti al governo "di servizio" per il Paese, eufemismo non proprio felice usato dall'incaricato per mascherare un governo di larghe intese fra Pd, PdL e Scelta civica.

     Il ruolo di Vendola, insomma, può essere insieme una minaccia per il Pd e un'insidia per il grillismo, proponendosi come argine verso il comico genovese e raccoglitore degli umori antigovernativi del Pd. Le affermazioni insultanti di Puppato e Gozi, insieme a quelle più ragionevoli di Civati, segnalano un'area di malcontento nel Pd che trova in Romano Prodi il suo ispiratore più o meno interessato. Prodi è il candidato al Quirinale uscito massacrato nelle votazioni in Parlamento. A Francesco Boccia che ha minacciato l'espulsione per quei parlamentari PD che non votassero la fiducia ha replicato Sandra Zampa, guarda caso portavoce di Prodi, per ricordargli che non è con le minacce che si risolvono i problemi politici. Insomma, il professore bolognese, anche dalle remote plaghe africane, ha cominciato a tessere la tela della sua vendetta. Per Enrico Letta, come si vede, le maggiori difficoltà vengono da un quadro politico tormentato sul fianco sinistro. Lì si annidano per lui le incognite maggiori e in quella direzione guarda con preoccupazione Silvio Berlusconi, ansioso come non mai di ricevere assicurazioni sulla durata dell'esecutivo e sulla incisività della sua azione politica.

     Il Cavaliere è sicuramente interessato alle questioni di programma, ma non fino al punto da compromettere il tentativo di Letta. Sa che si possono aggiustare capitoli spinosi come l'Imu (magari immaginando la restituzione per il 2012 con i Buoni del Tesoro) e si possono trovare accomodamenti onorevoli su altri capitoli come i crediti delle imprese, le politiche per la crescita. A Berlusconi preme una cosa soprattutto: capire il livello di impegno politico che il Pd è in grado di assicurare all'esecutivo. E' il punto cruciale perché Letta possa vedersi spianare la strada e mandare in porto il governo. Se il Pd tentenna, tutto si complica per Letta. I dirigenti democratici hanno fretta di trovare nuovi assetti nel partito e per questo si avviano al congresso d'autunno nella speranza di incoronare Renzi segretario. Che cosa significa tutto questo? Può significare che Renzi è pronto già il prossimo anno alla sfida elettorale? Se così fosse, il Pd non ha interesse alcuno a impegnarsi con esponenti di primo piano nel governo. Si sa, però, che Renzi non vuole andare alla battaglia elettorale non solo con questa legge elettorale ma neppure con questo assetto istituzionale. Il sindaco fiorentino è un sostenitore convinto del bipartitismo e del presidenzialismo, due obiettivi che se raggiunti manderebbero all'aria gli equilibri politico-istituzionali nati nel dopoguerra. Per centrare risultati così importanti serve un governo di durata e Matteo Renzi ha mostrato, negli ultimi tempi, di aver messo sotto controllo la sua fretta.

     "Rottamati" in pochi mesi Prodi, D'Alema, Bersani, Veltroni per il sindaco di Firenze si spalancano nuove opportunità per cogliere le quali può concedersi qualche tempo in più. Quello che fino a ieri faceva fretta ai vertici del Pd, appare ora un leader  più compassato. Anche per Renzi il governo che nasce può puntare a una durata ragionevole,  alla condizione che sappia mettere nel mirino riforme costituzionali di grande respiro. Se Lega Nord e Fratelli d'Italia hanno scelto la via dell'opposizione, non è erto per fare un dispetto al PdL. Al contrario, la decisione è stata sicuramente presa d'intesa con Berlusconi. In questo modo, infatti, le presidenze di commissioni cruciali come il Comitato parlamentare di vigilanza sui Servizi segreti e la Vigilanza Rai, destinate alle opposizioni, è pressoché sicuro che finiscano dalle parti di Maroni e La Russa sottraendole così alle ambizioni di Vendola e Grillo. 


     

 





lunedì 22 aprile 2013

DA NAPOLITANO LEZIONE DI POLITICA E DI PASSIONE CIVILE, CHI PUÒ GUADAGNARCI È IL PD (SE AVRÀ CORAGGIO)di Massimo

di Massimo Colaiacomo

     Se ai parlamentari e alla ruling class del Pd è rimasto un briciolo di orgoglio e di intelligenza politica da stasera devono tirare fuori l'uno e l'altra. È usarli senza risparmio. Il discorso di insediamento di Giorgio Napolitano in Parlamento è stata una lectio magistralis di intelligenza e saggezza politica. Straordinaria per l'impasto di passione civile e di fresca umanità. Qualità per avere le quali non basterebbe ave cento o centodieci anni. Napolitano ha confermato la giustezza dell'aforisma di Benedetto Croce sul primo dovere dei giovani: quello di invecchiare e, si può aggiungere oggi, invecchiare ispirandosi a Napolitano.
     Chiuso il turibolo, meritatissimo, andiamo alla sostanza del discorso del rieletto. Napolitano ha indossato la toga del pubblico ministero contro il sistema dei partiti, denunciandone con parole implacabili le manchevolezze, le viltà, l'attaccamento alle piccole convenienze, la miopia e la supponenza. Si è rivolto a tutto il Parlamento, ma per farsi ascoltare e capire soprattutto dal settore dove sedevano i parlamentari Pd, non si sa se più rassicurati o più mortificati nel sentire quella requisitoria condita con parole nobili che cadevano sui loro scranni con la forza di un fuetto.
     Il muro di pregiudiziali alzato da Bersani a ogni forma di collaborazione con il PdL di Berlusconi si è sgretolato e venuto giù rovinosamente. È da quel paesaggio di macerie che deve nascere un governo. Napolitano farà consultazioni a velocità supersonica e già martedì sera, o mercoledì mattina, affiderà l'incarico per un governo che vuole, e sarà politico. Pochi minuti dopo il suo discorso, sono scattati sull'attenti Franceschini, Finocchiaro, Bindi. Tutti hanno risposto all'unisono: eccoci, siamo pronti. Una risposta impensabile fino a sabato mattina, divenuta perfino ovvia dopo il discorso di Napolitano.
     In casi simili si spolvera tutto con un po' di retorica dicendo che se c'è un vincitore è il Paese. Sarà vero, si spera, in futuro. Nel presene c'è un solo vincitore: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ha inseguito per vent'anni la propria legittimazione politica, il diritto a essere riconosciuto e accettato come un protagonista della vita pubblica e non come un nemico se non da abbattere quanto meno da isolare e tenere in quarantena.
     Bene: Berlusconi si è visto riconosciuto nel ruolo che 9 milioni di elettori gli hanno assegnato e si è visto riconoscere questo diritto nella cornice solenne del Parlamento in seduta congiunta da un grande, vecchio presidente della Repubblica. È come se Napolitano, diciannove anni dopo, avesse scelto di risalire i gradini fra gli scranni della Camera per restituire a Berlusconi la stretta di mano che nel '94 il Cavaliere gli diede per complimentarsi del discorso dell'allora capogruppo del PDS contro il suo governo.
     Il governo nascerà e sarà politico al massimo grado. È interesse dell'Italia, ma è interesse soprattutto del Pd da oggi impegnato conquistato al verbo renziano che vuole la sconfitta di Berlusconi sul campo della battaglia politica e non per via giudiziaria. Napolitano ha detto basta con i pregiudizi, basta con i luoghi comuni e le demonizzazioni dell'avversario e ha invitato a costruire convergenze fra tutte le forze politiche nell'interesse esclusivo dell'Italia. Parole sagge grazie alle quali Massimo D'Alema si sentirà meno solo dopo averle pronunciate nella Direzione nazionale del Pd, all'inizio di marzo. Parole che caddero allora nel gelo della platea senza neanche uno solo degli applausi calorosi e scroscianti riservati dal Parlamento a Napolitano.
     Il Pd subirà verosimilmente una piccola scissione. Mai come in questo caso, però, si può dire ex malo bonum. Il Pd deve recuperare vent'anni di errori, gli ex comunisti devono liberarsi di tutte le maschere indossate in questi decenni e finalmente guardarsi allo specchio e contare le rughe, le cicatrici e i solchi scavati in oltre 90 anni di storia comunista. Non devono celebrare la loro Epinay o la loro Bad-Godsberg, perché Mitterrand nel 1971 e Brandt nel 1959 furono protagonisti di svolge epocali che guadagnarono definitivamente al socialismo e alla pratica democratica forze profondamente radicate nella cultura marxista. Il Pd ha Matteo Renzi e la sua ambizione di costruire un frullatore di culture tenute insieme dal cattolicesimo democratico ma anche liberale.
     Per raggiungere questo traguardo, però, Renzi deve guida le truppe in rotta del Pd nella loro traversata del deserto. Convincerle a guardare a Berlusconi come all'avversario da battere e non il nemico da abbattere. E non è questione che si risolva con un battito di ciglia.

domenica 21 aprile 2013

LA REPUBBLICA NELLE MANI SOLIDE DI NAPOLITANO, LE RIFORME IN QUELLE (FRAGILI) DEI PARTITI


IL CAVALIERE TORNA A CAVALLO, MA SI FA PRUDENTE
PER IL PD L'OCCASIONE DI RIDEFINIRE LA PROPRIA IDENTITÀ
COME FORZA DI GOVERNO
PER IL GRILLISMO UNA SOLA CURA: LA REPUBBLICA PRESIDENZIALE


di Massimo Colaiacomo

     Ha ragione Stefano Folli: con la rielezione, i partiti hanno conferito a Giorgio Napolitano poteri enormi se non proprio esorbitanti rispetto a quelli previsti in Costituzione. A Napolitano tutti hanno chiesto, con atto di contrizione e con il cappello in mano, di operare d'urgenza sul corpo vivo della politica per estirpare il male oscuro che la sta divorando dopo il 25 febbraio ma le cui radici affondano molto indietro nel tempo.
      Si spiegano così le reazioni di soddisfazione accompagnata a grande prudenza dei protagonisti che hanno dato vita allo psicodramma sul Quirinale, fino al punto da mettere a rischio la salute della Repubblica. Il Cavaliere è tornato a cavallo ma non impugna lo scettro minaccioso come Bartolomeo Colleoni o come Luigi XV. Ha vinto un tempo di una partita che sa essere lunga e ricca di insidie. Le riforme da lui annunciate lungo un arco di vent'anni e ogni volta evaporate per le ragioni più diverse, devono farsi carne e sangue nei prossimi mesi. Non c'è più spazio né tempo per i proclami elettorali. Chi, ancora stamane, annuncia, come fa Altero Matteoli, che o si fa il governo politico o si va al voto, mostra di non aver capito bene che cosa è accaduto nella ultime settimane. E finge di non sapere che non ci sarà nessun voto prima di qualche anno. Perché nessuno chiederà le urne senza aver prima risanato le cicatrici profonde inferte al sistema politico: farlo significherebbe consegnare la democrazia e la Repubblica a una fase di avventurismo.
     Napolitano ha chiesto ai partiti di ricambiare la sua personale disponibilità a un secondo mandato, disponibilità più simile a un vero sacrificio, offrendo un'analoga disponibilità collettiva.  Napolitano non potrà accettare veti o pregiudiziali da chicchessia. Agirà, c'è da giurarci, fin da martedì per formare un governo che ricalchi nelle sue linee essenziali la maggioranza che ha sostenuto Monti. Con una differenza fondamentale: sarà un governo pienamente politico, senza più lo schermo o il filtro dei tecnici. Pd e PdL dovranno guardarsi negli occhi e insieme rivolgersi al Paese per assumere impegni solenni di riforme istituzionali; di rilancio urgente dell'economia assumendo misure, con decreti leggi, per dare l'ossigeno minimo a un sistema in sala di rianimazione. Dovranno, Pd e PdL, prendere quelle misure urgenti per eliminare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari. E non soltanto per contenere così i costi della politica (bandiera populistica da stracciare subito) ma soprattutto per rianimare un circuito istituzionale le cui procedure barocche e farraginose hanno avvelenato nel tempo la vita quotidiana dei cittadini e costruito un lago di veleni nel loro rapporto con le istituzioni pubbliche.
     Benedire lo scampato pericolo non basta. Il governo che si presume sarà formato in settimana dovrà assumere provvedimenti in poche ore ma, soprattutto, dovrà mostrare una coesione politica molto forte da far valere in sede europea perché gran parte dei provvedimenti necessari all'Italia dovranno persuadere i "contabili" della Commissione. E nessuno meglio di un governo politico coeso può avere il peso giusto per ingaggiare un braccio di ferro a Bruxelles.
     Rimane, e non proprio sullo sfondo, il dramma politico con i suoi risvolti anche umani, che ha letteralmente polverizzato il Pd. Attenzione, però: polverizzato ma non distrutto. La sfida di un governo insieme al PdL e ai centristi di Monti acquista un duplice significato per il Pd: diventa un'occasione per fare chiarezza nei contrasti strategici in cui il partito si trascina da almeno vent'anni; ma è anche l'occasione per ridefinire la propria identità come forza di governo e, in questa veste, capace di parlare a settori della società italiana ritenuti ostili o estranei. Si tratta, per chi raccoglierà l'eredità del gruppo dirigente bersaniano, di superare la natura ambivalente di un partito per metà prigioniero dell'intransigentismo moralistico costruito attorno all'antiberlusconismo, e, per l'altra metà, proiettato verso un'evoluzione riformistica d'impronta europea. 
      Ancora ieri, commentando a caldo l'elezione di Napolitano, Nichi Vendola, offrendo un'immagine vecchia, ripeteva di puntare alla costruzione di una sinistra alternativa al Caimano. Ecco: non si pensa a una sinistra autonoma sul piano programmatico e nell'elaborazione di una tavola di valori. No: la sinistra immaginata da Vendola punta ancora a definirsi in negativo: siamo di sinistra perché c'è il Cavaliere dall'altra parte. Una sinistra simile è la miglior assicurazione per tenersi il Cavaliere altri 50 anni.
     L'altra sinistra, quella che guarda all'Europa o addirittura al blairismo, deve ancora maturare. Facendo attenzione a non lasciarsi irretire nei tatticismi del momento (la bocciatura di Prodi) o mostrare la fretta della giovane età. Matteo Renzi ha sbagliato, e anche molto, nella lunga e drammatica partita per il Quirinale. Deve armarsi di santa pazienza e, soprattutto, comprendere e spiegare fino in fondo ai suoi sostenitori che non è produttivo rottamare le persone sulla base dell'anagrafe e non delle idee sbagliate. Il riformismo italiano ha bisogno di Massimo D'Alema non meno di Matteo Renzi. Il quale, essendo giovane, deve darsi, come diceva Benedetto Croce,  un compito sopra tutti gli altri: pensare a invecchiare.
     Se il pericolo grillino può essere mortale o dissolversi come un incubo al risveglio dipenderà in larga misura dalle riforme che i partiti sapranno mettere in campo. Il presidenzialismo francese è la chiave di volta per ridurre a zero e depotenziare gli estremismi che si agitano nel profondo di settori limitati della società italiana. Quel sistema coniuga meglio di qualunque altro la rappresentanza parlamentare e la necessità di un potere esecutivo forte. Al primo turno si vota i partiti, al secondo si scegli il presidente la cui elezione trascina con sé la maggioranza. E Grillo diventerebe un ricordo. 

sabato 20 aprile 2013

GRILLO HA VINTO, MA CON ELEZIONE DIRETTA CAPO STATO SCOMPARIRA'

di Massimo Colaiacomo

     Un istante prima che il sistema politico finisse nel baratro e un secondo dopo l'evaporazione del Partito democratico risucchiato nel web grillino, Giorgio Napolitano ha fatto il passo da tutti richiesto e da tutti atteso. Si ricandiderà per un nuovo mandato (che soltanto una bifolca ignoranza immagina a termine: lo sarà per volontà del presidente e non perché sia scritto da qualche parte della Costituzione) e, al momento, toglierà la castagne dal fuoco a un sistema politico altrimenti impazzito.
     Napolitano è stato, come sempre, di esemplare chiarezza con i suoi interlocutori. Da tutti loro si attende ora "una collettiva assunzione di responsabilità". Che cosa significano queste parole? Accettando la sua ricandidatura, Napolitano ha in qualche modo tracciato il bilancio dei drammatici eventi di questi giorni culminati nella paralisi del Parlamento e nell'impotenza dei grandi elettori di trovare una forma di accordo per eleggere il suo successore.
     Dal paesaggio di macerie lasciato dai partiti e, in particolare dalle acrobazie suicide del PD e della sua ruling class, deve emergere quella spinta riformatrice inutilmente cercata nei 13 mesi del governo tecnico. Significa che il piatto forte del prossimo esecutivo devono essere le riforme "di sistema". Che non sono, come vuole far credere il populismo da tre palle e un soldo dei grillini, la riduzione del numero dei parlamentari o la riduzione delle loro indennità. Vanno bene anche queste cose, certo. Ma altre è più alte sono le riforme necessarie per rimettere in sella la periclitante Repubblica. La prima e più urgente riforma deve rispondere alle due questioni che Norberto Bobbio, in un libriccino di metà anni '80, indicava come i parametri per misurare la salute di una democrazia: chi comanda? e sulla base di quali procedure?
     Ecco: chi comanda in Italia? A una domanda simile avremo sicuramente una risposta univoca e chiara se rivolta a un inglese o a un tedesco o a un francese: Cameron, Merkel, Holland. Se la rivolgiamo ai cittadini italiani avremo decine di risposte diverse: Napolitano, Monti, le banche, i magistrati, Grillo, i poteri forti ecc. Questo è il nodo gordiano che va tagliato con una riforma incisiva della Costituzione per ricreare una fonte dell'autorità pubblica che sia riconoscibile e da tutti riconosciuta. Il presidenzialismo secondo il modello francese è la sola e unica via da percorrere. Fatto questo tutto il resto ne discende. E fatto questo la protesta anti-sistema si sgonfia, evapora come certi brutti sogni svaniscono con la luce dell'alba.
     La vicenda del Quirinale si avvia a conclusione nel modo peggiore per la credibilità della politica e nel modo migliore per l'Italia. La disponibilità di Napolitano per la sua riconferma è la notizia che salva l'immagine del Paese sulla scena internazionale ma è anche il campanello dell'ultimo giro per un ceto politico ormai consunto. Il PD esce a pezzi e in una crisi identitaria per la quale non si intravvedono al momento vie d'uscita che non portino alla scissione di quel partito, con una parte consistente di fatto conquistata allo spirito del grillismo. Si tratta di quella fetta di giovani, turchi o cinesi poco importa, sprovvisti di una solida cultura repubblicana e politica. Personaggi fragili e improvvisati (valgano per tutti i nomi di Civati e Orfini), la cui cultura è un cocktail di wikipedia e twitter. Poca o nulla conoscenza della storia repubblicana, poca o nulla passione per le istituzioni ma solo ed esclusiva attenzione alle "pressioni del web" e della "piazza". Chi ha portato personaggi simili in Parlamento? Chi si è caricato di questa responsabilità non meno grave del duplice character assassination di due personalità quali Marini e Prodi?
     La riconferma di Napolitano è la medicina indispensabile in questa ora drammatica ma è anche il sintomo del crollo di un ceto politico impotente a individuare e votare un successore. Non si invochi il grillismo come causa. No, tutt'al più è un alibi. La causa vera è nella caduta di passione civile e istituzionale di una ruling class esangue, denervata. Invece di trovare una soluzione politica alta, come sarebbe stata l'elezione al Quirinale di un politico a tutto tondo quale Massimo D'Alema, il Pd è rimasto invischiato nella rete della retorica grillina. Con Bersani che un giorno cercava il candidato condiviso, il giorno dopo il candidato di rottura. Tante virate senza spiegazione alcuna hanno scosso il fragile albero di un partito che si è ritrovato in 36 ore senza più una direzione di marcia. Mezzo con Grillo e mezzo riformista. Mezzo animato da esprit republicain e mezzo irretito dalla furia distruttrice di un comico da quattro soldi che ha in programma di aprire il Parlamento come una scatola di tonno senza che da un parlamentare uno fosse venuta una replica dignitosa. No, niente.
     Grillo, vero vincitore politico di questa tornata, ha ora la strada spianata per ingoiare il PD. Lo ha distrutto in pochi giorni, aiutato anche dal sentimento di cupio dissolvi che si respira da quelle parti. Bersani si è confermato un politico inadeguato, con venature macchiettistiche e indecorose per chi doveva trovare una soluzione per la più alta magistratura della Repubblica.
     Il governo che verrà, si presume di intese più larghe possibili, deve essere retto da personalità capaci di guardare oltre la prossima ora. Non può essere tecnico ma deve essere politico al più alto grado. E riformare la Costituzione cancellando non poche delle cose vecchie (sono la maggior parte). A cominciare dal vergognoso art. 1 che fonda, unico caso in una democrazia occidentale, la Repubblica sul lavoro. Laddove le Repubbliche sono nate e godono di vita rigogliosa in quanto fondate sulla libertà, sui diritti delle persone alla vita, alla felicità. Una vergogna tutta e soltanto italiana che, c'è da augurarsi, sia cancellata una volta per sempre.
     La partita si gioca tutta nel perimetro delle riforme di sistema e il Porcellum è soltanto un capitolo. E' nella Costituzione che le forze politiche devono affondare le mani per rivoltarla da cima a fondo. Senza timori, con grande prudenza e saggezza ma avendo sempre chiaro il punto d'approdo: il potere esecutivo scelto direttamente dal popolo. Una ricetta semplice per consolidare la Repubblica ma efficacissima per sconfiggere e piegare all'esprit republicain gli estremismi di ieri e di oggi. E impedire quelli di domani.

venerdì 19 aprile 2013

PRODI ANTI-CAV E FILO-PD? ASPETTARE E VEDERE

di Massimo Colaiacomo

     Scrivevo, sabato 16 aprile, della determinazione e della tenacia con cui Prodi era pronto a scombinare la rosa dei candidati di Pierluigi Bersani. Saltato il petalo di Franco Marini, gli altri, infatti, cadranno da sé. Per ovvie ragioni: Bersani è stato delegittimato dal suo stesso partito nelle votazioni di ieri; Matteo Renzi ha in pugno il Pd, anche se deve accelerare la presa del potere prima che il partito si dissolva; la piazza internettiana ha stravolto la democrazia in Italia, distruggendo il concetto di rappresentanza parlamentare; gruppi di facinorosi e violenti intorno al Parlamento hanno la facoltà di intimorire parlamentari vili e per nulla motivati nel loro incarico se non dalla ricca indennità mensile.
     E' un paesaggio di macerie quello che si presenta agli italiani quando questa mattina, alle 10, il Parlamento tornerà a riunirsi per la terza votazione sul presidente della Repubblica. Fra le macerie, si sa, c'è sempre cibo per gli avvoltoi. Bersani ha deciso di salvare se stesso e il Pd proponendo la candidatura di Romano Prodi. L'Italia viene dopo. Primum vivere. Bersani non ha chiaro, però, che cosa esattamente egli porti in salvo.
     Il calcione rifilato al metodo della condivisione con Berlusconi promette, è vero, di ricompattare il Pd e di salvare, per il momento, la segreteria di Bersani. Ma è anche vero che privandosi della sponda con il Cavaliere, Bersani ricolloca il partito in un campo della sinistra squassato e reso irriconoscibile dal grillismo. Da questo momento il Pd diventa il partito più liquido d'Italia e soltanto la corsa verso le urne, già a giugno o a luglio, può salvarlo dalla dissoluzione. Se dovesse mancare questo traguardo, Matteo Renzi sarebbe inghiottito nel grande inceneritore del grilliamo. Ha giocato una partita temeraria, la sta vincendo ma una sola mosa sbagliata e quello che sembra l'Eden diventerà un inferno anche per lui.
     Berlusconi si prepara alla sconfitta sulla partita per il Quirinale, anche se non ancora chiusa. Il Pd si è ricompattato su Prodi, Bersani ha salvato il partito, ma lo aspetta un percorso di guerra, e impossibile, per la formazione del governo. Le larghe intese saltate sul Quirinale sono un duro colpo alle chances bersaniane di formare il governo. Grillo, è vero, si acconcerà a votare Romano Prodi, ma sul governo? Quali prezzi e quali estorsioni sul programma imporrà a Bersani per fargli avere qualche voto con il contagocce? E se rimane fermo il "no" grillino alla fiducia, come farà Bersani a superare le forche caudine del Senato dove i numeri gli sono contro?
     Matteo Renzi, l'altro protagonista della partita al Quirinale, si prepara a votare Prodi con grande soddisfazione. La ragione può essere una sola: rappresentando Prodi il "vecchio", né più né meno come Franco Marini, il professore agli occhi del sindaco ha un pregio che mancava a Marini, vale a dire "non stabilizza" il quadro politico come avrebbe fatto l'ex sindacalista. Prodi ha l'ostilità dichiarata di Berlusconi e del centro-destra e quindi Bersani (?) deve scontare un'opposizione vigorosa in Parlamento. Il governo Bersani vedrà la luce, se mai la vedrà, per qualche settimana prima di precipitare il Paese verso nuove elezioni. Se, invece, Prodi vuole distruggere tutto, allora non affida l'incarico a Bersani e chiama una personalità terza ed europeista per formare un governo di durata. A quel punto il giovane e scalpitante Renzi uscirà sconfitto irrimediabilmente. 
     Il Cavaliere sbaglierebbe a dare tutto per perso. Prodi è personaggio imprevedibile. Di sentimenti forti e di intelligenza sopraffina (leggi: diabolica). Ha solidi agganci in Europa, in Cina (a proposito: l'agenzia cinese Dagong perde il suo partner europeo) e negli Stati Uniti. Non puà permettersi troppi svolazzi e scivolate con governi antieuropei. Grillo lo voterà, ma se pensa di potersi permettere incursioni sul terreno dell'antieuropeismo troverà pane per i suoi denti. E' facile immaginare che Grillo voterà Prodi, per meglio staccare il PD dal PdL e poi infilzare Bersani a suo piacimento. Ma lo stesso Prodi, tempo qualche settimana, diventerà il bersaglio preferito da Grillo. Pronto a scommettere.
     L'Italia è una Repubblica alla deriva. Chi pensa o ragiona di riformette finge o davvero non ha capito la vastità della crisi di sistema. Da una condizione simile si esce soltanto con riforme di sistema come può essere la Repubblica presidenziale.

martedì 16 aprile 2013

PRODI E IL DOPPIO TURNO FRANCESE, IL PROF NON MOLLA LA CORSA AL QUIRINALE E RILANCIA


di Massimo Colaiacomo

     Ricapitolando: Matteo Renzi punta a un governetto di scopo che faccia un compitino accettabile sulle legge elettorale, pompi un po' d'ossigeno al paziente Italia prima che stramazzi e, poi, alle urne. Preferibilmente in ottobre o, male che vada, il prossimo anno in primavera. Berlusconi e Bersani puntano al tutto e subito, ma ognuno seguendo un suo percorso. Il Cavaliere accarezza l'idea di un governo politico imperniato su Pd e PdL; Bersani recalcitra, sbuffa e spinge per un governo di minoranza o, come si diceva nella più fantasiosa Repubblica dei bei (?) tempi, allo sbando. Pensa di andare al Senato, farsi impallinare e tornare alle urne. Insomma, se c'è da rivotare si faccia presto e, all'occorrenza, si trasformino le cabine della spiaggia in cabine elettorali. E su questo i due Ber filano d'amore e d'accordo.
     Problemi: che senso ha tornare alle urne con la legge elettorale che ha bloccato il Paese? E come può la causa del male trasformarsi nella sua terapia?
     Gli orizzonti temporali delle strategie di Bersani e di Berlusconi differiscono: il segretario Pd ha una sola finestra di opportunità, a giugno. Qualsiasi altra tempistica passa sopra il suo cadavere politico. Idem Berlusconi: rivotare a giugno è possibile, ogni altra ipotesi lo vedrebbe soccombere all'incalzare del tempo.
     Mai come nel caso di questi tre leader la tempistica è diventata la sostanza stessa delle rispettive agende politiche. C'è un comune denominatore che li unisce? Sì: nessuno di loro pensa a un esecutivo che vada oltre la primavera del 2014. Per Renzi sarebbe dura tenere la scena. Bombardare il quartier generale del partito rischia, infatti, di assimilare la strategia di Renzi alla politica di pura demolizione del grillismo.
     Esiste un punto medio di incontro fra le tre diverse esigenze strategiche? Sulla carta, no. La strategia di Renzi è antitetica a quelle di Bersani e di Berlusconi. Quella di Bersani, se il leader Pd rimane convinto della suggestione del governo di minoranza, punta al voto ravvicinato esattamente come Berlusconi.
     Come si incrociano queste diverse strategie nell'elezione del presidente della Repubblica? Oggi ha parlato Romano Prodi, il cavallo che in troppi danno già per azzoppato, e ha detto cose pesanti. La più importante è sulla legge elettorale: il doppio turno alla francese garantisce il governo. Vero. Ma furbesca come affermazione. Prodi ha lasciato volutamente nell'aria il seguito della sua analisi: il doppio turno francese ha senso quando, superato il primo turno in cui si vota il partito, si tratta di votare il candidato alla presidenza della Repubblica e la sua maggioranza nel secondo turno.
     Prodi ha aperto, con la sua affermazione, a un cambiamento radicale degli assetti di potere e istituzionali. Ha indicato la via di una riforma che non può essere realizzata da un governo di scopo o istituzionale, ma presuppone una maggioranza vasta e coesa. Paradossalmente, ma non troppo, la riforma elettorale di Prodi si muove in direzione di quel riformismo istituzionale tante volte invocato da Berlusconi come propedeutico per qualsiasi cambiamento in Italia. Sotto questo aspetto, si può dire che Prodi ha lanciato un ballon d'essai verso il centrodestra, cioè la parte politica a lui più ostile al punto da immaginare, come ha detto Berlusconi a Bari, emigrazioni in massa in caso di sua elezione al Quirinale.
     Le affermazioni di Prodi sulla legge elettorale non sono destinate a cadere nel vuoto. Se esse hanno un sapore quasi programmatico, anche gli altri candidati saranno costretti in qualche modo a misurarsi con la sfida lanciata dall'ex premier. Si sa che dietro il suo aspetto disguised pacioso, Prodi arpiona con forza le situazioni. Se non è il candidato in cima alla lista di Bersani, oggi ha detto che è pronto a scombinare quella lista con qualsiasi mezzo. Anche a costo di rivoluzionare le istituzioni, lui, conservatore per natura.

sabato 13 aprile 2013

TROPPE PARTITE ATTORNO AL QUIRINALE, SARÀ DECISIVO INCONTRO RENZI-CAVALIERE

di Massimo Colaiacomo

     La partita del Quirinale si complica e in casa Pd diventa sempre più simile a un nodo marinaio le cui estremità rimangono inafferrabili. Impossibile per Bersani scioglierlo senza forzature, mortalmente pericoloso per lui provare a reciderlo. Matteo Renzi è l'estremità divenuta più scivolosa e inafferrabile per il segretario Pd. Il sindaco fiorentino sta giocando una partita complicata ma per niente assimilabile a quei trapezisti del circo che si esibiscono senza rete. Al contrario, Renzi ha costruito in pochi giorni una rete di contatti fin troppo ampia come dimostrano gli incontri con Massimo D'Alema, ricevuto a Palazzo Vecchio, e con Walter Veltroni, incontrato nella sua casa a Roma. Senza contare i renziani dell'ultima ora, da Franceschini a Enrico Letta. Quanto questa rete sia solida è ancora da verificare. Ma per fare che cosa e in funzione di quale obiettivo?
     Fino a qualche giorno fa, Renzi aveva un obiettivo fisso: impedire l'elezione di un presidente della Repubblica sgradito a Berlusconi e votato soltanto da Pd e grillini. E non certo per amore di Berlusconi o per premura verso i suoi guai giudiziari. Più semplicemente, per evitare che un presidente, il cui profilo coincideva con quello di Romano Prodi, troppo debitore a Bersani finisse per essere un docile strumento nelle mani del segretario Pd e quindi, una volta eletto, gli conferisse l'incarico per un governo anche di minoranza da mandare in Parlamento a cercarsi i voti. All'interno di un simile schema era da contemplare lo scioglimento del Parlamento, anche a giugno, e nuove elezioni con Bersani ancora candidato premier non potendo celebrare le primarie in poche settimane.
     Ora, riferiscono le cronache piene di spifferi e congetture, il sindaco fiorentino avrebbe ribaltato il suo gioco. E il presidente la cui elezione era da evitare come una catastrofe (Romano Prodi), sarebbe diventato all'improvviso una carta decisiva e buona da giocare nella logica di Renzi. Che cosa è successo, se davvero qualcosa è successo?
     Non è successo molto, almeno in apparenza, e nulla che possa spiegare un ribaltamento dei piani del sindaco di Firenze. L'obiettivo di Renzi non è cambiato: egli punta sempre a conquistare la candidatura per Palazzo Chigi, ma ritiene importante conquistare prima la segreteria del Pd. Da questa casella può dirigere più agevolmente le operazioni e impostare una strategia delle alleanze rispolverando la vocazione maggioritaria di Veltroni. In sostanza, Renzi vuole liberarsi della zavorra di Vendola e rendere il Pd competitivo tanto verso i grillini quanto verso i residui del centrino di Monti.
     Come si inserisce una presidenza della Repubblica di Romano Prodi e come essa potrebbe aiutare questo schema? Questo rimane un mistero. 
     La verità è, come spesso accade, più prosaica di quel che appare. E i retroscenisti, con la schiena rotta per il tempo passato a sbirciare dal buco della serratura, qualche volta perdono quel che accade sulla scena.
     Matteo Renzi è un giovane "vecchio" democristiano e sa bene di quante trappole, strambate e virate inattese è fatta la corsa verso il Quirinale, massacrante più del Palio di Siena per i cavalli. La sua strategia può essere definita "a fisarmonica". Egli spinge per un presidente eletto a larga maggioranza, quando vede Bersani incamponito a difendere il suo diritto a formare un governo di minoranza per il quale avrebbe bisogno di un Prodi al Quirinale e di un Cavaliere con il fucile al piede. Al contrario, quando Renzi si avvede della possibilità per Bersani di stringere un accordo con Berlusconi per una larga convergenza sul Quirinale, Renzi stramba all'improvviso e rilancia una candidatura divisiva per separare Bersani da Berlusconi. Il sindaco si muove con l'abilità di uno scacchista impegnato per ora a demolire le difese dell'avversario Bersani portandogli via alcuni pedoni (D'Alema, Veltroni, Letta). Forte dei suoi circa 50 parlamentari, Renzi aspetta di incontrarsi lui con il Cavaliere per decidere il cavallo vincente nella corsa verso il Colle.
     Quella che sembra un'ipotesi remota è in realtà l'unica che potrebbe davvero decidere le sorti della successione al Quirinale. Renzi ha rilanciato l'ipotesi di Prodi senza nessunissima convinzione anzi, da buon democristiano, sa di averlo bruciato. Renzi accende un falò per ciascuno dei candidati di rottura esaminati da Bersani ma così facendo vuole dimostrare al Cavaliere che un incontro utile e decisivo può essere quello con lui, con il sindaco di Firenze nel cui accampamento arrivano ogni giorno truppe fresche dalle fila bersaniane. È da credere che se non si sono ancora sentiti, presto Berlusconi e Renzi dovranno parlarsi. È il solo modo che ha il Cavaliere per capire come io ade la partita del Colle evitando di rompersi l'osso del collo.

mercoledì 10 aprile 2013

impazientimasenzafretta: SARA' IL SUCCESSORE DI NAPOLITANO A STABILIRE LA D...

impazientimasenzafretta: SARA' IL SUCCESSORE DI NAPOLITANO A STABILIRE LA D...: di Massimo Colaiacomo Mai come questa volta le chiavi della legislatura appena iniziata saranno tutte e soltanto nelle mani del futur...

SARA' IL SUCCESSORE DI NAPOLITANO A STABILIRE LA DURATA DELLA LEGISLATURA (E DELL'EVENTUALE GOVERNO BERSANI)


di Massimo Colaiacomo

Mai come questa volta le chiavi della legislatura appena iniziata saranno tutte e soltanto nelle mani del futuro presidente della Repubblica. La duplice partita su governo e Quirinale è diventata un rompicapo per le principali forze politiche e il tentativo di affrontarle separatamente - prima trovare il successore di Giorgio Napolitano e, dopo, individuare la maggioranza per il governo - mai come in queste ore appare tanto velleitario. Vediamo di spiegare meglio come si dipanano le strategie dei due protagonisti principali, cioè Bersani e Berlusconi, vale a dire il non-vincitore e il non-sconfitto delle elezioni.
Berlusconi, si sa, chiede che la casella del Colle sia occupata da una figura istituzionale non ostile al centrodestra. In soldoni, non ostile a Berlusconi medesimo e neppure lontanamente sospettabile di offrire una sponda al circo mediatico-giudiziario da cui il Cav si sente accerchiato. I nomi sono conseguenza delle cose e si spreca inutilmente tempo a sgranare il rosario dei soliti noti di cui sono piene le pagine dei giornali.  Più da vicino, proviamo a osservare quali sono le conseguenze di una scelta simile. L’elezione di un presidente che sia non solo garante della Costituzione ma che si riveli nello stesso tempo tutore degli equilibri politico-istituzionali inciderebbe non poco sul percorso successivo per la formazione del governo. Nel senso che Bersani si vedrebbe riconosciuto da Berlusconi il diritto a tentare la formazione di un esecutivo, sia pure di minoranza, in grado di navigare per un certo tratto.
E’ lo scenario più rassicurante per Berlusconi ma anche quello più insidioso per Bersani. Un governicchio sostenuto da un mare di astensioni sarebbe inevitabilmente esposto a pressioni e ricatti continui. Insomma, un vascello fragile nel mare tempestoso di un Parlamento che i grillini vorranno sempre in subbuglio. D’altra parte, l’alternativa a un presidente della Repubblica scelto con il metodo delle larghe intese è, al momento, quella di un presidente eletto dopo il terzo scrutinio, quando è sufficiente la maggioranza semplice dei 1057 grandi elettori, e dunque un presidente che per questa ragione verrebbe percepito come di parte e si troverebbe la strada tutta in salita nello svolgimento delle sue funzioni. Sempre sospettato di anti-berlusconismo e di favorire il centro-sinistra, una figura simile esporrebbe ai venti della crisi l’ultima istituzione conservata intatta nella sua credibilità.
Un presidente eletto a maggioranza metterebbe in fibrillazione il centro-destra e il suo leader ma, al contrario, accorderebbe a Bersani un vantaggio tattico non piccolo. Il leader Pd, insediato a Palazzo Chigi con un governo di minoranza, potrebbe scegliere il tempo giusto per andare alle urne, anche a luglio, ma in tal caso sarebbe lui il candidato naturale poiché da presidente dimissionario sarebbe difficile per chiunque, e quindi anche per Renzi, invocare le primarie.
Per realizzarsi, un tale scenario, però, deve scontare alcuni passaggi che non sono affatto scontati. Il voto dei grillini, per esempio. Perché possa decollare, il governo di minoranza a guida Bersani deve poter contare sulla spaccatura del gruppo dei 5 stelle in Senato, evento, al momento, non facile da prevedere. La verità è che Bersani si trova stretto fra due fronti: uno esterno al Pd, il fronte grillino, che no dà segni di cedimento se è vero che Grillo, proprio per evitare lo sfaldamento del gruppo a Palazzo Madama, sta lavorando a una candidatura autonoma per il Quirinale così da costringere i suoi a convergere su un solo nome. L’altro fronte caldo per Bersani è tutto interno al partito. Matteo Renzi sta giocando la partita del Quirinale con abilità e, forse, con qualche eccesso di tatticismo. Che cosa fa Renzi? Appena si avvede di una qualche psosibile intesa sul governo fra Bersani e Berlusconi, lancia per il Quirinale una candidatura divisiva, come possono essere quelle di Prodi o Boldrini, per raggelare il Cav. Come vede allontanarsi ogni ipotesi di accordo sulla maggioranza di governo, Renzi cambia cavallo per il Quirinale e rilancia una candidatura super partes che sia gradita anche al Cavaliere.
Quella del sindaco di Firenze è una strategia che punta a scuotere il suo partito per accentuare l’isolamento di Bersani dalla maggioranza che lo sostiene. Gioco fin qui riuscito, ma carico di azzardo a mano a mano che si avvicina il tempo della scelta. Renzi punta a indebolire la strategia di Bersani nella formazione del governo, a impedirgli di saldare un qualche accordo con Berlusconi e a rendergli impossibile qualsiasi sostegno occulto dei grillini. E’ un’anatra zoppa, in sostanza, il premier che Renzi è disposto a far arrivare a Palazzo Chigi. Come potranno combinarsi le tessere di questo puzzle è ancora prematuro per capirlo. Certo è che né Bersani né Berlusconi sono in condizione di potersi dare rassicurazioni reciproche sul Quirinale e su Palazzo Chigi. La variabile Renzi è in grado di fare la differenza in qualsiasi momento. 

domenica 7 aprile 2013

BERLUSCONI-BERSANI VERSO UN ACCORDO DI RECIPROCA SOPRAVVIVENZA

L'INTESA NON FRENERA' IL DECLINO DELL'ITALIA E DELLA REPUBBLICA
ACCORDO PD-PDL PER BLOCCARE MATTEO RENZI, UNICA ALTERNATIVA.
IL SINDACO DI FIRENZE HA UN PROGETTO DI GRANDE RIFORMA COME LO AVEVA BETTINO CRAXI, GLI ALTRI NON HANNO NIENTE


di Massimo Colaiacomo

     So bene che non è mai elegante l'autocitazione. Ma se è vero che si va concretizzando quanto avevo ipotizzato come ragionevole in un post del 26 marzo ("Bersani-Cav divisi su tutto ma uniti dallo stesso nemico: Renzi), proverò allora a inoltrarmi su quello stesso sentiero per vedere i possibili traguardi di un'intesa PdL-Pd oggi meno remota, se non più vicina, di qualche giorno fa. Le cronache giornalistiche con il loro corteo di dichiarazioni e congetture sono note e non ci interessa né ripeterle né riassumerle in questa sede. Più interessante è capire perché Bersani e Berlusconi si acconciano a fare qualcosa fino a ieri rifiutata da Bersani e da Berlusconi considerata, invece, come il massimo obiettivo per le proprie sorti personali. Berlusconi deve salvarsi dai processi, e per questa ragione è pronto da sempre a sostenere un governo Bersani, a condizione di avere un presidente "amico" al Quirinale; Bersani deve salvarsi dai suoi pronti alla resa dei conti con il coltello fra i denti.
     B&B sono due uomini in fuga, da pericoli, è vero, molto diversi ma non per questo sono meno interessati a darsi reciproco sostegno, almeno per un certo tempo. La loro salvezza, per quanto precaria resti la loro sorte, passa dunque attraverso una tregua e un patto di non belligeranza che deve necessariamente avere nell'elezione del Capo dello Stato una specie di accordo notarile con condizioni vincolanti per tutti i contraenti. L'immagine che un simile scenario proietta nell'immaginario collettivo è quella di un ceto politico vecchio e logoro, alla disperata ricerca di qualche motivo per autoconservarsi, evitando così un nuovo giudizio elettorale. Del resto sono obiettivi che vedono Berlusconi e Bersani più vicini di quanto non dicano le schermaglie quotidiane.
     Su quale accordo programmatico potrà basarsi un'intesa fra Bersani e il Cav? Nulla di più, nulla di meno di quanto ha mostrato di poter fare il vituperato governo tecnico di Mario Monti. I proclami berlusconiani con le 8 proposte restitutive agli italiani di ogni bene (dall'IMU sulla prima casa all'esenzione previdenziale per chi assume a tempo indeterminato) sono destinate a rimanere lettera morta, almeno fin quando il Cavaliere non avrà indicato dove e come recuperare dal versante delle uscite i maggiori aggravi di spesa. Qualcuno ha mai sentito gli aspiranti leader, durante la campagna elettorale o subito dopo, alludere a capitoli di spesa pubblica da tagliare? Il solo Matteo Renzi, sconfitto alle primarie, ha fatto un preciso riferimento a tagli di spesa per circa 20 miliardi alla voce Beni e Servizi: una somma, disse Renzi, necessaria per restituire 100-200 euro a ogni mensili ai lavoratore con reddito netto inferiore ai 2000 euro.
     Il fatto davvero nuovo, destinato a pesare sul programma di Bersani o di chiunque altro riuscirà a formare il governo, è che nessuno potrà più usare la leva fiscale per aumentare le tasse o le imposte. L'Italia è vigilata speciale in Europa e qualsiasi manovra fiscale, soprattutto se con finalità redistributive, non potrà che nascere da preventivi, corrispondenti e verificabili tagli di spesa. Ogni altra scorciatoia è vietata, non foss'altro dal buon senso.
     Nella grande ondata di populismo subita passivamente da forze politiche decisamente autodelegittimate, il programma dell'esecutivo procederà a nuovi tagli dei finanziamenti alla politica continuando così ad alimentare nel Paese la pericolosa illusione che limati i denti a quei politici famelici  l'Italia potrà imboccare con decisione la via della ripresa. Un'illusione e una menzogna che partiti pavidi accettano di raccontare al Paese pensando così di arginare il populismo becero e fascista di Beppe Grillo. Quello a cui assistiamo in questi giorni e settimane è lo spettacolo avvilente di un ceto politico decerebrato, privato di ogni visione dei problemi generali dell'Italia e preoccupato unicamente di conservare, attraverso capriole etiche, gli ultimi brandelli di potere.
     Nessuna riforma costituzionale, urgente più di qualsiasi altra, vedrà la luce nei prossimi mesi. La sola legge elettorale potrebbe essere rivista, essendo l'unico strumento da tutti i partiti riconosciuto valido per la distribuzione del potere. Matteo Renzi è stato il solo a richiamare espressamente la necessità di una riforma presidenzialista e un sistema politico imperniato su due grandi partiti. Dagli altri partiti nessun cenno. Né i giornali hanno speso più di due righe per spiegare le implicazioni politiche della scelta renziana.
     Se si lascia lo scenario e si torna al presente, si può ragionevolmente accettare l'ipotesi di un accordo sul Quirinale fondata su un personaggio di garanzia (i nomi sono quelli soliti: Marini, D'Alema, Amato). Sono personaggi come questi i garanti migliori che un accordo sarà poi trovato sul piano del governo. E qui i calcoli delle convenienze personali si fanno più sfacciati che non per la conquista del Colle. Che interesse può mai avere Berlusconi a dare il via libera a un esecutivo di legislatura, con il rischio che questioni come la sua eleggibilità o il conflitto di interessi possano farsi strada nelle iniziative del Parlamento? Che interesse può mai avere Bersani a guidare un esecutivo del presidente la cui agenda sarebbe perciò stesso concordata con il presidente della Repubblica e per una durata temporale più o meno breve? Vero è che Bersani non può neppure aspirare a un governo di lunga durata la cui esistenza sarebbe rimessa alla disponibilità del PdL. E quella disponibilità, di riffa o di raffa, rimane condizionata agli sviluppi delle vicende giudiziarie del Cavaliere.
      Come si vede, a mano a mano che ci si inoltra sul terreno delle possibili opzioni, emerge con forza il profilo del governo di scopo come il punto di equilibrio fra convenienze ed esigenze non facilmente componibili. Prendere un tempo minimo (un anno, forse 18 mesi o due anni) per placare l'ondata populistica dei grillini; aggiustare quanto basta la legge elettorale, per aggirare il rischio di una nuova, futura paralisi parlamentare; tenere ferma la barra del risanamento della finanza pubblica (per la quale, a questo punto, un governo a Roma diventa quasi superfluo dopo l'inserimento del pilota automatico da parte della Bce) sono i punti minimi del futuro esecutivo per guidare il quale si cercherà una figura di compromesso, pronta a farsi scaricare dai partiti non appena i sondaggi dovessero segnalare un'inversione di tendenza dei M5s. 
     E' attorno a un simile programma di sopravvivenza dell'attuale sistema politico, come è ragionevole ipotizzare, che Berlusconi e Bersani troveranno un qualche accordicchio. Nessuna riforma di sistema vedrà mai la luce. E' del resto impossibile immaginare che un ceto politico screditato e impegnato a perpetuarsi possa mettere in campo riforme decisive che porterebbero inevitabilmente alla decapitazione di chi le fa. Sarà bene rassegnarsi a un'agonia ancora prolungata della Repubblica. A meno che un Renzi di pari forza e solidi convincimenti non si faccia strada anche nel centrodestra. Allora sarebbero da rivedere i mesti ragionamenti fin qui svolti. 

venerdì 5 aprile 2013

BERSANI E BERLUSCONI DIVISI SU TUTTO MA UNITI DALLA PAURA DI RENZI

di Massimo Colaiacomo

     Girano ancora a vuoto le diplomazie ufficiali attivate da Berlusconi e da Bersani per sistemare la partita del Quirinale. Poco si sa, al di là delle congetture più o meno fantasiose delle cronache, sull'ordito al quale lavorano invece gli emissari di fiducia. La partita politica, per restare a quanto di concreto si vede sulla scena, ha registrato alcuni movimenti importanti, non decisivi, ma meritevoli di un'attenta valutazione.
     Il primo elemento è l'impazienza crescente di Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze ha preso a martellare quotidianamente contro "la perdita di tempo" della politica, espressione scoccata come una freccia all'indirizzo di Bersani reo, a giudizio di Renzi, di aver perso 40 giorni umiliandosi nell'inseguimento dei grillini senza cavare un ragno dal buco. Da qui l'aut aut a Bersani: cerchi l'intesa con il PdL per un governo di scopo, oppure si torni al voto.
     Qui si innestano le varianti di Berlusconi e di Bersani: il primo insiste per un governo di larghe intese, quindi un esecutivo tutto politico, con Pd e PdL, che gli garantirebbe quell'agognata legittimazione politica che insegue da quando è entrato in politica. Bersani non deflette dal suo disegno, anche se guardandosi dietro vede sempre più assottigliarsi le truppe dei suoi sostenitori per un governo sostenuto dai dissidenti grillini e dai naufraghi del montismo. Si tratta, appunto, di un disegno sempre più simile ai fuochi fatui di certe sere estive.
     Renzi è contrario alle larghe intese berlusconiane e al progetto politico già fallito di Bersani. Il sindaco di Firenze ha aggirato entrambi le strategie: il successo dell'una o dell'altra, lo avrebbe infatti  ridotto a una condizione marginale e dilatato enormemente i tempi della rivincita politica nel centrosinistra.
     Ecco che il governo di scopo o del presidente, vale a dire la soluzione che al momento sembra meno remota e attorno alla quale si va coagulando una nuova maggioranza nel PD, si configura come la soluzione più auspicabile o almeno più vicina agli interessi di Renzi. Per le ragioni opposte, è anche l'approdo più temuto da Berlusconi e da Bersani. Un governo di scopo, infatti, avrebbe un orizzonte temporale limitato, un'agenda circoscritta di impegni - primo fra tutti: la riforma elettorale - e, soprattutto, avrebbe in Renzi, con la sconfitta politica di Bersani, il nuovo candidato premier del centrosinistra. Una simile prospettiva, fondata sulla sconfitta di Bersani, non è rassicurante neppure per Berlusconi: l'ennesimo scontro elettorale, con un avversario che avrebbe la metà dei suoi anni, sarebbe una partita persa in partenza e Berlusconi, si sa, non gioca le partite nelle quali non abbia la certezza della vittoria o almeno della "non sconfitta".
     Renzi è, dunque, la variabile che potrebbe riattivare il dialogo fra Bersani e il Cav.  Dialogo che ruota attorno alla successione di Napolitano. E che ha bisogno, per funzionare sul piano del governo, di scartare personaggi troppo caratterizzati pro (Gianni Letta) o contro (Romano Prodi) Berlusconi. Gustavo Zagrebelski o Stefano Rodotà rappresenterebbero invece il salto nel buio per l'Italia e per la politica, con il loro radicalismo sulfureo sono infatti due rappresentanti di quell' "intransigentismo moralistico" che tanti guai ha provocato e altri può provocare nel nostro Paese.
     L'accordo su personalità come Franco Marini o Giuliano Amato o Massimo D'Alema consentirebbe a Bersani di ridurre il muro di incomunicabilità con Berlusconi, ma non risolverebbe il dilemma sul governo: come escludere Berlusconi se Grillo non porta i suoi voti? E come spiegare l'esclusione di Berlusconi dalla maggioranza dopo aver trovato con lui un'intesa sul Quirinale? Escluso dai giochi sul Quirinale, come potrebbe Bersani tornare alla carica su Grillo per ottenerne il suo sostegno al governo? Il Quirinale è il bandolo della matassa. Alla fine, però, la matassa ha già scritto "governo di scopo". Anche perché, sul Quirinale, ci sono i 50 voti di senatori e deputati renziani senza i quali Bersani non può far nulla. Renzi può a giusta ragione ritenersi soddisfatto: Bersani ora impugna il coltello non più dalla parte del manico ma dalla parte della lama. 

lunedì 1 aprile 2013

I SAGGI? MOTORE DI RISERVA PER ARRIVARE AL 15 APRILE

di Massimo Colaiacomo

     Con la nomina dei 10 saggi, e l'incarico ad essi di formulare proposte per il programma di governo e le riforme istituzionali, il presidente della Repubblica ha messo in campo l'ultima risorsa che la fantasia politico-istituzionale consente al presidente della Repubblica nell'attuale ordinamento costituzionale. Napolitano, sia chiaro, non ha fatto nessun golpe come strillano i giornali vicini al centrodestra. Altrettanto chiaro deve essere che l'elasticità minima prevista dalla Costituzione è stata spinta ben oltre i limiti previsti dalla stessa Costituzione. Il concetto di "congelamento", affacciato da qualche opinionista con riferimento alla prorogatio del governo Monti è una metafora troppo educata per descrivere il corto circuito provocato al sistema parlamentare e costituzionale.
     Non passa, e mai può passare, l'idea che un Parlamento, eletto il 25 febbraio, non essendo in grado di esprimere una base parlamentare di maggioranza, perde perciò il diritto a votare la fiducia a un esecutivo o a rinnovarla all'esecutivo guidato da Monti. Questo è, di fatto, un congelamento delle prerogative parlamentari da parte del presidente della Repubblica. Poi, tecnicamente, si deve discutere la differenza fra la sospensione di quei diritti o la loro confisca da parte di un potere previsto dalla Costituzione nel ruolo arbitrale.
     Il paradosso è evidente: Napolitano ha agito nel rispetto pieno della Costituzione. Ha ascoltato le forze parlamentari ed esplorato, come è suo preciso dovere, le vie possibili per la nascita di un governo con una maggioranza parlamentare certa se non solida. Non è i uscito nel suo intento. Egli è nel semestre bianco, quindi nell'impossibilità costituzionale di sciogliere il Parlamento. Quali altre strade poteva imboccare, a parte le sue dimissioni? È cosa sarebbe stato dell'Italia e del suo debito pubblico (e quindi dei risparmi degli italiani) lunedì Primo aprile quando, alla loro riapertura, i mercati si fossero trovati davanti un Paese decapitato sul piano istituzionale, con un goveno prorogato e da nessuno voluto e un Parlamento paralizzato dai veti delle tre principali minoranze?
     Non è dato sapere, mentre questa nota è in fase di elaborazione, quali sentimenti si agitano nell'animo degli italiani costretti probabilmente a passare la Pasqua più amara e ansiosa degli ultimi decenni. Certo è che domani, lunedì Primo aprile, un primo verdetto dai mercati dovrà venire e non sarà, come molte cose lasciano prevedere, un giudizio positivo. Sono circostanze drammatiche quelle che hanno spinto Napolitano, contro la sua volontà di custode leale e fermo della Costituzione a sfiorare il limite estremo della stessa.
     Cm la decisione di incaricare i saggi Napolitano ha dunque compiuto una duplice azione, contraddittoria quanto si vuole ma ineluttabile: ha denunciato, da un lato, la crisi irreversibile di tenuta del sistema e, dall'altro lato, ha cercato di porvi un rimedio temporaneo. L'ha tamponata ma certo non risolta, non avendone gli strumenti. Essi sono nelle mani del Parlamento e dei partiti che lo esprimono. E questo è un ulteriore elemento di complicazione laddove dovrebbe essere la soluzione. In nessuna democrazia occidentale si è mai assistito a uno scontro aspro e all'ultimo sangue come quello ingaggiato dal Pd contro il PdL. Il muro di pregiudiziali innalzato dai vertici del Pd, e assecondato da un'opposizione interna che solo adesso sembra scuotersi dal torpore, è stato ricambiato con la stessa moneta da Silvio Berlusconi. Entrambi - Bersani e Berlusconi - paralizzati dal potere di veto esercitato dai "grillini" attraverso la mobilità funambolica del loro leader. Grillo gioca agevolmente di rimessa, cosa che i suoi avversari gli rendono estremamente facile.
     L'incartamento del quadro politico non lascia intravvedere soluzioni a portata di mano. Ogni minima forzatura, del Pd verso il PdL o viceversa, rischia di tramutarsi in una spallata a una legislatura che sembra morta in culla. Da qui al 15 aprile è comunque cambiata l'agenda dei partiti: l'accordo da ricercar è ora sul Quirinale. Da come esso sarà trovato, sempre che un accordo sia trovato, sarà agevole capire se ci sarà un governo o se invece si precipiterà verso nuove elezioni. A questo punto possibili anche a luglio, con vantaggio di Bersani e Berlusconi perché costringeranno Matteo Renzi a rimanere sugli spalti.