venerdì 28 febbraio 2014

(POST DI VENERDÌ, 28 FEBBRAIO 2014) CAPITALE CORROTTA, NAZIONE INFETTA

RENZI HA SBAGLIATO, NIENTE PIÙ TRIPPA
ALTRIMENTI I GATTI NON ACCIUFFANO IL TOPO


di Massimo Colaiacomo

"Capitale corrotta, Nazione infetta": era il titolo diventato famoso con cui l'Espresso di Arrigo Benedetti presentava l'inchiesta di Manlio Cancogni sul sacco edilizio di Roma. Era il 1955. La corruzione e il sacco edilizio sono oggi gli stessi di 60 anni fa. Ad essi si è aggiunto, coda inevitabile, il saccheggio delle ultime riserve di civismo di una città che ne ha sempre avuto molto poco. Roma non è corrotta per istinto o per vocazione dei suoi abitanti. Qualunque altra città eletta sede di corti papali, principesche o democratiche non sarebbe sfuggita al suo destino.
La vicenda del decreto "salva Roma" è in qualche misura la metafora della storia moderna della Capitale. Con l'eccezione di Ernesto Nathan, il sindaco straordinario che guidò la Capitale dal 1907 al 1913 e primo sindaco (e, chissà, forse unico) estraneo agli interessi dei proprietari terrieri, il Sindaco della Capitale è stato sempre visto come un mediatore accorto di interessi: funzione sicuramente necessaria per ogni sindaco, ma a Roma resa esclusiva, e dunque rischiosa, dalla corposità prevalente degli interessi terrieri.
Governare Roma ha significato per tutti i Sindaci, di qualsiasi colore politico, assecondare e "aggiustare" le esigenze dei proprietari di grandi aree fabbricabili. E rendere fabbricabili quelle che non lo sono è uno dei poteri maggiori, e una delle principali fonti di corruttela, esercitati dalla Giunta capitolina.
Per dire che a Roma il governo dei servizi sociali, del trasporto pubblico, delle scuole materne o della pulizia delle strade non sono esattamente in cima ai pensieri di chi amministra. Essi sono temi per lo più accessori, buoni da cavalcare sotto le elezioni. In campagna elettorale, i candidati sindaci incontrano le rappresentanze delle diverse categorie sociali che a Roma più che altrove hanno la forza temibile delle corporazioni. I costruttori e i "palazzinari" sono la prima e più importante categoria alla quale si rivolge ogni candidato speranzoso di salire sul Campidoglio e indossare la fascia tricolore. Cosa c'entra tutto questo con il default del Comune evitato dal presidente Renzi con una indulgenza i cui danni ricadranno sui cittadini romani? C'entra a tal punto da essere il cuore stesso dei problemi di Roma.

La Corte burocratico-impiegatizia cresciuta negli anni è il prezzo pagato da ogni Sindaco per integrare, con un consenso costosissimo per le casse dello Stato, il sostegno garantito dalle corporazioni degli affari, ricche abbastanza per finanziare la campagna elettorale di tutti i candidati ma non sempre provviste dei bacini di voti necessari per garantirne l'elezione. Così si spiegano i 62 mila dipendenti distribuiti fra Comune e Società, direttamente o indirettamente controllate dal Comune stesso. Il "generone romano", fatto di "alti papaveri" della burocrazia ministerialecapitolina, regionale e provinciale, è nato così e si è sviluppato nel tempo: una metastasi diffusa e tentacolare, ma non particolarmente aggressiva finché la spesa pubblica scorreva a fiumi e non c'erano tetti o vincoli europei. Anche il "generone" si è corrotto col tempo e ha dovuto pagare prezzi sempre più pesanti all'avanzare della "democrazia spartitoria" e agli appetiti antichi degli esclusi. Come altrimenti spiegare il germinare di Consigli di Amministrazione, di Società affamate di presidenti, direttori, consiglieri. Per tutti loro erano pronti generose indennità e gettoni di presenza. Musei, monnezza, scuole, trasporti, acqua (meglio pubblica: così "se magna e se beve") luce. Un gran carosello di opportunità e di ricchezza rubata allo Stato e incamerata dai moderni Lanzichenecchi.

Per tornare a Ernesto Nathan. Quando, nel 1911, un funzionario del Campidoglio gli sottopose il libro del bilancio per le opportune verifiche, l'attenzione del Sindaco si fermò su una voce: "frattaglie per gatti". Chiese spiegazioni al funzionario il quale, nel modo più naturale, fece osservare a Nathan che la cospicua colonia felina del Campidoglio era indispensabile per tenere lontani i topi che altrimenti avrebbero divorato i documenti custoditi negli uffici e negli archivi capitolini. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando al suo esterrefatto interlocutore che d'allora in avanti i gatti del Campidoglio avrebbero dovuto sfamarsi con i roditori che avevano lo scopo di catturare e, che nel caso non ne avessero più trovati, sarebbe venuto a cessare anche lo scopo della loro presenza. Da questo episodio sarebbe derivato il detto romanesco Nun c'è trippa pe' gatti.

Il decreto "salva Roma" (o, secondo i malevoli, "salva Marino" ma, secondo i renziani, "inguaia Marino") nasce con lo scopo di togliere l'eccesso di trippa a buon mercato di cui hanno fino a oggi goduto i potenti roditori politici che si sono avvicendati in Campidoglio. Risanare Roma non è semplice. Riempire i serbatoi vuoti del civismo e dell'etica non è operazione agevole in un'epoca in cui il populismo è il filo conduttore di ogni strategia politica e amministrativa. Se i romani non hanno nulla da dire sul luridume dei mezzi pubblici dove chiunque può salire senza pagare il biglietto sicuro di farla franca. Se i romani fanno slalom nella sporcizia delle strade e aggirano buche dell'ampiezza dei laghi Masuri. Se i romani si muovono al buio delle loro periferie abbandonate, appagati di raggiungere il Centro per una serata divertente. Se tutto questo viene accettato, come è stato accettato per decenni, allora il decreto "salva Roma" è stato l'ennesimo errore del governo nazionale.

Chi ama Roma non può non desiderare il fallimento del suo Comune. Un fallimento dalle conseguenze sociali drammatiche e con gravi disagi per tutti i cittadini è la sola arma capace di scuotere dal torpore secolare una Capitale che non merita il destino per essa immaginato dal ceto politico e troppo a lungo condiviso dai suoi abitanti.   



lunedì 24 febbraio 2014

RENZI IN BILICO FRA IL POSSIBILE E IL PROBABILE

PUÒ UN PREMIER IGNORARE LA POLITICA ESTERA?

di Massimo Colaiacomo

Il presidente del Consiglio italiano, cioè di un Paese membro dei più importanti organismi internazionali e di un antico sistema di alleanze nonché tra i fondatori dell'Europa, può ignorare nel suo discorso di insediamento la dimensione della politca estera e sbrigarsela con la solidarietà ai due marò trattenuti in India? Certo, può ignorare il capitolo di politica estera ma in questo caso l'emiciclo di Palazzo Madama viene degradato al livello di un qualsiasi consiglio comunale. Matteo Renzi ha corso il rischio, non si sa quanto deliberatamente, e il risultato è stato un discorso giocato sulle corde dell'emotività e privo di qualsiasi respiro politico.
Ha costruito il suo discorso parlando al Paese e meno al Parlamento, ha toccato le corde dell'emotività, si è messo in bilico fra il probabile e il possibile. Pochi impegni concreti, ravvicinati nel tempo: il rimborso dei crediti alle imprese; la messa in sicurezza degli edifici scolastici; il taglio del cuneo fiscale in una percentuale a due cifre. Quanto al resto, è avvolto nelle nebbie del futuro. In mezzo, fra il possibile e il probabile, Renzi ha messo la legge elettorale. Su questo tema ha cercato lo slalom fra le impuntature di Alfano (sua è la richiesta di una clausola sulla inutilizzabiità della legge elettorale senza le riforme del Senato e del Titolo V della Costituzione) e la perentoria richiesta di Silvio Berlusconi (una volta approvata, la legge elettorale è subito esigibile). Renzi ha preferito rifugiarsi nella generica necessità di approvare tutte le riforme necessarie al Paese.
L'Italia che emerge dal discorso di Matteo Renzi è un Paese ricco di energie e di creatività, di voglia di fare e di cambiare, pronto a ritrovarsi come comunità e come nazione solo che la politica decidesse di muoversi e mettersi in cammino con la realtà. La genericità del suo discorso ha creato e creerà qualche imbarazzo all'opposizione intransigente dei grillini: evitando impegni troppo precisi, Renzi ha evitato altresì di esporsi al fuoco delle critiche del M5S lasciandosi peraltro ulteriori margini di iniziativa.
L'orizzonte temporale del suo impegno risulta così scadenzato su due tempi. Una prima parte, fatta di impegni concreti, da mettere in cantiere da qui a settembre-ottobre. Una seconda parte, invece, tutta da inventare, è rinviata appunto nei mesi successivi. L'idea di Renzi è che la magioranza farà un check in autunno per capire se il cemento politico che tiene assieme sette partitini e il PD è solidificato abbastanza per puntare a un orizzonte temporale più ampio o se, al contrario, sarà il momento di schiacciare il tasto finish e adare al voto   


lunedì 17 febbraio 2014

RENZI UNO E DUE, DOPO LA CORSA LA PROVA TEMIBILE DEL SURPLACE

di Massimo Colaiacomo

Nessuno e nessuna circostanza possono mettere in discussione la nascita del governo Renzi. Acquisita questa certezza, la curiosità si sposta ora nel vedere il presidente incaricato sotto una luce nuova: esaurito il primo tempo della sua sfida, tutto giocto sulla corsa e sulla esuberanza, ora Renzi è chiamato a una sfida nuova per lui. Dovrà imparare ad alternare il ritmo sostenuto con la tecnica del surplace. Insomma, dopo essere stato Fausto Coppi, dovrà inventarsi un po' Maspes, il grande campione del ciclismo su pista capace di stare lunghissimi minuti fermo sulla bici per costringere l'avversario a lanciare lo sprint e infilarlo all'ultima curva dopo averne sfruttato la scia.
È un Renzi a suo modo inedito quello che vediamo muoversi nella scenografia dei palazzi della politica romana. Uscendo dallo studio alla Vetrata dopo il colloquio con Napolitano per il conferimento dell'incarico, Renzi è apparso per la prima volta ingessato nel linguaggio, prudenti le sue parole ed ecumenico nei propositi. Ma non generico. Il modo in cui ha messo in fila gli impegni nell'agenda del governo non è stato certo casuale. Eccoli: la legge elettorale a febbraio; a marzo la riforma del lavoro; a aprile la pubblica amministrazione; a maggio la riforma fiscale.
Anche il più ottimista dei renziani, naturalmente, avrebbe di che sobbalzare. Il presidente incaricato ha disegnato un vero percorso di guerra per il governo. Ma bisogna fermarsi sul calendario. La legge elettorale viene prima. Per la ragione, si può supporre, che in questo momento Renzi non dispone di armi per affrontare il negoziato duro da intavolare con un alleato riottoso e in difficoltà come Angelino Alfano. "Ricaricare la pistola" con la nuova legge elettorale è essenziale perché solo così Renzi può disporre di argomenti convincenti con Alfano. Non servono con Casini il quale, con la consueta sagacia tattica, ha già fatto la sua scelta pro-centrodestra bruciando Alfano sul tempo.
Non a caso Renzi ha ricordato ancora stamane, dopo il colloquio con Napolitano, che la sua azione riformatrice si svolge su due piani, quindi con due maggioranze distinte: una maggioranza "dell'arco cotituzionale" (curioso come chi si candida a fondatore della Terza Repubblica abbia rispolverato una figura tipica della prima), quindi con Forza Italia, approverà la legge elettorale e le riforme istituzionali; alla maggioranza propria di governo rimangono le scelte di politica economica.
Ora non c'è da stupirsi se Alfano e Quagliariello vedono più di un'insidia in questa tempistica renziana. Approvata la nuova legge elettorale, il quadro politico esce dal limbo in cui lo aveva confinato la sentenza della Consulta e la via del voto torna agibile in qualsiasi momento. Quest'arma è quella che serve a Renzi per ridurre a più miti consigli il riottoso alleato. Alfano sa di giocarsi il suo personale futuro politico nell'atto di nascita di questo governo. Chi e che cosa può dargli assicurazione che l'orizzonte della legislatura si allarga fino alla sua scadenza naturale nel 2018? Renzi ha manifestato questo proposito, ma si tratta di un atto in qualche modo obbligato, visto che è difficile per un presidente incaricato darsi una scadenza ravvicinata. Nella strategia di Alfano rimane una inevitabile ambiguità di fondo: se era rimasto nel governo Letta in coerenza con le "larghe intese" personalmente sostenute da Silvio Berlusconi, la stessa motivazione non regge in un governo la cui natura politica è necessariamente più marcata del governo Letta.
Le "larghe intese" residuate dal precedente esecutivo riguardano la legge elettorale e le riforme istituzionali, ma non il governo che nasce soltanto in quanto provvisto di una maggioranza "organica" fondata sul programma ed eventualmente sull'assegnazione dei dicasteri. Sono ambizioni avvelenate allora quelle che nutrono il Nuovo centrodestra. La maggioranza di "larghe intese" con Berlusconi sopravvive per fare la legge elettorale e Alfano pur facendone parte è soggetto ininfluente. La maggioranza di governo vive invece grazie ai voti di Alfano. Fin dove si può spingere l'intransigenza negoziale di Alfano sul governo senza che l'anello più ampio delle "larghe intese" finisca per riassorbire la fragile maggioranza di governo? Se così fosse ecco che d'incanto l'esecutivo di Renzi si trasformerebbe in quel "governo di scopo" per fare la legge elettorale e tornare al voto, magari già in autunno. Ma in quel caso sarebbe un governo obbligato per il rifiuto di Alfano. L'Ncd è in un angolo più di quanto non appaia. Anche perché difficilmente troverebbe sponda in un Casini sempre abile a rimpannucciarsi quando altri lo danno per finito.

Renzi si concede qualche giorno per riflettere sul percorso più adatto dei tanti che gli consentono le variabili messe in campo dai soci. Viaggerà in surplace e se ne starà sereno. Il "patto alla tedesca" è stato scritto in due mesi di dure trattative fra Angela Merkel e Peter Gabriel. Alfano e Renzi, in 72 ore, possono scrivere un "patto all'italiana", cioè sulla sabbia, in attesa che la prima ventata se lo porti via.   

sabato 15 febbraio 2014

RENZI SAPRÀ TRASMETTERE LA SUA AMBIZIONE ALL'ITALIA?

LA SCORCIATOIA USATA PESERÀ SUL FUTURO DEL GOVERNO

di Massimo Colaiacomo

Tutto è stato scritto, ancora di più è stato pensato su Matteo Renzi. Il quasi presidente incaricato è entrato sulla ribalta politica con l'eleganza di un tritasassi, ha quasi malmenato il presidente uscente Enrico Letta, uomo di solida concretezza e larga visione politica, e ora mette le mani sul volante con la promessa di una controsterzata tale da rimettere in carreggiata l'Italia.
La grande curiosità per l'evento è stata un bel po' frenata dai modi spicciativi usati. Però, al sodo, viene da chiedersi: Renzi può essere il ritorno prepotente della politica o sarà soltanto il terzo tempo della sua "sospensione tecnica"? Guardando alla mobilità pulviscolare dei partiti minori, tutti o quasi in surplace - Alfano più di Casini e Monti meno di entrambi - verrebbe da credere alla seconda ipotesi. Su Renzi incombe lo spettro non più delle larghe intese ma di una maggioranza "a macchia di leopardo", con apporti spuri e giochi di trasformismo parlamentare quale non si vedevano dai tempi di Francesco Crispi. Se davvero il prossimo governo dovrà contare su una "maggioranza Arlecchino" in Parlamento diventerà difficile per Renzi invocare la riforma elettorale nella versione fin qui immaginata da lui e da Berlusconi.
Non a caso la stampa estera ha accolto con un misto di curiosità e di scetticismo l'irruzione del sindaco fiorentino sul piano del governo. Se Financial Times ne fa il ritratto di un moderno Fonzie, accusandolo di aver preso "una scorciatoia pericolosa", il laburista Daily Telegraph oltre alla cronaca politica, dedica alla situazione italiana un'analisi in chiave europea. "Se gli italiani guardano con nostalgia ai giorni di Berlusconi, l'Europa ha solo se stessa da biasimare", scrive il quotidiano in un editoriale. "L'Europa - si legge - ha incoraggiato una politica debole e tecnocratica in Italia escludendo Berlusconi nel 2011, introducendo una nuova era di governi che non godono del sostegno elettorale". E Matteo Renzi è "il giovane politico che viene visto, come Monti prima di lui, come un cavaliere sul cavallo bianco, un 'salvatore' che ripulirà la politica italiana. Tuttavia il sindaco di Firenze non ha mai corso in elezioni nazionali, cosa che potenzialmente è una debolezza per un uomo che deve imporre la sua autorità in un parlamento diviso e senza maggioranza".
Colpisce in queste parole l'atto d'accusa all'Europa (e, oggi, Europa è sinonimo di Berlino e di Merkel) colpevole di aver incoraggiato i governi tecnocratici pur di far fuori Silvio Berlusconi. Se a Berlino si è pensato alla riduzione della politica, e quindi del consenso popolare, come terapia d'urto per riportare la finanza pubblica italiana sotto controllo. Una scorciatoia pericolosa che da tre anni priva l'Italia, unico Paese in Europa, di un governo politico fondato sul consenso popolare. Non è accaduto in Grecia, chiamata alle urne due volte fra il marzo e il giugno 2012, e in nessun altro dei Paesi che hanno goduto degli aiuti di Stato.

Se un golpe si è consumato in Italia esso non è stato tanto contro Silvio Berlusconi, quanto piuttosto contro il dovere della politica di esercitare il suo primato nel governo del Paese. Del resto, la confisca della politica da parte di poteri ad essa estranei non è storia di oggi. L'esordio di questa condizione risale almeno ai tempi di Tangentopoli. Da allora i governi tecnici sono stati: Ciampi, Dini, Monti, Letta e, ora, in quella dimensione rischia di finire Renzi. Un Paese privato di una legge elettorale con un Parlamento privo della capacità di farne una purchessia, come può aspirare al proprio riscatto?

martedì 11 febbraio 2014

RENZI RICAMBIA VERSO E TORNA SULLA VECCHIA STRADA

di Massimo Colaiacomo

La fretta di arrivare a palazzo Chigi ha il sopravvento sulle ambizioni di cambiamento radicale dell'Italia e Matteo Renzi dovrà congelare, non si sa per quanto, i propositi che lo avevano portato a conquistare la segreteria del Pd.
Sta accadendo tutto molto in fretta anche se tutto era stato molto previsto. Il paragone con la segreteria di Walter Veltroni e la crisi del governo Prodi era stato fatto dal primo giorno della segreteria Renzi. Ma le due situazioni non sono esattamente sovrapponibili. La crisi di Prodi nacque in Senato, allorché il governo venne sfiduciato e sfociò nel voto anticipato del 2008. La vicenda di oggi è più somigliante a una crisi tipica della Prima Repubblica, allorché il nuovo segretario della DC riorganizzava gli equilibri di potere anche in funzione del governo. E in questa somiglianza è il primo segno di quella che potrebbe essere presto la sconfitta del rinnovatore Renzi. Il quale non prende la guida del governo in quanto leader del partito unico di maggioranza (come accade per i laburisti o i conservatori, come è accaduto fra Thatcher e Major o fra Blair e Brown), ma soltanto per un mutato equilibrio dei rapporti di forza nel Pd con le altre forze politiche che assistono in un ruolo ancillare. Con una differenza ulteriore fra Roma e Londra: da noi tutti i presidenti della Repubblica hanno sempre biasimato le crisi extraparlamentari. Come si vede un'anomalia chiama l'altra.
A complicare il quadro ci sono poi altre due questioni. La prima: una volta divenuto titolare della guida del governo, riuscirà Renzi a tenere separate le due maggioranze, quella delle riforme da quella di governo, senza dover accettare compromessi sulla prima per mantenere in piedi la seconda? Quando a inizio gennaio Renzi ha preso in mano il boccino delle riforme, aveva messo in chiaro che per cambiare l'Italia avrebbe dialogato con tutte le forze politiche e a Letta aveva rivolto l'invito perentorio a non mettere il governo in mezzo su una questione tipica del Parlamento. Come si vede, la realtà è sempre pronta a ribaltarsi e il sentiero riformatore, visto da palazzo Chigi, si fa molto più stretto e tortuoso per Renzi.
L'altra questione riguarda gli attuali soci di maggioranza, in particolare il Nuovo centrodestra. Alfano aveva rotto con Forza Italia sulla base di un valido motivo politico: assicurare il governo del Paese, e assicurarlo dopo il voto di decadenza da senatore di Berlusconi, poiché la maggioranza di "larghe intese" manteneva intatte le sue ragioni politiche. Con l'eventuale staffetta Letta-Renzi, però, la natura e i presupposti politici della maggioranza cambiano in profondità: le intese resteranno larghe, ma se a palazzo Chigi va un premier che ha sempre sostenuto di "non c'entrare nulla con Alfano e Letta", e, soprattutto, va un premier sulla base non più di un programma concordato fra PdL e Pd, ma scritto di suo pugno e avallato dagli organi del solo Pd, sarà difficile per Alfano motivare una rinnovata fiducia sulla base di un programma riscritto in profondità.
Una terza questione riguarda il ruolo del Capo dello Stato. Napolitano si appresta ad avallare una "staffetta extraparlamentare", il che presuppone quanto meno che non ci sia alcun mutamento nella composizione della maggioranza futura. Diversamente, si sarebbe dovuta aprire una crisi formale di governo, con le dimissioni del presidente del Consiglio, le consultazioni al Quirinale di tutte le forze politiche e quindi il conferimento di un incarico per la nascita di un nuovo esecutivo con una maggioranza nuova anche solo perché più ampia.
La crisi di Prodi, nel 1998, nacque in Parlamento, esattamente come nel 2007. D'Alema rassegno le dimissioni dopo la cocente sconfitta alle elezioni regionali del 2000. Ciampi le respinse e dopo le consultazioni affidò l'incaricole a Giuliano Amato. Da notare che il solo Romano Prodi ha seguito il percorso della crisi parlamentare.

Napolitano si troverà, una volta ottenuto il chiarimento chiesto al Pd, davanti a un bivio: avallare il cambio di guardia a palazzo Chigi passando per una crisi formale, oppure Renzi si insedierà seguendo i vecchi riti della Prima Repubblica? Non è questione di lana caprina, perché in gioco è quella repubblica parlamentare sempre ostentatamente difesa, salvo metterla fra parentesi quando maiora premunt. Questo passaggio è per Napolitano molto più insidioso del presunto scoop di Alan Friedman     

lunedì 10 febbraio 2014

PRODI, MONTI E DE BENEDETTI GETTANO IL QUIRINALE NELLA BURRASCA

di Massimo Colaiacomo

Le affermazioni fatte da Mario Monti, Romano Prodi e Carlo De Benedetti al "pubblicista" Alan Friedman  sono soltanto "confidenze personali" e "l'interpretazione che si pretende di darne in termini di 'complotto' sono fumo, soltanto fumo". Si chiude con un'accusa pesante all'indirizzo dei tre protagonisti, certo non involontari, la lettera con cui Giorgio Napolitano ricorda al direttore del Corriere della Sera la trama dei fatti dell'estate-autunno 2011 che culminarono con le dimissioni del governo Berlusconi.
Una vicenda brutta, scivolosa per Napolitano il quale, quando a sera prende carta e penna per precisare i contorni, da sfogo alla sua irritazione verso Prodi, Monti e De Benedetti per non aver osservato il riserbo dovuto alle confidenze del Capo dello Stato. Una storia di confidenze rivelate, di interlocutori che salgono le scale del Quirinale e a distanza di tempo decidono di rivelare i loro conversari con Napolitano ad Alan Friedman. Il succo, come si sa, è che Napolitano già nel giugno 2011, cioè cinque mesi prima delle dimissioni di Berlusconi, avrebbe chiesto a Monti la sua eventuale disponibilità ad assumere l'incarico di formare il governo. Forza Italia ha visto in questa circostanza la radice di un complotto contro Berlusconi, sotto la regia del Quirinale, e in attesa che entrasse in gioco la speculazione sul debito pubblico per rendere attuabile il piano ordito dal Colle con la sponda, come ha sempre sostenuto Forza Italia, del governo tedesco.
Ha ragione Napolitano nel ricordare che i fatti di quell'anno sono "noti e incontrovertibili". Noto e incontrovertibile era lo sfarinamento di una maggioranza di centrodestra, dopo la spaccatura del PdL con l'uscita di Gianfranco Fini. Come nota e incontrovertibile era la divaricazione fra il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il presidente del Consiglio. È altrettanto noto e incontrovertibile quello che ricorda il capogruppo azzurro Renato Brunetta, cioè il Documento di finanza pubblica del governo Berlusconi aveva avuto il via libera della Commissione europea e lo spread Btp-Bund viaggiava intorno ai 200 punti ancora a luglio. Quando poi i mercati si fanno "sottili", cioè con scambi molto bassi e di solito accade ad agosto, si scatenò la tempesta sul debito pubblico italiano e da allora lo spread partì a razzo fino a raggungere i 511 punti di differenziale a novembre.
Questi i fatti "noti e incontrovertibili" raccontati, e già questo è anomalo, in due distinte metà, una del Quirinale e l'altra di Forza Italia. L'uno ignora i fatti dell'altro, e viceversa. Senza però mettere assieme le due cose è difficile ricostruire in modo attendibile quel che accadde in quei mesi del 2011. La storia di Napolitano che incontra Monti a più riprese, la rapidità della sua nomina a senatore a vita l'8 novembre e l'incarico di governo qualche giorno dopo non sono circostanze tali da autorizzare la tesi del complotto.
La curiosità, e quindi il profilo politico della vicenda, è altrove. Perché Mario Monti, Romano Prodi e Carlo De Benedetti hanno deciso di rivelare a Friedman le confidenze fatte da Napolitano a Monti e da questi riferite a Prodi e De Benedetti? Il succo non è nella storia in sé, ma nei suoi protagonisti, primari e comprimari, che la raccontano sapendo di mettere in cattiva luce il ruolo del Capo dello Stato. Hanno alimentato "fumo, e soltanto fumo", come scrive Napolitano al Corriere della Sera, oppure l'animo malmostoso di Prodi doveva ancora smaltire la cocente bocciatura della corsa al Quirinale? E Mario Monti, beneficiato del laticlavio e dell'incarico di governo, perché ha rivelato affermazioni tanto impegnative? 
Qui bisogna allora affidarsi a un altro "fumo": quello che Rino Formica vede alzarsi, come un indizio, dall'intesa fra Renzi e Berlusconi. È davvero circoscritta, si chiede l'ex ministro socialista, alla legge elettorale, riforma del Titolo V e del Senato oppure contiene qualche codicillo non rivelato, tipo l'elezione di un nuovo Capo dello Stato? Formica, da scrupoloso e acuto analista, ricorda una recente battuta di Renzi secondo cui "questo Parlamento eleggerà l nuovo Capo dello Stato". Ora, se è vero che l'accordo Renzi-Letta cronometra la legislatura fino alla primavera del 2015, perché sia questo Parlamento a eleggere il nuovo presidente della Repubblica è ovvio che Napolitano dovrebbe liberare quella casella prima di allora.

In mezzo a simile trambusto, si sono smarrite le ragioni del rimpasto o del reincarico a Letta. Dell'agenda di Impegno 2014 non c'è neanche più traccia. Si profila all'orizzonte un nuovo periodo di forte turbolenza politica e i mercati torneranno a mettersi in agguato. Chissà se gli attori di questa storia si avvedono della tempesta che rischia di sommergere l'Italia.  

sabato 8 febbraio 2014

LETTA ANTICIPA RENZI, SALE AL QUIRINALE E TENTA IL RILANCIO

di Massimo Colaiacomo

La confusione di queste ore è soltanto il prologo a una scossa del quadro politico. Nel senso che la maggioranza sfilacciata che sostiene Enrico Letta deve superare il bivio davanti al quale è stata portata vuoi con le accelerazioni di Renzi sulle riforme, vuoi con l'oggettivo sopore del governo. Si spiega così la necessità per Letta di salire al Quirinale con un programma rinnovato per sciogliere con "l'arbitro" Napolitano un punto interrogativo: esiste una via di mezzo fra il rimpasto e il Letta-bis senza passare necessariamente dalla crisi formale? Sembra essere questo il punto di caduta di una situazione ormai sfarinata e nella quale sia Renzi sia Letta si giocano un bel po' del loro futuro.
Quando il sindaco di Firenze accoglie con un liberatorio "era ora" l'annuncio che Letta salirà al Colle non esprime soltanto soddisfazione per una mossa che va nella direzione del chiarimento da lui auspicato. In realtà Renzi prende atto che Letta si è mosso prima del 20 febbraio, data della nuova direzione del Pd, e ha così deciso di prendere in mano il boccino della situazione, con la copertura del presidente della Repubblica e, si presume, con il pieno sostegno di Alfano.
Il che mette Renzi in una condizione meno agevole che in passato. Perché rimpasto o Letta bis, il segretario Pd dovrà trovare motivazioni più che valide per impedire a esponenti della sua maggioranza di entrare in un governo che avesse un programma rinnovato e un profilo politico più marcato, secondo i suoi auspici. 
Renzi ha un interesse prioritario: evitare che la partita politica nel governo possa provocare scossoni nell'intesa con Berlusconi sulla legge elettorale. Nell'ipotesi davvero remota che possa rompere gli indugi e accettare la staffetta a palazzo Chigi, Renzi sa che si esporrebbe al fuoco di fila dell'opposizione berlusconiana e dei grillini. Per lui sarebbe una fatica supplementare e forse insostenibile tenere separati i due tavoli. Né esiste l'ipotesi, davvero bislacca, di "larghe intese" con Forza Italia che torna in maggioranza.
Berlusconi si muove in questa fase come uno spettatore interessato, pronto a cogliere tutte le opportunità che le lacerazioni del Pd potranno offrirgli. Per questo i suoi interventi telefonici nelle manifestazioni dei club Forza Silvio sembrano contraddittori: accenna a elezioni anticipate (che non ci saranno, come ben sa), ma anche a riforme istituzionali da fare. Vuole un primo ministro dotato dei poteri di revoca dei ministri, ma chiede anche l'elezione diretta del presidente della Repubblica (il che significa farne il capo dell'esecutivo, e allora come può il primo ministro avere poteri superiori?). Il Cav. tira un colpo al cerchio e uno alla botte, strategia nella quale è maestro insuperato, e non potrebbe fare diversamente. La stessa strategia lo guida in queste settimane in una infornata di nomine che rischia di rendere Forza Italia simile all'esercito messicano, tutti ufficiali e neanche un soldato.

Dietro tante nomine, però, si intravvede l'astuzia del generale che galvanizza l'esercito alla vigilia della battaglia. Perché battaglia sarà alle elezioni europee e amministrative, a maggio. Più difficile sarà immaginare la guerra del voto politico in Italia. Quella potrà eventualmente deciderla Renzi, Napolitano permettendo.