sabato 20 dicembre 2014

AL QUIRINALE ANDRÀ UN PRESIDENTE "NAZARENO" E IL CENTRODESTRA SALTERÀ

di Massimo Colaiacomo

     Il successore di Giorgio Napolitano avrà una vita complicata al Quirinale. E non per le diverse o inferiori qualità personali (difficile giudicare chi è ancora ignoto). Ma per ragioni tutte politiche e quindi ancora più difficili da sbrogliare. Nelle schermaglie preliminari avviate il giorno stesso in cui Stefano Folli ha anticipato le dimissioni di Napolitano in coincidenza con la fine del semestre europeo dell'Italia si sono già intraviste queste difficoltà. Non tanto, come si potrebbe immaginare, per i contrasti sul gradimento di questo o quel candidato, questione che la sua importanza, quanto invece per il profilo politico che si richiede al nuovo presidente e sul quale i partiti sono già ferocemente divisi.
     Quando Berlusconi invoca un "presidente di garanzia" non ottiene una risposta negativa da Matteo Renzi, ma la replica è quanto meno obliqua. Nel senso che Renzi è pronto a dare garanzie a patto di riceverne da Berlusconi sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. E questo spiega il braccio di ferro di queste ore: da un lato gli strappi parlamentari del governo sulla Legge di Stabilità, per arrivare all'approvazione della legge elettorale prima dell'elezione del presidente della Repubblica, e, dall'altro lato, con il gruppo di Forza Italia pronto a darne ma sempre più simile a un vulcano ribollente.
     Per accordarsi su un presidente "garante" non si capisce ancora a quale genere di garanzie si riferisca Berlusconi. Garante, per esempio, nel senso di un presidente neutrale rispetto al quadro politico-parlamentare? Sulla carta si tratta di una garanzia minima, ma anche la più difficile da ottenere. Si vuole al Quirinale un politico di esperienza oppure una figura che goda di prestigio internazionale, e ricca di ancoraggi politici in un vasto schieramento? Sono maggiori le garanzie che può dare una personalità con forti radici parlamentari oppure è preferibile una personalità priva di una propria rete di consensi parlamentari ma riconosciuta nella società?
     Se da qualche parte esiste una personalità con tutte o parte di queste caratteristiche c'è da credere che prima o poi Berlusconi e Renzi riusciranno a trovarla. Ma questo è solo un aspetto dell'elezione del Quirinale. Continuando su questa strada, si incontra un ostacolo ancora più grande. Riguarda la natura stessa delle "garanzie" chieste al "presidente garante". Che garanzie deve dare il futuro presidente della Repubblica italiana? Per esempio: garantire l'ancoraggio dell'Italia nell'Unione europea e nell'euro anche a costo di imporre nuovi e maggiori sacrifici agli italiani? In questo caso quel presidente potrà essere eletto soltanto nella cornice del Patto del Nazareno e, di conseguenza, essere il garante di quell'accordo e dei suoi contraenti.
     Renzi deve negare, per quieto vivere nel PD, che l'elezione del Capo dello Stato sia un capitolo dell'accordo con Berlusconi. Ma la replica della realtà lo smentisce: senza un Capo dello Stato che garantisca quell'accordo, all'indomani della sua elezione Forza Italia salta come una santabarbara. Un simile presidente può essere eletto, sempre che Berlusconi sappia recuperare la sua capacità residua di tenere il partito unito, senza i voti di Lega Nord e M5s, interessati a rafforzare il loro profilo di forze antieuropeiste e antieuro per lucrare vantaggi elettorali alle regionali della prossima primavera. 
     Questo scenario sembra il più verosimile, essendo irrealizzabile qualsiasi alternativa poiché né Salvini né Grillo dispongono, insieme, dei numeri per eleggere un Capo dello Stato che sia freddo e distante rispetto all'Unione europea. Uno schema simile è, solo in parte, trasferibile alle opposizioni interne a PD e Forza Italia. Né D'Alema né Fitto sono antieuropeisti e i voti dei loro gruppi non avrebbero difficoltà a saldarsi su un candidato europeista "sgradito" a Renzi e a Berlusconi. Nel loro caso, però, si tratterebbe di costruire una candidatura "a dispetto" di Renzi e di Berlusconi e non "per"  rafforzare le ragioni dell'Italia in Europa che rimangono sì importanti ma accessorie rispetto all'obiettivo principale di mettere in crisi i rispettivi vertici dei partiti.
     A meno di clamorosi errori, Renzi e Berlusconi dovrebbero mandare in porto questo passaggio politico decisivo. Con effetti completamente opposti nei rispettivi partiti: Renzi infatti potrà rinsaldare la presa nel PD ma Berlusconi dovrà prepararsi a pagare un prezzo cospicuo come la divisione di Forza Italia, sballottata fra la battaglia interna sul Quirinale e assediata dalle sirene populiste e antieuropee di Salvini. Il leader leghista è un abile comunicatore e, sia pure senza il fascino oratorio di Marine Le Pen, autentica versione nazional-popolare del gollismo, maneggia con disinvoltura le corde populiste tipiche del Berlusconi prima maniera e dunque ha una strada aperta nell'elettorato nostalgico delle parole d'ordine delle origini.
     Berlusconi deve pagare un prezzo, dopo vent'anni, alle contraddizioni politiche vistose sulle quali ha potuto costruire successi elettorali mai conosciuti da altri prima di lui. Populista e disancorato da ogni logica europea, non è riuscito, né potrà mai riuscire, a trasformarsi in un grande leader conservatore sull'esempio di Rajoy o di Cameron. Meglio, vorrebbe diventarlo ma rimanendo populista. Si sa, però, che non esiste in natura la possibilità di scrivere una solida politica conservatrice su uno spartito populista. Qualcuno di buona lena dovrebbe spiegarlo all'ex Cavaliere.

mercoledì 10 dicembre 2014

LO STATO GESTORE È IL GRANDE ALLEATO DELL'ANTIPOLITICA

di Massimo Colaiacomo

     L'antipolitica non è ineluttabile come una piaga biblica né si può considerare un "male oscuro" provocato da microrganismi ignoti alla scienza e penetrati nelle fibre della società italiana. Essa, al contrario, è nata, almeno in Italia, nelle viscere stesse della politica, dai fallimenti di un ceto di replicanti composto da personale raccogliticcio e improvvisato, per lo più rozzo e privo di quel "senso comune" delle cose e della storia della Nazione senza il quale è a rischio la coesione nazionale.
     La storiaccia di Roma è esemplare sotto questo aspetto. I suoi protagonisti sono dei delinquenti comuni, con trascorsi politici, che hanno conquistato posizioni di rilievo nelle istituzioni locali e nella vita economica capitolina perché consapevolmente chiamati dalla politica a quei ruoli. Carminati o Buzzi non hanno dovuto bussare alla porta del Campidoglio perché essa era già aperta e pronta ad accoglierli e a servirsi della loro opera corruttrice.
     La politica ha bisogno di soldi per manifestarsi all'opinione pubblica. Ha bisogno di soldi per organizzare le campagne elettorali, per occupare il più stabilmente possibile i primi posti nella vetrina del consenso. Tanti soldi servono per mantenere in piedi gli apparati di partito.
     Da dove arrivano i finanziamenti alla politica in un sistema democratico? In genere dallo Stato, dunque dagli stessi elettori, almeno in Europa; dalle fondazioni e dalle grandi "corporate" in America e nel mondo anglosassone. I primi, cioè i soldi pubblici, non bastano alle casse dei partiti i quali si arrangiano come meglio, anzi, peggio possono: tangenti, nomine pubbliche vendute come nel basso medioevo si vendevano le cariche dei vescovi-conti, appalti pilotati.
     Lo Stato gestore di attività economiche è il primo e migliore alleato dell'antipolitica. Chiunque voglia sbertucciare la classe politica nell'ultimo paesino d'Italia non deve affannarsi molto, gli basterà vedere le assunzioni in una municipalizzata o il tenore di vita degli assessori e il gioco è fatto.
     Il dramma italiano contiene, come molti drammi lirici, un paradosso. Ed è che la politica deve, se vuole davvero riappropriarsi del suo ruolo di guida nella società, deve tornare a essere se stessa liberando la società dalle pastoie in cui l'ha messa. Berlusconi, Renzi e tutti i protagonisti dello show quotidiano dovrebbero rendersi invisibili e, mettendo a frutto questa astinenza, lavorare all'unica vera riforma necessaria all'Italia: la ritirata completa e senza eccezioni dello Stato dalla vita economica, dalla gestione diretta e, ancor più, indiretta da ogni attività economica.
     Il contrasto alla corruzione non può essere fatto da chi è il destinatario dell'atto corruttivo. Per dire: non si può nominare il conte Dracula commissario liquidatore dell'Avis perché tutto farà tranne che privarsi della mensa a cui si nutre.
     Renzi si è dato un tempo biblico per ridurre da 8000 a 1000 le aziende municipalizzate. Con L motivazione che non si può fare di tutta l'erba un fascio. Errore gravissimo e cibo fresco per il grillismo. Le municipalizzate italiane, ventre molle e sempre gravido del "socialismo locale", sono l'Avis da cui la politica trae il suo nutrimento quotidiano anche se per nutrirsi usa lo schermo della delinquenza più o meno organizzata. Esse vanno privatizzate, vendute o chiuse, con un decreto ad hoc, anche a rischio di lasciare senza lavoro migliaia di persone. Se, al contrario, il Paese si lascerà impietosire dalla questione sociale, l'antipolitica avrà avuto partita vinta. Meglio 200 mila dipendenti pubblici senza lavoro e la democrazia salva piuttosto che la morte per asfissia di una Nazione.

domenica 7 dicembre 2014

L'ITALIA GALLEGGIA NEL VUOTO DELLA POLITICA (E LA DEMOCRAZIA BARCOLLA)

di Massimo Colaiacomo

     Si può vivere in una società divorata dai saprofiti, cioè da quei microrganismi che si nutrono di materia organica per decomporla e renderla inorganica? Dalla recente storia italiana arriva una risposta sorprendentemente affermativa. Si può, almeno finché il lavoro di decomposizione non è completato. Alla fine, l'azione dei saprofiti risulta addirittura preziosa per la produzione di aria, acqua e in genere di quegli elementi chimici decisivi per ricostruire nuova materia organica.
     Le cronache giudiziarie della Capitale raccontano uno spaccato della società italiana, non solo di quella politica. Niente di più, niente di meno. L'opinione pubblica può essere sorpresa per l'intensità del fenomeno, non certo per la sua estensione e la solidità delle radici. La società italiana cresciuta fuori dal ciclo produttivo fordiano (la fabbrica, l'impresa, la bottega) vive da sempre al di sopra dei propri mezzi, si nutre, come i saprofiti, della ricchezza materiale dei produttori. I quali tentano di sottrarre il più possibile la ricchezza prodotta dagli appetiti famelici dell'Italia saprofita cresciuta nella politica e nell'amministrazione, rifugiandosi nell'evasione e nell'elusione fiscale.
     Ecco la vera trattativa Stato-mafia. L'abbiamo vista scorrere sotto i nostri occhi per decenni senza mai prenderne coscienza: statalisti irriducibili e "produttori" d'accordo nel saccheggiare le risorse pubbliche. Gli uni rubandole, gli altri rifiutandosi, con la scusa dei primi, di alimentarle.
     La politica è stato il traino privilegiato di questo tacito compromesso. A causa del quale è stato distrutto ogni residuo spirito pubblico. La decomposizione del tessuto civile viene da lontano ed è strettamente compenetrata all'uso patologico e abnorme della spesa pubblica, a un sistema di welfare state costruito a misura di uno Stato erogatore di servizi sulla base di uno scambio mafioso con i cittadini beneficiari e dunque complici. La spesa pubblica è stata e tuttora è lo strumento di ogni inquinamento della società italiana. Qualunque politica sia fondata sulla spesa pubblica è destinata perciò ad incrementare l'escrescenza tumorale che divora l'Italia. Non a caso la corruzione, secondo stime dell'OCSE, è maggiore e più estesa nei Paesi europei con il debito e la spesa pubblica più alti in percentuale al PIL.
     In condizioni simili è difficile governare per chiunque. Governare poi privi di un'investitura democratica piena diventa impossibile. È la condizione nella quale si trova Renzi, che continua a scambiare il consenso dei sondaggi con il voto nelle urne. Il governo sta cercando di raddrizzare la barca nei marosi di una tempesta economica ma lo fa con piccoli aggiustamenti di rotta, quando sul timone dovrebbero esserci mani forti e sulla carta una rotta sicura.
     È difficile raccontare all'Italia che per mezzo secolo abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi (Valls lo ha detto ai francesi)? È difficile dire che se la politica non si ritira da ogni compito di gestione e affida, con decreti urgenti, più urgenti del jobs act, ogni servizio locale al mercato, non ci sarà salvezza per nessuno? È difficile sostenere che non possiamo avere lo stesso numero di dipendenti pubblici della Germania se la Germania ha un PIL superiore del 50% al nostro?
     Il momento della verità si avvicina. A marzo la Commissione europea farà conoscere la sua valutazione finale sulla Legge di stabilità ma, soprattutto, sulla bontà delle riforme intraprese da Renzi e già oggi ritenute insufficienti e inadeguate dalla Cancelliera Merkel. Senza una manovra sulla spesa pubblica, le cui dimensioni sono destinate a crescere per ogni giorno di rinvio del governo, la democrazia italiana si espone a rischi mai prima conosciuti.
     Lflat tax immaginata da Berlusconi e da Salvini ha funzionato nei Paesi usciti dal comunismo. Ha funzionato per la semplice ragione che società prostrate dalla dittatura e prive di ogni servizio sociale potevano permettersi livelli di tassazione molto bassi non dovendo finanziare una spesa pubblica elevata. In Spagna la flat tax adottata da Rajoy si limita a finanziare le nuove assunzioni nel settore privato ma rimane invariata la tassazione su tutte le altre forme di reddito da lavoro. Adottare la flat tax generalizzata in Italia, un Paese con la spesa pubblica pari al 54% del PIL, significa calare una mannaia sulla spesa per ridurla di almeno il 40%. Siamo nel regno del wishful thinging. 

sabato 6 dicembre 2014

DRAGHI COMPRA TEMPO, RENZI NON DEVE SCIUPARLO

di Massimo Colaiacomo


     Nessuna persona ragionevole pensa che il giudizio di Standard and Poor's sia la fine dell'Italia. Nessun esponente dell'opposizione e di Forza Italia in particolare può scagliare la bocciatura del Paese contro il governo Renzi dopo aver inveito contro le agenzie di rating a suo tempo accusate di "complottare" contro Berlusconi quando, nel 2011, spararono una raffica di giudizi negativi contro il suo governo.
     Nell'intricata e miserevole vicenda politica italiana, il giudizio dell'agenzia americana sull'affidabilità del debito non aggiunge nulla a quanto già non sia stato scritto e detto. S&P dubita che la riforma del lavoro possa incrementare l'occupazione ma, più in generale, dubita che le riforme fin qui più annunciate che fatte possano essere realizzate nei tempi rapidi richiesti dalla situazione di default tecnico del nostro debito pubblico.
     Il premier ha fatto mostra di non preoccuparsi più di tanto del downgrade sul debito, portato a soli due passi dal giudizio di junk (ciarpame, paccottiglia) in cui si trovano tuttora i titoli della Grecia. Renzi avrà le sue buone ragioni per ostentare sicurezza, ma la realtà oggettiva è contro di lui. Provo a spiegare perché.
     La Legge di stabilità ha ridotto le tasse per circa 16 miliardi sui redditi da lavoro e da impresa ma  punta a recuperare grosso modo la stessa cifra con un aggravio dei tributi (casa) e un incremento della tassazione sui redditi immobiliari  e mobiliari (risparmio, fondi pensioni, ecc). Troppo poche le riduzioni per riattivare il ciclo dei consumi o incentivare le assunzioni, in cambio sono troppo onerosi gli aggravi per incoraggiare una visione rilassata dal lato dei consumi mentre c'è da credere che sarà incrementato nuovo risparmio prudenziale.

     Per marzo 2015 è atteso il verdetto della Commissione europea sulla Legge di stabilità. C'è da credere che nessun commissario si lascerà influenzare dalla bocciatura di S&P (va detto, peraltro, che la stessa agenzia ha confermato il giudizio di "stabile" sul debito italiano almeno per quanto riguarda l'overview nel medio termine). Renzi dovrà però impegnarsi, da qui a marzo, a implementare le riforme e, per quanto riguarda il lavoro, a riempire di contenuti i decreti delegati, possibilmente in senso meno lassista rispetto agli impegni chiesti al governo da diversi ordini del giorno del PD in particolare.

     Da qui ad allora, l'Italia potrà contare sullo scudo di Mario Draghi. Uno scudo temporaneo (il governatore della BCE, almeno in questo, ha gli stessi poteri di altri governatori centrali: "compra" tempo e gira l'acquisto alla politica perché ne faccia l'uso migliore) perché il quantitative easing non è la panacea per i mali cronici dell'Italia. Il QE, oltretutto, varato per acquistare i titoli di Stato sul primo mercato, sarà ripartito pro-quota fra i singoli Paesi. Ciascuno di essi verrà gratificato di acquisti in proporzione alla quota di partecipazione al bilancio europeo e uno studio dell'Istituto San Paolo di Torino ha quantificato in circa il 4% l'acquisto di titoli del debito italiano da parte della BCE. Poca cosa, rispetto all'8% che spetterà alla Germania o al 5% della Francia.

     Se questo è il quadro è lecito chiedersi se l'agenda politica di Renzi è stata o sarà calibrata in funzione di queste priorità. È difficile credere che la legge elettorale rientri fra le questioni su cui si soffermerà l'attenzione della Commissione, mentre è sicuro che userà la lente di ingrandimento sulla riforma del lavoro, sui tagli alla spesa pubblica corrente, alla spesa previdenziale e in genere all'apparato pubblico.

     Renzi ha tutto l'interesse a incoraggiare un clima rilassato all'interno della maggioranza e a non incrinare oltre un certo limite il rapporto con Berlusconi. Se le priorità accennate sono anche quelle del premier, Renzi dovrà fare concessioni, o almeno evitare irrigidimenti, su un passaggio politico delicato come l'elezione del presidente della Repubblica. Il rischio che su questa o un'altra questione si aprano altre fratture nella maggioranza potrebbe rendere drammatico l'appuntamento europeo di marzo.

     Per quel tempo, Renzi dovrà aver fatto le riforme per le quali Draghi da gennaio comincerà a "comprare" il tempo, acquistando Btp e schiacciando ancora di più lo spread Btp-Bund, probabilmente a ridosso di 90-100 basis point. A quel punto, Draghi, un po' come il bimotore che fa da traino, dovrà ritirare il cavo e l'aliante Italia dovrà volare da solo. A Renzi non basterà  incrociare le dita.

lunedì 1 dicembre 2014

IL POPULISMO SCALDA I MOTORI, URNE PIÙ VICINE

di Massimo Colaiacomo

     Matteo Renzi ha confermato il bonus di 80 euro a tutti i lavoratori? Berlusconi si impegna a innalzare le pensioni minime da 516 a 1000 euro al mese. Il premier vara il bonus bebè di 100 euro al mese per il quarto figlio? Berlusconi offre dentiere e interventi alla cataratta a tutti gli over 65. Alfano ha presentato una proposta di legge per l'aliquota fiscale unica al 20%? Matteo Salvini non vuole essere da meno e promette anche lui la stessa aliquota. E via cantando ...
     Matteo Renzi finanzia le sue regalie sociali con un aumento spietato, e non sempre occulto, della pressione fiscale a carico del ceto medio, ma soprattutto a danno dei giovani che devono costituirsi una pensione integrativa importante. Gli altri non dicono se per le loro concessioni aumenteranno le tasse, taglieranno le spese oppure se finanzieranno la loro generosità in deficit spending. Come che sia, l'orgia di populismo a cui gli italiani assistono da qualche settimana è il tradizionale campanello che suonano i partiti quando sanno che devono schierarsi ai blocchi di partenza per la competizione elettorale.
     Nessuno dei concorrenti, di sinistra o di destra, si chiede se davvero le sue promesse sono tali da convincere gli elettori a tornare alle urne. Non un partito che abbia tratto la morale del grande flop elettorale in Emilia Romagna e in Calabria. Gli elettori in Emilia Romagna hanno detto che non credono a nessun partito (63%) e soltanto il 7,4% degli aventi diritto (cioè il 20% dei votanti) ha detto di condividere la ricetta anti-immigrati e anti-tasse proposta da Salvini. Un po' poco perché il leader leghista si senta incoronato nel ruolo di sfidante di Renzi, ma abbastanza per capire che il centrodestra tutto è privo di un leader che sia passabilmente credibile agli occhi dell'Europa e, ancor prima, a quelli degli elettori.
     La Legge di stabilità è stata modellata, e sarò rimodulata nel suo passaggio al Senato, in funzione di uno scontro elettorale. Le tasse, massicce, vengono scaricate sugli anni successivi al 2015 (Fondi pensione, Tfr), i benefici sono invece immediati (taglio Irap, esenzione contributiva per i nuovi assunti ecc.). Se il 2015 è l'anno delle tasse poche e vantaggi molti, esiste forse una finestra elettorale migliore?
     Ora, la leggerezza con cui Berlusconi e Renzi, non meno di Salvini, precipitano verso le urne,  non è solo colpevole ma politicamente scriteriata perché dimostra la loro sottovalutazione rispetto a quanto è accaduto in Emilia Romagna e in Calabria. Davvero i leader politici ritengono impossibile che alle politiche eventualmente anticipate alla primavera del 2015 si presenti alle urne meno di un italiano su 2 se non 1 su 3? Davvero scommettono contro l'impossibilità di un sistema democratico che collassa per asfissia elettorale?
     Il populismo italiano è uno spettacolo al quale il resto d'Europa guarda con sbigottimento e un senso, c'è da sperare, di umana commiserazione. Un Paese acefalo della sua classe politica, quale grado di affidabilità può offrire ai partner europei? Un Paese il cui debito pubblico continua in una corsa forsennata verso il baratro, è destinato a implodere per eccesso di debito o per l'incapacità del ceto dirigente a governarlo?
     È vero che partiva da un livello di disoccupazione doppio rispetto a quello dell'Italia, ma la Spagna di Rajoy ha ridotto in 12 mesi i disoccupati dal 27 al 23% ed entro fine anno il leader spagnolo confida di toccare quota 20. La rapidità di rientro del tasso di disoccupazione è il termometro migliore per misurare il grado di successo delle riforme e delle politiche di bilancio di un Paese.
     Qualche buontempone ha osato paragonare la condizione del debito pubblico italiano a quella americana. Come se la crescita del PIL oltre il 3% negli Usa fosse paragonabile ai quattro anni di Pil negativo in Italia, unico Paese dell'eurozona che non cresce dal 2010. Il populismo in Italia non riposa mai, né la domenica né d'estate. Così, per darle il colpo finale, la carrozza italiana viene condotta verso il baratro da una combriccola di politici preoccupati solo di perpetuare se stessi.  




     
      

mercoledì 26 novembre 2014

LA VOLPE BERLUSCONI LANCIA SALVINI MA PENSA AL QUIRINALE: NON VUOLE FINIRE IN PELLICCERIA

di Massimo Colaiacomo

     Sono in tanti a chiedersi quali calcoli abbiano spinto Berlusconi a ipotizzare per Matteo Salvini la candidatura a premier per il centrodestra. Sarà anche un goleador sul piano elettorale, ma è difficile immaginarlo nelle vesti di federatore di un centrodestra pulviscolare nelle sue formazioni, confuso e divaricato nei programmi. Per Matteo Renzi sarebbe un regalo inaspettato, visto che contro Salvini giocherebbe una partitella di allenamento o poco più. È da escludere che Berlusconi consideri la società italiana, provata da anni di crisi economica e di mancata crescita, pronta per uno scontro ancora più radicale di quelli vissuti durante il suo "ventennio".

     Più probabile, invece, che Berlusconi, sempre mutevole nei suoi umori ma mai distratto nel perseguire quelli che considera gli obiettivi decisivi, abbia regalato sorrisi al leader leghista pensando alla partita decisiva del Quirinale. L'ex Cavaliere, insomma, pensa ad allargare la platea dei "grandi elettori" in vista di scegliere il successore di Giorgio Napolitano. Pensa, soprattutto, a intestarsi una pattuglia di voti per negoziare con Matteo Renzi da una posizione di forza o di minor debolezza.

     Si spiega così quello che Stefano Folli definisce lo "strabismo" del Patto del Nazareno. Più esattamente si tratta dello strabismo mostrato ieri da Berlusconi: avanti negli accordi con Renzi sulle riforme costituzionali, da un lato e, dall'altro lato, semaforo verde a una possibile candidatura di Salvini per il centrodestra. Ora, come la pensi Salvini sul Patto del Nazareno è noto: per lui è più che fumo agli occhi, è qualcosa molto simile a un'impostura.

     La volpe Berlusconi, insomma, non vuole finire in pellicceria, come Bettino Craxi profetizzò per Giulio Andreotti quando qualcuno lo paragonò a una vecchia volpe. Il leader di FI vuole giocare la partita del Quirinale e mettere sul tavolo più carte di quante nella realtà abbia. Tutto sta a vedere se il leader leghista gli consentirà di giocare questa partita senza alzare troppo il prezzo. Per Berlusconi si tratta della partita della sua vita (politica). Perderla, significherebbe certificare l'irrilevanza di Forza Italia e la definitiva archiviazione della stagione berlusconiana con tutto ciò che ne consegue. Esserne protagonista decisivo, al contrario, farebbe di Berlusconi ancora per qualche tempo il dominus del centrodestra.

     Non mancano le incognite e gli interrogativi sulla complicata scacchiera berlusconiana. A Raffaele Fitto non bastano certo i sorrisi di Berlusconi né la promessa che il suo successore, quando verrà il momento (se mai verrà), sarà scelto con un metodo democratico. È difficile convincere chi vuole prendere il tuo posto e per questo ti provoca travasi di bile, che sei pronto a cederlo salvo mettersi d'accordo sulle condizioni. Il politico pugliese, accreditato di un'intesa strategica con D'Alema, è una tessera troppo importante nella strategia quirinalizia di Berlusconi. È verosimile che anche Fitto voglia giocare la sua partita sul Quirinale, per disarcionare l'ex Cav. o metterlo definitivamente all'angolo. Se la sua pattuglia parlamentare si salda a quella dell'opposizione interna al PD (leggi Massimo D'Alema) la scelta del successore di Napolitano farà impallidire le 20 sedute necessarie per l'elezione dei giudici della Corte. E la partita per il Colle potrebbe avere esiti imprevedibili o quanto meno sorprendenti. 


martedì 28 ottobre 2014

BERLUSCONI NON VA CONTRO LA STORIA PERCHÉ NON PUÒ PIÙ SCRIVERLA


di Massimo Colaiacomo

     Nessuno deve aver segnalato a Silvio Berlusconi la bella lettera scritta dalla signora Monica Scarano da Lille (il Foglio, giovedì 23 ottobre) in tema di unioni civili  e di procreazione medicalmente assistita. Neppure Giuliano Ferrara, che lo ha intervistato (il Foglio, martedì 28 ottobre) per registrarne la deliberata volontà di non mettersi "contro la storia".
     Si può partire da quest'ultima, intemerata affermazione di Berlusconi. Il reduce di mille battaglie contro la "giustizia ingiusta", il vincitore di epici scontri elettorali, ha deciso di "farsi cambiare" dalla realtà contro la quale ha navigato e combattuto per un ventennio. Berlusconi sa che la storia è sempre stata scritta dai vincitori, e Matteo Renzi si annuncia oggi come il vincitore di una non breve stagione politica. Berlusconi dovrebbe anche sapere che sono almeno due le modalità per "entrare" nella storia: o sei un vincitore, e la scrivi, oppure sei uno sconfitto che ha combattuto e perso non dentro una storia scelta da altri ma per l'ambizione di volerne scrivere un'altra, diversa e opposta rispetto al mainstream.
     La virata di Forza Italia a favore delle unioni civili è la conferma, a posteriori, delle posizioni clericali (leggi: interesse politico nella fede altrui) che animavano il PdL quando riempì le piazze d'Italia con le manifestazioni pro-family e pro-Life. L'apertura oggi a una legislazione positiva per le unioni civili omosessuali è soltanto l'ultimo atto della resa politica di Berlusconi alle ragioni dei nuovi vincitori. In Forza Italia, come negli altri partiti, si riflette sulla questione delle unioni civili ragionando sulla base di un presunto interesse elettorale. Non c'erano convinti paladini della famiglia naturale (naturale, non cattolica) ieri, non ci sono oggi sostenitori inflessibili delle unioni civili.
     Il riconoscimento giuridico degli affetti privati fra due persone è un'aberrazione costituzionale resa necessaria da chi è seriamente impegnato a demolire l'istituto della famiglia. Quando Berlusconi sottolinea che le unioni civili non potranno mai essere equiparate alla famiglia, dice consapevolmente un'idiozia perché prefigura una famiglia di serie B la quale, una volta costituita, rivendicherà, a quel punto giustamente, lo stesso trattamento giuridico di ogni famiglia. Quanto alla procreazione, come negare a una famiglia costruita con un artificio sociale e giuridico di avere una prole altrettanto artificiale? Su questi punti, è da temere che Berlusconi troverà pane per i suoi denti negli alleati politici che sta inseguendo, Giorgia Meloni e soprattutto Matteo Salvini. La corsa alla normalizzazione di Forza Italia, e dunque alla sua definitiva archiviazione, passa anche da una questione sociale e civile così devastante. Così, dopo le cene gli italiani potranno apprezzare anche le "famiglie galanti".

lunedì 27 ottobre 2014

IL PD SI PIEGA MA NON SI SPEZZA, RENZI AVANTI CON MEZZE RIFORME

di Massimo Colaiacomo

Per tutti i curiosi delle statistiche: Matteo Renzi è il più giovane presidente del Consiglio nella storia della Repubblica, avendo ricevuto l'incarico il 22 febbraio 2014, all'età quindi di 39 anni e un mese. Un record che dalla Repubblica si estende al Regno d'Italia e alla storia dell'Italia unita: prima di Renzi il record era detenuto dal cav. Benito Mussolini, che divenne presidente del Consiglio il 1° novembre 1922, cioè all'età di 39 anni e 3 mesi, dunque di due mesi più vecchio di Renzi.
La curiosità però finisce qui e nessuna malizia autorizza a stabilire un parallelo fra le due vicende politiche. Anche perché Renzi ha fatto sapere ai "leopoldini" che lui conta di limitarsi a due mandati governativi, quindi a un ciclo di governo di 10 anni, salvo che il capriccio della storia e ancor più quello degli elettori non decida diversamente.
Ha scritto con la consueta intelligenza Stefano Folli che la manifestazione della Leopolda è in qualche misura la Bad Godsberg di Matteo Renzi, dal ome della località in cui Willy Brandt celebrò il congresso storico con cui la Spd  rinunciava   Si può solo aggungere che Renzi ha dovuto fare fatica doppia: costruire la sua personale Bad Godsberg e, insieme, scrivere l'Agenda 2020 perché alla sua ambizione non può bastare la rottamazione dell'ideologia marxista e delle incrostazioni di potere costruite grazie ad essa, ma deve aggiungervi lo scatto di Schröder che non poteva avere, nel 1959, Willy Brandt.
Il trattamento ruvido, al limite dello scherno, riservato alla minoranza interna del PD e alla Cgil di Susana Camusso non può essere interpretato come il benservito alla componente ideologica di origine comunista, ormai residuale a dispetto delle migliaia di manifestanti accorsi a piazza San Giovanni. Per la buona ragione che a sinistra del PD non si intravvede al momento lo spazio per una sinistra radicale elettoralmente importante, sul modello Tzipras per intendersi, ma esiste soltanto un terreno, non si sa quanto ancora fertile, per una sinistra populista sul modello grillino. E la forza elettorale di Grillo funziona, paradossalmente, da argine a ogni tentativo di scissione nel PD perché la sua forza di attrazione, appannata quanto si vuole, potrebbe attirare nella sua orbita ogni diaspora a sinistra e quindi privarla di senso politico. 
Per queste ragioni Renzi può dire di non temere avversari alla sua sinistra. C'è da credere, però, che neppure cercherà di crearli. La strategia di sfondamento al centro, premiata come si è visto con il voto europeo, obbliga il premier a muoversi con una dose crescente di disinvoltura e a tagliarsi tutti i ponti alle spalle perché sa che la spaccatura del partito non è alle viste. Questa circostanza, però, non sembra mettere benzina sufficiente nel motore del governo. A Renzi va dato merito di aver messo in moto un cambiamento del costume politico e l'anagrafe dei ministri, come l'anagrafe delle nomine pubbliche, ne sono la testimonianza più evidente all'occhio. Tutto qusto non si è però tramutato in una direzione di marcia chiara e, quel che più conta, non ha indicato al Paese un grande traguardo.
Tutte le sfide economiche sono state rinviate e si può credere che alla fine, con qualche acrobazia, Renzi riuscirà a strappare il sì della Commissione europea al rinvio del pareggio strutturale di bilancio al 2017. In cambio, come ripete il ministro Padoan, di quelle riforme strutturali diventate un po' l'Araba fenice della politica italiana. Ma quali riforme e con quale capacità di incidere nel corpo anchilosato della società italiana? La riforma del lavoro con l'art. 18 mezzo abolito e mezzo riscritto? O quella delle Province, da abolire ma anche da far sopravvivere? O quella della Pubblica amministrazione centrata tutta su una staffetta generazionale destinata ad appesantire il debito pubblico fra nuove assunzioni e pensionamenti anticipati per i dirigenti? La riforma della scuola, vera emergenza formativa e pedagogica della società italiana, consiste in 140 mila insegnanti da assumere o nella costruzioe di laboratori linguistici, nell'affermazione del modello duale scuola-lavoro? Tutto questo non è previsto nell'orizzonte di un esecutivo nato con l'ambizione di cambiare il Paese ma riuscito finora a cambiare il PD. Il che, va riconosciuto, è un ottino inizio sempre che Renzi non lo trasofrmi anche nel traguardo.
 
 

domenica 5 ottobre 2014

MERKEL E DRAGHI ARBITRI DELLA LEGISLATURA, A RENZI NON BASTA PIÙ L'OSSIGENO DI FORZA ITALIA

di Massimo Colaiacomo

Il Patto del Nazareno è l'unico, vero cemento della legislatura. Il resto è scritto sull'acqua. Quando scade il Patto del Nazareno scade la legislatura e, con la legislatura, scadono Forza Italia e il centrodestra, presenze sempre più pulviscolari nel quadro politico. Berlusconi non rottama Forza Italia perché non ha alternative: il brand ha la sua utilità, come si è visto, immaginarne un altro è perfettamente inutile per un leader preoccupato soltanto di governare il proprio declino.
La frantumazione degli schieramenti segue ritmi e tempi diversi a destra e a sinistra. Berlusconi è un leader ormai inadeguato a federare altre forze sulla base di un progetto politico forte e credibile. Contestato dentro Forza Italia, da chi, come Raffaele Fitto, ha avuto il coraggio di denunciare il vuoto politico in cui annaspa il partito, ha perso ogni forza attrattiva verso gli altri alleati. Considera Alfano un traditore, ammicca a Salvini come a "un tribuno di cui tener conto" ma non scalda il cuore di Fratelli d'Italia. Fuori da questa galassia, e con una presa ancora scarsa su di essa, si muove il satellite velleitario di Corrado Passera che potrebbe essere raggiunto presto da Diego Della Valle: due presenze sulla cui forza è lecito nutrire molti dubbi.
A sinistra le cose sono del tutto diverse. Matteo Renzi ha la forza attrattiva sulla società come era per i primi tempi di Berlusconi. Un politico intelligente come Matteo Richetti ha ben riassunto il problema di Renzi: dialoga con il Paese, saltando il partito, e questo apre una questione sulla credibilità politica del PD che mobilita milioni di elettori ma smobilita gran parte degli iscritti. L'idea dell'uomo solo al comando si è fatta strada, forse oltre le intenzioni dello stesso Renzi, e questo complica terribilmente ogni proposta di riforma delle istituzioni. Perché il Senato e la legge elettorale, sempre che regga il Patto del Nazareno, saranno abiti confezionati su misura non più sul sistema dei partiti ma sulla capacità e sulla forza del candidato di imporre la leadership nel proprio schieramento.
Renzi ha conquistato milioni di elettori al PD ma questa circostanza inquieta una parte dell'apparato del partito che vede così minacciata quella certa idea della politica da elaborare all'interno degli organismi e dell'apparato. Resta da chiedersi se la capacità di espansione di Renzi nella società italiana abbia toccato il suo apice o se disponga di ulteriori margini. Di sicuro si sono ristretti i margini per le formazioni minori alla sua sinistra, erosi dalla capacità manovriera del premier.

Sulla partita politica che Renzi gioca in Italia pesa l'ipoteca di un arbitraggio esterno sul quale il premier non può esercitare nessun condizionamento. Renzi ha preso impegni in Europa e la Commissione europea, e dunque il Partito popolare e dunque Angela Merkel, sono i veri arbitri della partita politica in Italia. La Legge di stabilità varata dal Consiglio dei ministri non è diversa da una lastra di difficile lettura, con alcune opacità sulle quali i radiologi di Bruxelles vorranno fare chiarezza. Troppe clausole di salvaguardia, e quindi troppi rischi di nuove tasse (meno detrazioni fiscali sono nuove tasse, chiamate diversamente). Il premier gioca di sponda con la Bce, in attesa di vedere se e in che misura il "quantitative easing" preannunciato da Mario Draghi ma duramente osteggiato dai Paesi nordici (e da quanti come Grecia, Spagna e Portogallo hanno "fatto i compiti a casa" e sono ora contrari a concessioni per Francia e Italia dopo essersele viste negare). Ma Draghi non è indulgente: le misure monetarie non sostituiscono le riforme strutturali. Come nel gioco dell'oca, Renzi torna alla casella iniziale: ha la forza in questo Parlamento, e nel PD, per fare quello che a nessuno prima di lui è riuscito?  

giovedì 28 agosto 2014

IN EUROPA SI TAGLIA OVUNQUE LA SPESA, RENZI ASSUME 100 MILA INSEGNANTI

Massimo Colaiacomo

La parola austerità ha una strana declinazione in Italia, eccentrica sicuramente rispetto al resto dell'Unione europea. Dal Regno Unito alla Germania, passando per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda essa ha significato, dal 2008 in avanti, tagli draconiani alla spesa pubblica, riduzione del personale pubblico a tutti i livelli e, ove possibile, riduzione delle tasse su imprese e persone.
Il vulcanico premier italiano, titolare pro tempore del terzo pubblico al mondo, ha imboccato la direzione contraria come succede a qualche sbadato quando entra in autostrada. Il crash non è sicuro, se Renzi saprà in tempi brevi invertire la rotta. Purtroppo, per come si sono messe le cose, sembra che anche Renzi abbia deciso di andare a sbattere come i suoi predecessori Monti e Letta.
Che idea si faranno Mario Draghi e Wolfgang Schaüble dell'azione di governo dal lato della finanza pubblica leggendo di 100 mila insegnanti da stabilizzare nelle scuole italiane? La metà di essi dovrebbe essere presa dalle graduatorie di vecchi concorsi, il che significa che si tratta di concorrenti che non avevano superato la prova. Bene: e la meritocrazia sbandierata da Renzi che fine ha fatto?
Nel luglio del 2015 verrà a scadenza il meccanismo dell'OMT (Outright monetary transaction), voluto caparbiamente da Mario Draghi nel luglio 2012 con il famoso annuncio che impegnava la Bce whatever it make, a fare qualunque cosa fosse necessaria per impedire la disintegrazione dell'euro.
Quel meccanismo altro non era se non l'acquisto di tempo da parte della Bce che si impegnava a sostenere il corso dei Titoli di Stato dei Paesi indebitati, comprando i titoli sul mercato secondario, così da concedere tempo ai rispettivi governi per fare le riforme strutturali. Nei due anni trascorsi non una sola delle riforme necessarie è stata fatta, nel senso che è stata approvata e resa operativa con i decreti attuativi. Mercato del lavoro, riforma della P.A., riforma delle agenzie del lavoro, della scuola: nulla di fatto su tutti i fronti.
Il governo Renzi naviga a vista, a dispetto della girandola di annunci quotidiani, si direbbe ad horas, stretto come è dalle mille contraddizioni del PD e privo di un'opposizione di destra davvero liberale, europea e riformista. Il populismo di Renzi non solo non trova contrasto nell'opposizione, ma si alimenta anzi del populismo di Berlusconi che ha tracciato una strada ampia sulla quale, con l'eccezione parziale di Monti, si sono incamminati tutti i governi. È come se l'Italia, prigioniera dell'eterna incertezza della sua ruling class, preoccupata unicamente di salvare se stessa, avesse già deciso di gettare la spugna e uscire dal ring europeo.
Come ha dimostrato Giancarlo Elia Valori in un'analisi lucida su Formiche.net, non c'è bisogno di alcun Redemption Fund European poiché la proprietà di migliaia di nostre piccole e medie imprese è già passata nelle mani di imprenditori tedeschi, olandesi o inglesi. L'Italia non è e non sarà svenduta per volontà di "circoli" finanziari internazionali (la sirena del complottismo che tanto piace evocare a Berlusconi e alla destra italiana) ma è stata svenduta a causa del fallimento del suo ceto politico. Se Renzi vuole assicurare il posto a 100 mila insegnanti-elettori evidentemente non ha escluso dal suo orizzonte il ricorso alle urne nella primavera 2015, una volta approvata la riforma elettorale e la riforma del Senato, inutili entrambe per salvare l'Italia ma utilissime per salvare il ceto politico.

Non è antipatriottismo, a questo punto, sperare che sia la trojka economica a prendere il timone delle operazioni in Italia per farne un Paese europeo, cioè "normale" come tutti gli altri. 

martedì 26 agosto 2014

RENZI E L'ITALIA PIÙ SOLI IN EUROPA

di Massimo Colaiacomo

Ha giustamente osservato Antonio Polito sul Corriere della Sera di oggi che chiunque sia al governo in Francia "Parigi non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania". Il riferimento è alla grave crisi di governo che ha portato alla sostituzione del ministro dell'Economia, fiero avversario dell'austerità made in Germany. Quasi nelle stesse ore del licenziamento di Montebourg, Angela Merkel, ospite di Mariano Rajoy a Santiago de Compostela, sua città natale, accoglieva con entusiasmo la candidatura del ministro del'Economia spagnolo, De Guindos, quale successore dell'olandese Dissjelbom nel ruolo di presidente dell'Eurogruppo.
Che cosa è accaduto fra Parigi e Santiago de Compostela? Una cosa molto semplice: Francia e Spagna sono allineate con Berlino sulla politica di austerità fiscale. Rajoy ha già fatto i compiti, Hollande si prepara a farli con provvedimenti economici ancora da definire ma sulla cui incisività, dopo il licenziamento del riottoso Montebourg, non è lecito dubitare. L'Italia di Matteo Renzi da ieri è più sola nell'Europa politica. Renzi non ha cambiato verso all'Europa, come aveva più volte anunciato, non si sa se con più presunzione o più ingenuità, e ora è l'Europa che si prepara a cambiare verso all'Italia. Il legame più forte, ma anche più condizionante, rimane quello con il governatore della Bce. L'idea bislacca di Romano Prodi e, a quanto pare, di Silvio Berlusconi, frutto della furbizia levantina dei due personaggi, di costituire un asse mediterraneo per arginare la politica fiscale di Berlino è fallita miseramente. Pochi si erano accorti che a giugno, al vertice dell'Eurogruppo, la Spagna aveva opposto un netto rifiuto alla richiesta italiana di rinviare al 2016 il pareggio di bilancio.
Rajoy ha fatto digerire due anni di austerity fiscale agli spagnoli, ha risanato i conti grazie alla moratoria concessa dall'Europa ma ripagata da Rajoy con riforme coraggiose, soprattutto nel mercato del lavoro ma anche con licenziamenti nella pubblica amministrazione e un taglio degli stipendi nel pubblico impiego. Soltanto un ingenuo - e Prodi e Berlusconi non lo sono - poteva immaginare che Rajoy potesse concedere a Renzi quel che lui si era dovuto guadagnare sfidando le piazze piene di indignados.
Il ceto politico italiano è inguaribilmente votato al populismo. Quando Draghi aveva accennato, prima di Ferragosto, alla necessità di cedere "quote di sovranità nazionale" all'Europa, e dunque alla Commissione e alla Bce, per fare le riforme struturali a chi altri se non all'Italia correva il suo pensiero?
L'ipocrisia è la leva a cui si aggrappa il ceto politico italiano per esorcizzare gli scenari più cupi. Non è forse ipcrita la destra che si straccia le vesti quando viene evocata la costituzioe di un Redemption Fund per l'Italia in cui far confluire gli asset più importanti dello Stato per alleggerire il debito pubblico? Bene, nessuno vuole svendere lo Stato, ma il governo che cosa aspetta allora a prendere le misure drastiche per raddrizzare la rotta del Paese? Invece di girare attorno all'art. 18 e strepitare contro la discussione ideologica e il totem e i tabù, perché Renzi, come fece Schröder nell'agosto 2003, non riunisce il Consiglio dei ministri e dichiara unilateralmente decaduto l'art. 18 delo Statuto dei lavoratori anziché aggirare l'ostacolo e allungare i tempi in attesa di una riscrittura dello Statuto?
L'Italia è da oggi più sola in Europa, il Pd è più isolato nella famiglia dei socialisti e Forza Italia è addirittura in quarantena dentro il Ppe. L'Italia è sicuramente un grande Paese, come ama ripetere Renzi, ma il suo problema è il ceto politico composto da personalità unfit, si chiami il premier Berlusconi o Renzi.

giovedì 21 agosto 2014

LA JIHAD CHE È IN NOI

di Massimo Colaiacomo

Le Chiese, quelle cattoliche, sono vuote. Pochi i fedeli che si recano a Messa la domenica. Una stima della Cei, alcuni anni fa, calcolava in circa 7 milioni i cattolici che frequentavano la Chiesa nel giorno dedicato a Dio. Pochi rispetto ai circa 23-24 milioni degli anni Sessanta. Quel numero segnala l'avvenuto processo di secolarizzazione della società italiana ma in generale dell'Occidente scristianizzato. Un grande Papa come Benedetto XVI aveva capito l'insidia luciferina di quei numeri ed era corso ai ripari, o così credeva, nominando mons. Rino Fisichella responsabile dell'evangelizzazione in Europa. La Chiesa globalizzata di Papa Wojtyla non si era accorta di aver perso le radici proprio dove era nata.
Il discorso di Ratzinger a Ratisbona, non meno della sua lectio magistralis al Bundestag nell'autunno 2011, venne salutato da una salva di critiche poiché per la prima volta un Pontefice romano aveva sostenuto che le religioni, tutte meritevoli di rispetto e ciascuna dignitosa nella propria ricerca della trascendenza, non erano per questo tutte uguali. Ratzinger aveva cercato di portare la teologia cristiana fuori dalle secche del relativismo di una globalizzazione che tende a fare di tutte le erbe un fascio. Lo stesso Dio dei cattolici, degli ebrei e dei musulmani - era il succo del discorso di Benedetto XVI - non può suggerire la carità agli uni e indurre gli altri a cercare il martirio uccidendo un fratello diverso nella fede.
L'Occidente secolarizzato non può porsi domande scomode perché ciò comporta una notevole perdita di tempo nella ricerca di risposte che non sono più scontate. Non si trovano su internet o su un qualsiasi sito on line. La secolarizzazione di una società non è mai un fenomeno indolore poiché comporta un travaso di valori, e più spesso una loro distruzione, e mette a disposizione degli individui vie di fuga le più impensate. Perché, allora, una società secolarizzata e scristianizzata avverte il bisogno di valori spirituali e li trova nell'islamismo o nel buddhismo o in qualsiasi altra religione ma non più in quella cristiana e nelle sue varianti protestante o evangelica?
La confusione fra secolarizzazione e fine della vita spirituale ha prodotto quel fenomeno che tutti vediamo e di fronte al quale solo gli ingenui sgranano gli occhi per la sorpresa: la jihad fa proselitismo nel cuore di una società un tempo cattolica o protestante. È un proselitismo sui generis, poiché alla spinta spirituale si associa un'evangelizzazione ideologica contro l'occidentalismo e in genere contro le società ricche e opulente. Un cocktail simile viene servito da qualche decennio in tutti i Paesi della vecchia Europa e in America, nei modi e attraverso canali i più diversi. Certo l'immigrazione ha il suo peso, ma non è risolutivo. Una persona che crede in una causa, si infervora in sua difesa e infervora chi lo ascolta, ha una forza di persuasione incredibile e incontenibile per chi vive in una società senza più altra rotta che non sia il benessere materiale.
Aveva ragione Arturo Graf, storico piemontese dell'Ottocento, quando osservava, a proposito delle cause dei conflitti fra i popoli, che esse non vanno quasi mai cercate nei bisogni materiali dell'uomo. "Terribile e incoercibile - scriveva Graf - è la forza delle cose che non furono, non sono e non saranno". La fede, le idee, i valori ideali sono le molle più potenti che spingono l'uomo ad aggredire i propri simili.
James Fowley è stato decapitato. Un coltello, invece di un colpo di pistola alla testa, ha una forza evocatrice straordinaria perché è un altro uomo, con le sue mani, ad uccidere un proprio simile. La pistola o una raffica di kalasnikhov sarebbero state una mediazione meccanica che privava l'uccisione di Fowley della ritualità e della ferocia primitiva del gesto.
La jihad è destinata a crescere in Occidente, a fare nuovi proseliti in Gran Bretagna e altrove. La sua forza è nel deserto di valori spirituali e morali cui è ridotta questa parte del mondo. Loro credono in una cosa, noi crediamo in troppe cose per credere anche a una sola di esse. Le religioni non sono tutte uguali e il Dio di Abramo e di Isacco non può essere lo stesso Dio che ordina ai jihadisti di sgozzare i cristiani. Sarà bene che la Chiesa prenda consapevolezza piena di ciò che sta accadendo e non trasmetta, invece, nuovi segnali di resa culturale e spirituale.


martedì 12 agosto 2014

AUTUNNO DI SCELTE PER EVITARE L'AUTUNNO DEL GOVERNO

di Massimo Colaiacomo

Matteo Renzi può concedersi una breve pausa estiva e godersi la soddisfazione della riforma del Senato. Ha messo a segno, è innegabile, un punto importante nella sua strategia del cambiamento. Un punto che lo rafforza dentro la maggioranza parlamentare e che rende agevole gli altri passaggi della riforma prima che questa diventi norma costituzionale. Questo, però, è un percorso, per così dire, che disegna l'Italia che verrà per le nuove generazioni. Alla ripresa autunnale Renzi dovrà mettere la testa sulle difficoltà presenti di un quadro economico periclitante sul quale si addensano nuvoloni carichi di pioggia. L'outlook di Moody's che prevede un 2014 con il segno meno del Pil è un campanello d'allarme da non sottovalutare ma neppure da enfatizzare come qualche oppositore ha fatto.
Le difficoltà strutturali dell'economia italiana sono oggi le stesse di tre o cinque anni fa: le mancate riforme del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione sono la zavorra che rende difficoltosa qualsiasi ripresa economica. La riforma delle pensioni di Elsa Fornero, tanto vituperata a suo tempo, è stato quasi svuotata dalle 6 deroghe di questi ultimi due anni. Renzi dovrà dissodare un terreno accidentato e reso sterile dai veti politici e corporativi. La riforma della P.A. licenziata dalla Camera è uno strumento ridicolo. L'idea di rottamare i dirigenti derogando alla legge Fornero e quindi con pensionamenti anticipati, è semplicemente folle. Si sposta in questo modo il debito dallo Stato all'Inps, per poi accrescerlo assumendo 15 mila giovani.
Una frase è sfuggita a Renzi qualche giorno fa, in un colloquio con La Stampa. "Lo Stato non crea lavoro - ha detto - ma deve crare le condizioni migliori perché le imprese possano crescere e dare lavoro". Una frase quasi simile fu la risposta che Alcide De Gasperi diede, nel gennaio 1953, all'allora ministro dell'Agricoltura Amintore Fanfani il quale si era recato da lui per perorare un aumento delle tasse e la creazione di posti di lavoro da parte dello Stato.
Quella frase pronunciata da Renzi lascerebbe pensare a un aggiustamento di rotta, se non di strategia, da parte dell'esecutivo. Certo, Renzi deve far di conto con una parte della sua maggioranza che, al contrario, pensa ancora allo Stato come datore di lavoro per chi un lavoro non ce l'ha. A parte poi l'affermazione di principio, si tratterà di vedere come Renzi affronterà in concreto il tema del lavoro. Il jobs act è stato congelato alla Camera e trattandosi di un ddl delega ha tempi di attuazione piuttosto lunghi e incompatibili con le urgenze della questione.
Renzi deve cercare un altro percorso, più veloce per essere al passo con i problemi. Anticipare parte dei contenuti del jobs act con il ricorso al decreto legge potrebbe creare tensioni nella maggioranza, soprattutto se Ncd dovesse insistere sull'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Ignorare questa richiesta da parte di Renzi verrebbe interpretato come un segno di ostilità da parte di Alfano ma, nello stesso tempo, impedirebbe il soccorso di Forza Italia all'esecutivo essendo Berlusconi dello stesso avviso di Alfano.

C'è poi il capitolo dei tagli alla spesa pubblica. Ancora non si vede neppure l'ombra dei 4 miliardi di risparmi ipotizzati dal commissario Carlo Cottarelli. Risparmi che dovrebbero salire a 15 nel 2015 e addirittura a 32 miliardi nel 2017. Si tratta di interventi molto profondi nella struttura della spesa per realizzare i quali Renzi deve poter contare su una maggioranza parlamentare molto coesa. Ogni incertezza su questo versante verrebbe seriamente punita dai mercati con riflessi onerosi per il debito pubblico. Come si vede, a mano a mano che ci si inoltra nel cammino autunnale si apre per Renzi la questione della "tenuta" politica della sua maggioranza. Su questo varco lo aspettano Berlusconi e Forza Italia. L'ex Cav. manda segnali in direzione dell'esecutivo, ma non più di tanto. La coesione dei gruppi parlamentari non è uscita incrinata più di tanto al Senato e Berlusconi non ha fretta: può guardare gli sviluppi della situazione e decidere con tutta calma. Renzi e Berlusconi sono divisi su un punto strategico rilevante: Renzi vuole raggiungere i suoi obiettivi senza sforare il 3% nel rapporto deficit-Pil; Berlusconi mantiene intatta la sua sfida all'Europa e sostiene, con Giavazzi e Alesina, la necessità di sforare temporaneamente quella soglia per avviare le riforme radicali necessarie all'Italia. La fedeltà renziana ai parametri di Maastricht non è un eccesso di zelo, ma un espediente per attenuare l'impatto delle riforme che Mario Draghi, invece, vuole incisive e radicali. Per un paradosso del caso, quindi, è Berlusconi a farsi più europeista di Renzi.

mercoledì 2 luglio 2014

DA OMOFOBO A GAY FRIENDLY: BERLUSCONI È UNO, NESSUNO E NIENTE

di Massimo Colaiacomo

La svolta gay friendly di Silvio Berlusconi rientra in una più ampia strategia di sopravvivenza politica del suo ideatore. La politica di Forza Italia è ormai molto simile alla "pasta fatta in casa". Un famigliare si muove con una propria iniziativa di forte impatto mediatico (Pascale si è iscritta all'Arcigay) e, a ruota, segue Berlusconi con un annuncio "frenato" in quella direzione.
La sua apertura al riconoscimento delle unioni omosessuali è un passo politico meditato, ma, nello stesso tempo, è anche la conferma dello stato confusionale in cui versa quel partito. A Berlusconi è inutile chiedere una qualche motivazione culturale o antropologica dei suoi gesti poiché essi nascono soltanto da un calcolo di convenienza politica e, meglio ancora, personale. Quando in autunno il Parlamento affronterà l'esame delle proposte di legge sul riconoscimento delle coppie gay Forza Italia non resterà più isolata in una posizione conservatrice o, come amano dire i relativisti evergreen, di chiusura "bigotta".
Questa decisione ribalta una lunga stagione di "collateralismo" supino alla Chiesa cattolica e conferma tutta la strumentalità della precedente posizione sui diritti civili, non inferiore né diversa rispetto alla strumentalità della svolta gay friendly. Se qualcuno era ancora curioso di misurare il vuoto politico e culturale che assedia Forza Italia trova oggi abbondanti conferme.
I valori cosiddetti "non negoziabili" si scoprono oggi più o meno ampiamente negoziabili. La spiegazione della svolta è ridicola e risibile in sé visto che appaia Berlusconi al Papa del quale si ricorda la risposta data a un giornalista "chi sono io per giudicare i gay?". Cambiare posizione, per di più con la benedizione del Pontefice, è un po' come acchiappare due piccioni con una fava: si resta in linea con la Chiesa e per di più si fa una comoda apertura a un mondo da sempre ostile e lontano da Forza Italia. Soprattutto, nella testa di Berlusconi, c'è la preoccupazione di restare agganciati al "renzismo" in tutte le sue declinazioni, attenuando quanto più possibile le distanze fra l'accordo sulle riforme e l'azione quotidiana di governo. Ammesso che Forza Italia abbia mai avuto la connotazione di un partito cattolico, si deve aggiungere che l'ultima sbianchettata di Silvio Berlusconi ne ha pressoché cancellato ogni traccia.
Nella marcia di avvicinamento ad argomenti e temi propri di Matteo Renzi (e quindi alla sua maggioranza) resta netta la differenza di impostazione sulle politiche economiche e di bilancio del governo. È interessante osservare, però, come anche in questo caso le argomentazioni critiche di Forza Italia si risolvano in un gioco di sponda: non sono mai dirette contro Matteo Renzi in quanto tale, ma attraverso di lui mirano all'Europa e alla Commissione europea colpevoli, secondo il refrain di Forza Italia, di aver distrutto le economie dei Paesi mediterranei.
Da qui all'autunno, però, non sono poche le difficoltà che proprio sul terreno dell'economia il governo dovrà superare. Per Renzi si annuncia un vero e proprio percorso di guerra, con o senza la flessibilità dei parametri mai chiesta da Renzi all'Europa - secondo la versione di Schaüble. Se le previsioni dell'Istat sul Pil negativo anche nel secondo trimestre saranno confermate dal dato finale, si aprono problemi di finanza pubblica in termini di gettito fiscale. La manovra che il ministro Padoan continua a escludere potrebbe essere in autunno un passo obbligato e socialmente non indolore. Le voci che si rincorrono in qualche sale operativa sulla possibile parziale ristrutturazione del debito pubblico sono probabilmente infondate. È significativo però il contrasto tra la ventata di ottimismo mediatico che Renzi suscita e alimenta con le sue infaticabili apparizioni e la realtà prosaica di chi maneggia il denaro e lancia lo sguardo oltre la carta scintillante dei pacchi-regalo confezionati da Renzi.

L'autunno non è remoto. La riforma del Senato e della legge elettorale riescono a mettere d'accordo un vasto fronte parlamentare e Renzi fa bene a non temere il dissenso, sia pure organizzato, che agita il PD. Ma la musica cambierebbe rapidamente se dalle riforme si dovesse passare attraverso nuove turbolenze sul debito pubblico. In questo caso non sarebbe agevole per Renzi silenziare il dissenso non solo politico ma anche sociale.

giovedì 26 giugno 2014

GRILLO E MERKEL, INSIDIE DIVERSE MA STESSA SFIDA PER RENZI

di Massimo Colaiacomo

Ricapitolando: Matteo Renzi intende tener fede al patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Quindi la riforma del Senato, con la non eleggibilità dei senatori; il modello elettorale dell'Italicum, dunque niente preferenza e listini corti ma bloccati insieme alla certezza che la sera dell'eventuale ballottaggio si sappia quale partito o coalizione di partiti governerà l'Italia; la riforma del Titolo V, con l'eliminazione o almeno la riduzione delle materie "concorrenti", cioè quelle in cui lo Stato programma e la Regione gestisce.
Messa così si direbbe che tutto è a posto. La realtà però è più complessa. Dopo l'inconro con la delegazione M5s, Renzi può a giusto titolo rivendicare di aver infranto il muro di incomunicabilità dietro il quale prosperava il grillismo. Diciamo pure una sorta di "arco costituzionale" rovesciato, nel senso che Grillo aveva fatto della sua autoesclusione dal "sistema" il punto di forza da cui lucrare consensi anti-sistema.
Il tavolo è saltato con il voto europeo. Grillo si è dovuto piegare di fronte al risultato elettorale e aprire il dialogo con il governo è diventata per lui una necessità per sopravvivere. Una necessità non è ancora una scelta politica, cioè non comporta atti politici frutto di una matura convinzione. I grillini potrebbero in qualunque momento abbandonare il confronto e tornare in trincea. Al momento non accadrà perché il loro obiettivo è di incrinare quel patto con Berlusconi che, è vero, appare blindato, ma rispetto al quale Renzi non vuole sentirsi le mani legate più di tanto. Allora ecco la possibilità di alzare la soglia al 40% e, di conseguenza, accettare una soglia unica di accesso al Parlamento intorno al 4%. Le preferenze, no: non sono state concordate con Berlusconi anche se il Cavaliere non avrebbe la forza di rovesciare il tavolo lasciando via libera a Grillo. Renzi diffida al massimo di Grillo, e fa bene. Rompere l'intesa con Forza Italia significherebbe consegnarsi nelle mani di un personaggio imprevedibile e rocambolesco come il comico. Ma utilizzare il grillismo per ritoccare il patto in termini più vantaggiosi per il Pd, questo è possibile.
Da qui a metà luglio, quando Renzi conta di incassare il via libera del Senato alla riforma costituzionale, il governo dovrà affrontare anche lo spinoso dossier delle nomine europee e, in particolare, fare di conto con il muro inscalfibile della Germania sulle regole fiscali.
La flessibilità invocata da Italia e Francia e accettata, almeno in apparenza, da Berlino, è un termine che indica cose diverse nei tre Paesi. Per l'Italia la flessibilità dei parametri del Fiscal compact è da interpretare come la possibilità di rinviare nel tempo il pareggio di bilancio (al 2016) e prendere più tempo per aggredire il debito "monstre". Per Berlino, al contrario, la flessibilità va cercata all'interno di quei parametri e più esattamente mettendo in campo riforme strutturali radicali e incisive, capaci di incidere sui flussi di cassa della spesa pubblica. Come fare? Merkel non lo dice, ma il suo pensiero va alla Spagna e alla Grecia come per dire a Renzi: ecco come fare.
Renzi dovrebbe fare qualcosa che lo metterebbe in aperta contraddizione con l'oceano di consensi raccolti il 25 maggio. Dovrebbe alleggerire gli organici dell'amministrazione pubblica, possibilmente senza pensionamenti anticipati; tagliare ulteriormente i trasferimenti agli Enti locali e rivedere l'autonomia di spesa delle Regioni; ridurre la spesa sanitaria aumentando il concorso dei lavoratori con i ticket. Renzi dovrebbe, insomma, fare l'esatto contrario di quello fin qui annunciato.
Il centrodestra italiano rifiuta un simile schema e diventa supporto, non si sa quanto involontario, al velleitarismo di Renzi. Tutto in nome della resistenza al potere straripante della Germania. Viene da chiedersi se la Spagna, il Portogallo, la Grecia, l'Irlanda hanno accettato supinamente lo strapotere tedesco inchinandosi ai diktat della cancelliera Merkel. Nessuno però che si chieda perché quegli stessi Paesi, pagando prezzi socialmente rilevanti, si trovano oggi in condizioni nettamente migliori rispetto all'Italia e con una capacità competitiva superiore. La crescita è rimasto un problema soprattutto italiano e francese. Cioè dei due Paesi che più tentennano sulla via delle riforme. Non è per caso.

 

mercoledì 18 giugno 2014

IL TEMPO È DENARO, E BERLINO REGALA TEMPO A RENZI

di Massimo Colaiacomo
Il destino del governo Renzi è legato a doppia mandata alle riforme: farle, e in tempi rapidi, significa acquisire titoli presso la Commissione europea; farle bene, e credibili, significa ottenere dall'azionista di riferimento della UE, Angela Merkel, una dilazione dei tempi. Sembra essere questo il senso delle dichiarazioni rese tamane dal portavoce di Merkel, Steffen Seibert, rispondendo, durante la conferenza stampa settimanale, a una precisa domanda sulla proposta di Sigmar Gabriel, il ministro socialdemocratico dell'Economia.
Che cosa ha suggerito Gabriel? In una conversazione con la Bild Zeitung, Gabriel ha avanzato una proposta per così dire di tipo cronologico: dare tempo a Italia e Francia per fare le riforme incisive attese dal resto d'Europa. "Ci vuole più onestà nel dibattito. Noi tedeschi oggi stiamo meglio di molti altri Stati perché - ha ricordato Gabriel - con l'Agenda 2010 di Schroeder ci siamo imposti un duro programma di riforme. Ma anche allora abbiamo avuto bisogno di tempo per ridurre il debito. Il ministro dell'Economia socialdemocratico ha ripreso un'idea lanciata nei giorni scorsi a Tolosa. "Un'idea potrebbe essere che coloro che riformano i loro Stati ottengano più tempo per l'abbattimento del deficit. Quindi riforme vincolanti in cambio di più tempo nell'abbassamento del deficit". Su questa posizione il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble ha già fatto sapere attraverso un portavoce di non essere d'accordo: "Il patto di stabilità e crescita contiene già abbastanza flessibilità", è stata la replica, e le regole "vanno rispettate come sono, perché in gioco c'è la fiducia" nell'euro.
Schaüble è incrollabile nel suo ruolo di guardiano della stabilità monetaria. Ma l'apertura di un dibattito tanto vigoroso in seno al governo tedesco è la spia di un disagio che monta a Berlino, anche a seguito dei risultati elettorali del 25 maggio. In fondo, la concessionedi più tempo ai governi italiano e francese per varare le riforme non è un cedimento all'Italia né costituisce una violazione "quantitativa" del Patto di stabilità e crescita. Semmai ne rappresenta una diluizione temporale, senza rimetterne in discussione gli obiettivi.
In questa direzione è sembrato andare lo scaltro Seibert, nella conferenza di stamane, quando in risposta a una domanda ha precisato che Angela Merkel e Matteo Renzi ''sono unitinella convinzione che servono crescita e lavoro. E si può ottenere attraverso tre cose: riduzione del deficit, riforme e mantenendo fede a ciò che si è concordato. Perché è una questione di fiducia nell'Europa''. Per concludere che nel governo tedesco "c'è unità sul fatto cheil patto di stabilità e crescita non debba essere cambiato''.
Parole chiare non meno dei sottintesi e dei silenzi che si portano dietro. Né Renzi né Padoan hanno chiesto mai di cambiare le regole del Patto. A parte la Lega Nord, Fratelli d'Italia, Forza Italia e Sel, nessuno mai dal governo italiano ha chiesto di cambiare le regole,  le procedure e i parametri del Patto di stabilità e crescita. La vera posta in gioco è il "tempo". In gioco c'è appunto il rinvio del pareggio di bilancio al 2016 invece che al 2015. In gioco potrebbe esserci, da qui alla fine del semestre italiano, il rinvio della ulteriore riduzione del deficit, previsto allo 0,6% nel 2016.
Del resto, che altro fa Mario Draghi dalla tolda della Banca centrale europea se non "comprare tempo" per consentire ai governi rimasti indietro di accelerare sulle riforme? Quando nel luglio 2012 varò l'OMT (Outright monetary transaction), il piano di sostegno ai titoli del debito pubblico, altro non fece che contribuire a ridurre drasticamente lo spread fra i titoli italiani e quelli tedeschi, creando le condizioni monetarie più favorevoli per le riforme. Che non sono state fatte o, quelle fatte, non sono risultate incisive come si aspetta l'Europa ma soprattutto come richiedono le condizioni della nostra finanza pubblica.
Matteo Renzi ha bisogno di una cornice temporale meno affannosa. Il premier "di corsa" deve rallentare il passo se vuole dare sostanza e incisività alle riforme e non ridurle a semplice belletto. Questa è la sfida che lo attende in Europa. E su questa strada sa che troverà in Italia un fronte antieuropeista agguerrito (dalla Lega a FdI, passando per quel caos che è oggi FI, e M5s). Meno riforme ma migliori e più incisive, ad esempio sul lavoro, di quelle fin qui viste. Se Renzi saprà convincere l'Europa su questo terreno avrà gioco facile. Se invece continua nell'illusionione di un riformismo fantasmagorico ma di incerta o poca sostanza, rischia di complicarsi la vita.

SULLE RIFORME RENZI HA RISCRITTO IL PATTO CON LA LEGA

di Massimo Colaiacomo

    Il cosiddetto "Patto del Nazareno" siglato da Berlusconi e Renzi nel febbraio di quest'anno rimane un passaggio chiave di questa convulsa stagione politica. I contenuti di quel patto, o almeno quelli resi noti, prevedevano alcune riforme: quella del Senato, non più eleggibile e ridotto a organo rappresentativo di secondo livello; la riforma del Titolo V, con una migliore ridefinizione delle competenze di Stato e Regioni e la riduzione delle materie concorrenti; la riforma elettorale, approdata poi a quello che molti considerano un obbrobrio, il cosiddetto Italicum. Né la riforma presidenzialista della Repubblica né altri cambiamenti della Costituzione sono stati negoziati in quella sede.
    Il Patto è stato co cordato da due esponenti politici non parlamentari, ma leader dei rispettivi partiti: legittimato Silvio Berlusconi dal voto popolare, ma delegittimato dalle sentenze di condanna per Mediaset; legittimato dalle primarie del suo partito ma non dal voto popolare era invece Matteo Renzi.
    Quattro mesi dopo, la condizione personale dei due leader è profondamente mutata: Matteo Renzi, divenuto nel frattempo presidente del Consiglio, ha ricevuto un plebiscito popolare, raccogliendo il 41% dei voti alle europee; Berlusconi, dopo le sentenze della magistratura, è stato condannato anche nelle urne con il suo partito crollato al 16 e qualcosa per cento.
    Se muta radicalmente lo status dei contraenti, un Patto politico non ancora trasformato in legge del Parlamento può dirsi ancora valido? E in che misura il più forte dei contraenti potrà pretendere modifiche e aggiustamenti confidando nell'assenza o nella debolezza della reazione della controparte? Il potere del vincitore, nel nostro caso, risulta oltremodo accresciuto dall'improvvisa conversione riformista di forze come la Lega Nord e, soprattutto, il M5s di Beppe Grillo.
     Se quelle di Grillo sono aperture in parte strumentali e in parte provocatorie (il ritorno al proporzionale ha ottenuto il benestare della Lega ma si sa che stuzzica anche i desideri in FI e Pd per non dire dei cespugli centristi), quelle della Lega Nord sono vere e proprie disponibilità politiche che il lesto Calderoli ha già trasformato in emendamenti d'intesa con l'altro relatore del provvedimento, Anna Finocchiaro. Come leggere queste convergenze se non come un allargamento del Patto del Nazarenosoggetti politici e come la conferma della crescente marginalità di Forza Italia al tavolo delle riforme?
     La sortita presidenzialista di Forza Italia ha il sapore di un gesto disperato. Concepita da Berlusconi per portare il partito fuori dall'angolo e recuperare un minimo di visibilità, la proposta berlusconiana nasce senza capo né coda. Basterà pensare al marameo ricevuto ieri in Commissione da Calderoli e Finocchiaro che hanno concordato l'emendamento per definire la composizione della platea parlamentare per l'elezione del Capo dello Stato. È penoso quanto si vede in queste ore: Berlusconi tenta il rilancio in una partita che Renzi ha aperto con lui a febbraio e chiuso con la Lega a giugno. Se Berlusconi sfoglia i giornali di qualche tempo fa potrà leggervi il giudizio impietoso di Matteo Salvini, al quale FI ha reso omaggio come nuovo king maker del centrodestra firmando due referendum, che dell'ex Cav ha detto testualmente: ha ottant'anni, farebbe bene a ritirarsi. Questi sono gli alleati coltivati da Berlusconi e dalla sua corte piuttosto malmessa in arnese.

domenica 15 giugno 2014

M5S E LEGA APRONO A RENZI, BERLUSCONI SPALLE AL MURO

di Massimo Colaiacomo

Il tempo che scorre e la conclusione che si allontana sono i due elementi che stanno complicando la partita delle riforme. L'apertura di Grillo sulla legge elettorale e la richiesta di un incontro al PD non manda gambe all'aria il già traballante accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi ma sicuramente allunga i tempi dell'esame parlamentare e, soprattutto, riapre le ferite non del tutto rimarginate dentro il partito di maggioranza a lungo diviso sul rapporto con i grillini.
La mossa di Grillo, imprevista ma non del tutto imprevedibile, è un puro espediente tattico per mettere un bastone fra le ruote a Grillo. Ben altra è la portata politica dell'apertura del leader leghista, Matteo Salvini, pronto a discutere della riforma del Senato e a fornire i numeri eventualmente mancanti in Aula. Sia la mossa Grillo che la disponibilità concreta di Salvini mirano, sia pure per ragioni differenti, a neutralizzare il peso di Forza Italia nella partita per le riforme. A quattro mesi dalla sua nascita, il Patto del Nazareno sembra ormai al capolinea. Berlusconi, fino a ieri scettico sulla possibilità di un nuovo rendez-vous con il premier, dovrà rivedere i suoi piani se vuole salvaguardare il potere negoziale di Forza Italia. Diversamente, condannerebbe il suo partito alla marginalità politica.
L'improvvisa abbondanza di forni da cui attingere è una fortuna per Renzi ma, a ben vedere, nasconde anche qualche rischio. Con la nomina di Orfini alla presidenza del PD, Renzi ha chiuso, almeno per il momento, le laceranti dispute interne. Questa circostanza gli consente una grande libertà di manovra sul piano parlamentare ma al tempo stesso lo espone ai venti di un quadro parlamentare in rapido movimento.
I fautori nel PD di un accordo con Grillo sono ridotti al silenzio ma non del tutto spariti. Certo, Grillo vuole discutere di una legge elettorale proporzionale e già questa premessa rende agevole il rifiuto di Renzi a qualsiasi accordo. Ma l'insidia maggiore, a ben vedere, viene dal grave indebolimento di Berlusconi. Il contraente dell'accordo del Nazareno si scopre all'improvviso isolato e il suo rifiuto a costruire una posizione comune del centrodestra, mettendo allo stesso tavolo quanto meno Salvini e Meloni, per non dire di Alfano, sulla legge elettorale e sulla riforma del Senato si rivela adesso un grave handicap. Berlusconi ha concluso quell'accordo con Renzi quando Forza Italia era ancora un partito del 21%; la Lega disponeva del 4% e Beppe Grillo aveva scelto di restarsene chiuso in un angolo.
Quattro mesi dopo, tutto è cambiato. Berlusconi rinvia alla battaglia presidenzialista l'appuntamento per rimettere insieme il centrodestra. Ma rischia di essere un appuntamento tardivo e inutile se, nel frattempo, Renzi avrà chiuso con la Lega un accordo sulle riforme già all'esame del Senato. La tentazione presidenzialista è ben presente in Renzi, ma inserirla nelle procedure già avviate significa accettare un allungamento dei tempi e un rinvio alle calende greche con le riforme promesse e attese dai mercati e almeno dal 40,8% di elettori.
Rilanciando il presidenzialismo, Berlusconi ha tentato un diversivo per riconquistare un minimo di posizionamento strategico al suo partito. Ma il colpo sparato rischia di mancare il bersaglio: Renzi ha nel tempo un nemico temibile e difficilmente potrà accettare di allungare il brodo delle riforme senza esporsi al logoramento o, come lui ama dire, finire risucchiato dalla palude. Renzi ha invece tutto l'interesse a capitalizzare con Forza Italia le disponibilità al dialogo piovute in queste ore sul suo tavolo: Berlusconi non è in condizione di dettare condizioni ma, al dunque, si trova all'angolo e per lui si tratta di decidere se prendere o lasciare quel che Renzi è disposto a concedere. 

     

sabato 14 giugno 2014

NEL PAESE DEI PRESIDENZIALISTI IMMAGINARI

di Massimo Colaiacomo

La Costituzione può essere cambiata soltanto dal Parlamento. Il referendum propositivo non è contemplato fra gli strumenti del riformismo. Quello confermativo è obbligatorio ma solo nel caso le modifiche alla Costituzione vengano approvate dalla maggioranza semplice delle due Camere. Invece "non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti" (comma 2, art. 138).
Nel Paese dei "presidenzialisti immaginari" il dibattito sul presidenzialismo è ricorrente ma mai fondato su motivazioni serie e mai considerato come parte di un'architettura istituzionale articolata e complessa. Esso è piuttosto evocato di volta in volta per ragioni tattiche e di bottega politica: a Berlusconi come a Renzi non importa un fico secco del presidenzialismo. Che sia così lo confermano le loro stesse parole: per Renzi "se ne può parlare"; per Berlusoni è "lo strumento per riunire i moderati". Fra il disincanto del primo e le ragioni di pura convenienza politica del secondo non c'è una grande differenza. L'elezione popolare del Capo dello Stato è un fatto accessorio e utile per altre obiettivi. Manca in Renzi e manca in Berlusconi un intimo convincimento sulla ineluttabilità di quel passo, sulla sua forza dirompente capace di risollevare le sorti della Repubblica e imprimere una svolta, se non proprio arrestare, il declino civile dell'Italia.
Dei due è sicuramente Berlusconi ad alimentare la confusione maggiore. Ha fatto una campagna elettorale per le europee invocando fra le altre riforme la concessione di maggiori poteri al premier. Senza minimamente curarsi della contraddizione fra un premier con più poteri e un presidente della Repubblica eletto dal popolo. La geografia della balance of power è del tutto estranea alla view berlusconiana delle istituzioni. Se eletto dal popolo, sarà il Capo dello Stato ad esercitare il potere esecutivo, tutt'al più delegando un primo ministro di sua assoluta fiducia. In ogni caso, il potere esecutivo si trasferirebbe da Palazzo Chigi al Quirinale o, quanto meno, verrebbe esercitato in condomino (circostanza peraltro realizzata con i governi Monti e Letta).
L'opzione presidenzialista non ha mai avuto un grande seguito sul piano politico-culturale. La minoranza laica all'Assemblea costituente (Leo Valiani, Tommaso Perassi, Randolfo Pacciardi) tentò di aprire il confronto ma l'idea venne accantonata con la motivazione che il ventennio fascista escludeva allora e per sempre una forte concentrazione di poteri nelle mani di una persona, per di più in presenza di check and balances ancora da inventare.
Che poi il presidenzialismo sia destinato a tornare molto presto nei cieli dell'iperuranio dai quali Berlusconi lo pesca di tempo in tempo è dimostrato dall'assenza totale di ogni riflessione sul contesto istituzionale e procedurale che dovrebbe accompagnare una simile e radicale modifica. Per esempio, può un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo rivolgersi a un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti? Due fonti di legittimazione tanto differenti, diretta la prima e ricattatoria la seconda, a quale squilibrio di poteri esporrebbero la Nazione?
Dove il presidenzialismo vige, la bilancia dei poteri ha costruito degli istituti di garanzia inammaginabili in Italia. Se il Congresso americano blocca il budget, il presidente degli Stati Uniti deve acconciarsi a una faticosa mediazione, alla ricerca dei consensi indispensabili. La Costituzione gli dà i poteri e insieme ne disegna i limiti entro cui vanno esercitati. L'Italicum o il Porcellum che poteri riconoscono al Parlamento e ai singoli parlamentari nei confronti di un presidente eletto dal popolo? Sono questioni neanche minimamente sfiorate dalle proposte grossières fin qui ascoltate.
Sono queste considerazioni ad alimentare un sano e realistico scetticismo sulla possibilità che la riforma presidenzialistica possa fare anche solo un passo avanti. Con il risultato che altro tempo verrà perso e sottratto alla ricerca di soluzioni più consentanee alla tradizione politico-istituzionale italiana. Come il cancellierato tedesco o una semplice ma non meno efficace razionalizzazione dell'attuale ripartizione dei poteri da accompagnare a una rivisitazione degli istituti di garanzia. 

giovedì 12 giugno 2014

LA "DEMOCRAZIA" DI RENZI LEGITTIMA QUELLA DI GRILLO

di Massimo Colaiacomo

Qualcuno comincerà a chiedersi se esista qualche differenza fra la concezione della democrazia di Beppe Grillo e quella di Matteo Renzi. Per il comico è la "rete" a decidere su ogni questione e su ogni tema, i parlamentari devono limitarsi ad eseguire quello che gli internauti registrati decidono di volta in volta. Per Renzi, invece, sono gli elettori, con il voto plebiscitario del 25 maggio, che hanno avallato la direzione di marcia del segretario-premier. In entrambi i casi, i parlamentari devono adeguarsi alla volontà degli elettori. Quelli di Grillo sono in mobilitazione permanente, e dunque devono decidere di volta in volta; quelli di Renzi si sono pronunciati una volta, con il voto europeo, e da lì il premier fa discendere una legittimazione permanente per assumere qualsiasi decisione.
Tanto per Renzi quanto per Grillo, il Parlamento altro non è se non la cassa di risonanza di una volontà che si forma altrove - sulla "rete" o nelle urne - e deve perciò potersi manifestare nelle Aule parlamentari senza incertezze o sfumature. Grillo lascia che sia la rete degli iscritti a pronunciarsi. Renzi si è pronunciato, gli elettori lo hanno plebiscitato e dunque i parlamentari devono adeguarsi alla risposta affermativa data dagli elettori al premier. Non possono frapporsi fra l'uno e gli altri senza con ciò distorcere la volontà elettorale della quale il premier diventa l'unico, legittimo interprete.
È evidente che siamo in presenza di una modificazione profonda, prima ancora che della Costituzione che riconosce al parlamentare (art. 67) l'esercizio delle proprie funzioni "senza vincolo di mandato". Il pugno di ferro nel gruppo del PD al Senato costituisce senz'altro un'aperta violazione di questo articolo: con la rimozione forzata di Corradino Mineo e Vannino Chiti, e ieri la rimozione forzata di Mario Mauro, dei Popolari per l'Italia, si è di fatto realizzata una forzatura della Costituzione senza precedenti nella storia parlamentare.
Fare le riforme è l'obiettivo che il governo si è assegnato ed è giusto perseguirlo avendo su questo ricevuto il mandato pieno degli elettori. Fare le riforme nel rispetto della Costituzione è impossibile. Prima di Renzi ci avevavo provato i "saggi" voluti dal Quirinale e avevano messo a punto una procedura "forzata" dell'art. 138 della Costituzione. Allora e oggi, abbiamo acquisito la conferma che la Costituzione è stata concepita come un monolite e resa pressoché impenetrabile a qualsiasi opera di riforma.
Il sospetto è che i Padri costituenti, già nel 1946, diffidassero ... dei figli. Come impedire che si facciano del male o ne facciano all'Italia? Battute a parte, l'irriformabilità di una Costituzione o la sua riformabilità possibile solo aggirandone i vincoli e forzandone le norme è l'ulteriore conferma che l'Italia si era dotata di una Costituzione nient'affatto "la più bella del mondo". Allora ha ragione Renzi a tentarne la forzatura? No, Renzi ha torto marcio oggi, come ieri ce l'aveva Berlusconi e prima ancora il centrosinistra in versione ulivista, nel 2001.

La migliore riforma della Costituzione è quella che può scaturire da un Parlamento che la voti ma solo a maggioranza così da sottoporla a referendum popolare e lasciare che sia la maggioranza degli italiani a decidere. La Costituzione del 27 dicembre 1947 fu redatta dall'Assemblea costituente eletta con sistema proporzionale ma non fu mai sottoposta a referendum poiché l'Assemblea costituente, eletta con poteri redigenti, riassorbiva in sé una volontà popolare espressa "ante quem". Renzi ha interpretato il voto del 25 maggio come un mandato illimitato degli elettori a fare le cose che lui ritiene urgenti fare per cambiare l'Italia. È soltanto un'altra delle conseguenze prodotte dal Porcellum un meccanismo che ha introdotto in modo surrettizio il vincolo di mandato per i parlamentari. Essendo scelti e messi in lista direttamente dal leader di partito, a chi altri se non a lui devono rispondere? Gli elettori, cioè i cittadini perdono così due volte: il Parlamento non ha più poteri di intervento sulle iniziative del governo e il governo, costruendo una maggioranza di due terzi in Parlamento, può cambiare la Costituzione senza passare dal referendum popolare. Esattamente come nel 1947, solo un po' peggio.