giovedì 22 dicembre 2016

VENT'ANNI DOPO, IL "FATTORE B" PUÒ FARE ANCORA LA DIFFERENZA?


di Massimo Colaiacomo

     Il portavoce Giovanni Toti confida in un improvviso attacco di raucedine perché da ieri dovrà, con cadenza quotidiana, spiegare l'ennesima piroetta del suo dante causa. Le qualità politiche che tutti riconoscono a Toti non bastano, però,  a mettere in sicurezza l'alleanza di centrodestra percorsa come mai nella sua storia ventennale da divisioni e fratture difficilmente ricomponibili, destinate invece ad ampliarsi quando si entrerà nel vivo della riforma elettorale.
     Si tratta per Toti di una missione ai limiti dell'impossibile. Prova ne è la spiegazione data via agenzia sulla decisione di Berlusconi di riproporre una legge elettorale fortemente proporzionale e di lavorare per l'elezione di un'assemblea costituente cui affidare il compito di revisione della Costituzione. Toti ha negato che la nuova strategia di Berlusconi sia legata all'esigenza di difendere Mediaset posto sotto attacco del raider bretone Vincent Bolloré. Non è questo la ragione, giura Toti, che ha ispirato la nuova stagione di Berlusconi, meno conflittuale con la maggioranza e più collaborativo con il governo. È una toppa peggiore del buco, come si dice. Toti deve tutelare la genuinità delle scelte politiche, mentre lo fa però trasforma in un baratro la distanza che separa Forza Italia da Salvini e Meloni. Perché se la scelta di Berlusconi fosse davvero solo ed esclusivamente politica ( ma in lui, si sa, il binomio politica e interesse personale è difficilmente districatile) è evidente che il dialogo con Lega e Fratelli d'Italia finirà presto o tardi su un binario morto.
     La preferenza di Salvini e Meloni per il Mattarellum è ovvia e fin troppo interessata. Significa costringere Forza Italia ad accettare la loro alleanza, alle condizioni che Berlusconi non potrebbe più dettare ma soltanto accettare perché imposte dai due scalpitanti competitori. Insomma, che sia il Mattarellum o un qualsiasi altro meccanismo con prevalenza maggioritaria, Berlusconi sa che dovrebbe accettare la logica delle primarie e, dunque, rassegnarsi a cedere lo scettro ad altri. Eventualità già essa sola sufficiente per ottenere il rifiuto del Cavaliere.
     Chi immagina per questo un centrodestra finito, probabilmente sbaglia. Si ha ragione di credere, invece, che si chiude una lunga stagione del centrodestra in cui forze politiche molto diverse per storia e per obiettivi, sono state tenute insieme dalla logica imposta dal sistema maggioritario. Finito questo, diventa inevitabile un rimescolamento profondo di strategie e di orizzonte politico. Berlusconi ha contestato, ed è stato contestato in Europa ma la sua strategia non è mai stata di uscire dall'Euro o dall'Unione europea. Con il suo atteggiamento ha invece aperto la strada alle contestazioni ancora più dure, ma ugualmente inconcludenti, di Matteo Renzi, sempre per rimanendo nel solco dell'europeismo.
     Il fatto che sia Berlusconi, leader con Prodi del sistema maggioritario, a voler calare il sipario su quella stagione per tornare al vituperato proporzionale è sintomatico di una politica smarrita e confusa che non riesce più a trovare il bandolo della matassa per ricollegarsi alla concreta realtà quotidiana dell'Italia. A dispetto dell'anagrafe, Berlusconi possiede ancora la lucidità per capire quando è arrivato il momento del cambio di passo e, paradossalmente, fa sembrare attardati nella difesa del passato i suoi giovani competitori di destra. È da capire se il Cavaliere ha messo in conto tutte le conseguenze del suo passo, come il fatto, per esempio, che un sistema proporzionale ha bisogno di solide culture politiche di riferimento, come altrove in Europa. Sarà soltanto un caso, ma le forze populiste non hanno il vento in poppa proprio in quei Paesi dove le forze politiche tradizionali hanno saputo resistere senza piegarsi al vento della crisi. Socialisti e popolari, in Germania o in Spagna, hanno saputo dar vita a governi di coalizione e le forze anti-sistema, si tratti di AfD o di Podemos, sono rimaste a bocca asciutta. Il vero punto di svolta in questo reset della politica sarà però il voto francese. Il cattolico François Fillon ha stravinto le primarie del centrodestra dove, per la prima volta, si sono recati alle urne 4,5 milioni di francesi. E con un programma niente da scherzare: taglio di 500-600 mila dipendenti pubblici; stop alla settimana lavorativa di 35 ore per tornare a 39 ore; riforma del welfare state. Nella laicissima Francia, un leader cattolico può scrivere una pagina nuova e dimostrare che il populismo non è una malattia cronica a cui la democrazia deve rassegnarsi. Quando, intervistato da Le Figaro, gli è stato fatto notare che da un sondaggio risulta che il 58% dei francesi non è d'accordo sui licenziamenti nel pubblico impiego, Fillon ha risposto con candore: ho tempo fino al 21 aprile per spiegare che non ci sono alternative. Non ha detto che cambierà linea o rivedrà i suoi propositi. No, semplicemente spiegherà alla Francia che è nell'interesse della Nazione applicare quella ricetta. Così nascono i leader.

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