mercoledì 18 novembre 2015

NOI E LORO


di Massimo Colaiacomo

     Non è una guerra, come ha sentenziato François Hollande, ma come, molto opportunamente, ha negato il premier Renzi, perché a combattere sul campo non ci sono gli eserciti di due o più Stati. Meno che mai è una guerra di religione, perché in questo caso i terroristi che invocano Allah prima di farsi saltare in aria o sventagliare raffiche di mitra contro le persone non sparano mai, o quasi, contro fedeli cristiani. Sotto questo aspetto, i terroristi sbagliano indirizzo perché combattono contro il vuoto spirituale e religioso di un'Europa definitivamente secolarizzata.
     È in atto, però, qualcosa di più terribile e più  difficile da combattere di una guerra. È un conflitto, nel senso etimologico del termine, cioè uno scontro che va oltre la conquista di un territorio o di fonti energetiche o di corsi d'acqua nella Mesopotamia. Il conflitto contiene aspetti che travalicano le ambizioni giuste o sbagliate del potere politico e investe, invece, la quotidianità di milioni di persone, mette in discussione i loro punti fermi - la spesa, la scuola, il teatro, la metro - e punta a scassare la certezza che l'uso di queste "cose" è acquisito una volta per sempre. Queste "cose" sono anche l'orizzonte civile confortante in cui si muove la civiltà occidentale. 
     La guerra evocata da Hollande è soltanto un capitolo, importante quanto si vuole, del conflitto più generale lanciato contro l'occidente. Esso, certo, è anche guerra di religione contro i cristiani, ma limitatamente ai Paesi islamici e contro le Chiese cattoliche lì costruite. In quel caso, i terroristi ricordano al mondo islamico chi sono i suoi nemici e perché non si deve accettare la loro presenza sulle terre di Maometto. Si spiegano così le stragi nella Basilica cattolica di Alessandria d'Egitto o nelle chiese cristiane in Nigeria, in Pakistan, in Indonesia. Ma in Europa, a chi e per quale ragione dovrebbe essere utile distruggere una Chiesa se essa ha perso ogni valore simbolico agli occhi degli stessi europei?
     Non è una guerra di religione, si deve concludere. È invece un conflitto fra modelli di civiltà, per ammissione degli stessi terroristi. Il dramma di questo come di tutti i conflitti che lo hanno preceduto nella storia, è lo stesso di sempre: per combattere una guerra è sufficiente la volontà di un solo soggetto o di una sola parte, per trovare la pace bisogna che si incontrino almeno due volontà comuni. L'Europa non potrà mai sconfiggere il terrorismo che si richiama all'Islam se non sarà in grado di far emergere fino in fondo le contraddizioni della comunità islamica insediata nel Vecchio continente e fino a oggi, vuoi per incapacità dei governi di mettere in campo politiche di integrazione, vuoi per la libera determinazione degli stessi musulmani, mai veramente integrata nella società europea.
     C'è un confine invisibile all'interno dell'islamismo europeo e da esso transitano comportamenti e pulsioni incontrollate e trascurate dai Paesi ospitanti. È difficile per chi proviene da Paesi dove non esiste né il Codice civile né quello penale perché l'unica forma di legge è quella coranica, accettare di vivere e integrarsi in società dove la norma morale e quella civile appartengono a soggetti diversi e spesso estranei quando non confliggenti fra loro come sono la Chiesa e lo Stato.
     È lecito sperare in una laicizzazione degli islamici? È possibile che ciò avvenga, anche se la stupidità di chi li ospita non è d'aiuto. Se gli insegnanti fiorentini ritengono di cassare la visita alla mostra "Divina bellezza" temendo di ferire la sensibilità degli islamici, non sono essi la conferma che la legge coranica è più forte del diritto laico alla libertà di istruzione e di conoscenza? Se altrettanto stupidi insegnanti ritengono di non fare il presepe, espressione di una tradizione religiosa all'inizio prima di diventare un tratto di semplice civiltà, non sono da ritenere anche loro fra i colpevoli dei processi di radicalizzazione dell'islamismo? L'identità opaca della società europea è il terreno più fertile per l'attecchimento dell'islamismo estremista. Non c'è contrasto culturale, e contrasto significa confronto fra identità precise e definite, in grado di conoscersi e di accettarsi senza la pretesa di cambiare l'un l'altra. Il problema islamico non sta dentro l'Islam ma sta dentro il vuoto dell'Europa.
       

sabato 7 novembre 2015

PIÙ POVERI, PIÙ CRISTIANI? L'EQUAZIONE DIFFICILE DI BERGOGLIO


di Massimo Colaiacomo

     L'ultimo scandalo che sta scuotendo la Chiesa di Roma è motivo di stupita soddisfazione soltanto per coloro (e sono molti e molto influenti) che, in perfetta malafede, additano da sempre la Chiesa quale "sentina di ogni vizio" o "novella Babilonia", come la definì Francesco Petrarca in una sua epistola. Per i cattolici, invece, è un altro motivo di profonda amarezza non tanto "sapere" quello che il semplice buon senso intuisce quanto piuttosto vedere e constatare il disinvolto accanimento con cui personaggi, laici o religiosi, hanno deciso di trasformare in occasioni di arricchimento qualsiasi cosa riguardi il governo materiale e "umano" della Chiesa cattolica.
     Quanti dei giornalisti, opinionisti e commentatori che scrivono scandalizzati della fuga di notizie dal Vaticano, che puntano il dito contro il tenore di vita sardanapalesco di cardinali e monsignori sono cattolici? Per dirla con Papa Francesco "chi sono loro per giudicare" i comportamenti di persone estranee alla loro vita e giudicare la distanza ben visibile fra la predicazione evangelica della Chiesa e gli stili di vita di chi predica?
     Si arriva a un primo punto della questione: la Chiesa cattolica deve farsi "povera fra i poveri", come sostiene il Papa, per condividere e vivere la povertà, oppure deve combattere la povertà, con le armi previste dal Vangelo e dunque nei modi propri di un grande organismo religioso che vive e opera in questo mondo? Detto altrimenti: è possibile che la Chiesa di Bergoglio ami a tal punto i poveri da volerne sempre di più? E un numero crescente di poveri coinciderà necessariamente con un numero crescente di cristiani?
     Una  seconda questione è proprio questa: la predicazione della Chiesa si è fatta, con Papa Bergoglio, ancora più universale e la dimensione mediatica del suo messaggio è tale da travalicare i paradigmi e i valori dell'Occidente liberale e capitalista. Se la ricchezza era per Calvino "il segno della grazia divina" il cui beneficiario, titolare del libero arbitrio, avrebbe "cristianamente" condiviso con gli indigenti e gli ultimi, per la Chiesa cattolica di Bergoglio essa torna ad essere lo "sterco del diavolo", una presenza comunque peccaminosa, che prescinde dai mezzi più o meno leciti usati per accumularla.
     Quello fin qui intravisto come un Papa "rivoluzionario" o addirittura "comunista", si rivela, sotto questo aspetto, un pontefice straordinariamente conservatore, per certi versi riporta la Chiesa indietro perfino rispetto alla Rerum Novarum di quel Papa straordinario e lungimirante che fu Leone XIII. Il mondo è il luogo del male - ci dice la chiesa del Papa argentino - e gli uomini si fanno volentieri, per l'egoismo smodato o per la brama di profitto - strumento del male. Se davvero le cose sono messe in questo modo, come spiegare allora, sul piano della logica umana, un Giubileo della misericordia per esaltare Gesù misericordioso e non più giudice? Se gli scandali nella Chiesa o il profitto irragionevole come lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono da condannare  secondo la logica umana, non sono forse ugualmente da giudicare, e da condannare, sul piano teologico?
     Tenere insieme, sullo stesso piano, la logica della giustizia umana e la misericordia senza limiti di Dio verso le debolezze umane, sta generando un corto circuito all'interno del mondo cattolico. Il peccato ha una sua logica tutta interna alla fede, ma le cause del peccato risiedono "in" questo mondo e negli uomini che lo popolano. Può la Chiesa condannare le cause del peccato e scegliere una sorta di "epochè" sul peccatore, con ciò recidendo ogni nesso fra le radici del male e la sua manifestazione? Papa Bergoglio ha impostato un'equazione difficile da risolvere. L'equazione è stata impostata secondo la logica di un uomo che viene "dalla fine del mondo" mentre la soluzione è da cercare nel cuore del mondo e della cristianità. Se Papa Benedetto XVI aveva intuito la grave crisi della fede nell'Occidente secolarizzato, al punto da nominare mons.Rino Fisichella a capo di un dipartimento ad hoc, per Papa Francesco la questione non si pone: l'occidente non solo è perduto, ma è una terra contaminata da cui la Chiesa deve guardarsi. Sono due punti di vista irriducibili e inconciliabili. "In questo mondo ma non di questo mondo", è scritto nei Vangeli. Bergoglio vuole la Chiesa in questo mondo e, dal suo punto di vista, la vuole anche "di questo mondo". Esattamente come quei monsignori diventati simbolo di lusso e di mondanità.

venerdì 6 novembre 2015

IL SSN ALLO STATO È LA VERA SVOLTA NELLA SPESA


di Massimo Colaiacomo


     La politica gira attorno a un problema che si trascina da 37 anni. La riforma della sanità, fortemente voluta dalla Dc, dal Pci, dal Psi e dai sindacati, è entrata in vigore il primo gennaio 1978 e ha portato alla regionalizzazione dell'assistenza con il duplice risultato, da un lato, di snaturare le Regioni, nate come Enti di programmazione territoriale senza compiti di gestione diretta,  e, dall'altro lato, di trasformare in un carrozzone pubblico, e nelle greppia dove la politica si è finanziata a larghe mani, le vecchie casse mutue gestite con criteri di efficienza e trasparenza sicuramente maggiori.
     Si disse, nel clima populista già allora diffuso, che con la riforma si affermava il diritto universalistico alla salute. Come per dire che fino a quel momento quel diritto sarebbe stato negato o precluso a una parte della popolazione il che, come sa chi conosce la materia, era un falso assoluto. Mai prima di allora nessun italiano era stato abbandonato dall'assistenza pubblica. Essa veniva erogata dalle casse mutue alle quali era obbligato ad assicurarsi ogni lavoratore. Per chi, senza lavoro o indigente, l'assistenza veniva erogata attraverso gli Enti di beneficenza che godevano di un parziale finanziamento dello Stato. Era esattamente il modello sociale di assistenza ancora oggi valido in Germania: cassa mutua più una quota di solidarietà per chi era escluso.
     In quel modello organizzativo non c'era spazio per i partiti politici. Le Asl, poi diventate Ussl, erano, fin dall'acronimo, il riflesso di quelle "democrazie popolari" in cui attorno al partito si formava una casta di privilegiati. Il passaggio della sanità alle Regioni, perfezionato con l'Accordo dell'agosto 2001, ha realizzato la più grande fonte di corruzione per la politica locale, come dimostrano le cronache giudiziarie locali i cui protagonisti sono quasi sempre assessori alla Sanità, primari ospedalieri, aziende, ditte e appaltatori sorpresi dalla magistratura a spartirsi il bottino di tangenti su qualsiasi foglia si muova nella sanità.
     Il premier Matteo Renzi non ha torto quando, ai governatori che si lamentano per il mancato incremento del Fondo sanitario nazionale, dice di darsi una regolata nelle spese e di tagliare qualche privilegio. Renzi sostiene una mezza verità che è sotto gli occhi di tutti. L'altra metà non ha il coraggio di dirla: e cioè che è semplicemente folle un Paese con 60 milioni di abitanti e 20 sistemi sanitari autonomi, cioè con venti apparati burocratici, con centinaia di direttori generali e Consigli di amministrazione. Renzi non ha la forza politica per affermare quello che tutti gli italiani vedono. Ma, soprattutto, non ha le carte in regola per simili affermazioni dal momento che di quella selva burocratica che nasconde e tutela grovigli di interessi vicini alla politica lui ne è in qualche modo l'espressione.
     Se ci fosse un'opposizione liberale, ma soprattutto libera dagli stessi vincoli di potere che frenano Renzi, per il premier la vita sarebbe difficile. Per sua fortuna, ma per disgrazie degli italiani, non è così. Il campo del centrodestra è stato colto di sorpresa, e in qualche modo sbaragliato dal movimentismo renziano anche se, a ben vedere, si tratta di un dinamismo che corre sulla superficie dei problemi senza mai prenderli di petto. Qualcuno ha sentito Maroni o Zaia o Toti lamentarsi di dover gestire la sanità e che preferirebbero restituirne la competenza allo Stato? Come potrebbero dirlo se proprio la Sanità, che rappresenta circa il 70% dei bilanci delle Regioni, è diventata uno delle fonti di legittimazione dell'esistenza delle Regioni medesime?
     Pochi lo ammettono, anche se tutti lo sanno, che il ritorno della Sanità in capo alle competenze statali consentirebbe di tagliare la spesa pubblica di 35, forse 40 miliardi di euro all'anno. In conto sarebbero da mettere quelli che Grillo chiama "effetti collaterali", cioè il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti amministrativi assunti nella interminabile stagione del clientelismo politico, come pure qualcuno delle migliaia di primari nominati per "meriti politici" e nient'affatto professionali. I partiti preferiscono guardare altrove ma è significativo che il solo Beppe Grillo, sia pure riferito al Comune di Roma, ha trovato il coraggio di parlare di licenziamento di pubblici dipendenti. È autolesionista Grillo oppure ha fiutato meglio e prima di altri l'aria che tira in Italia?

lunedì 2 novembre 2015

LA "QUESTIONE ROMANA" CAMBIA IL CENTRODESTRA E AIUTA MARCHINI



di Massimo Colaiacomo

     La "questione romana" nel 2016 si pone come l'occasione, non si sa quanto casuale o quanto cercata da Silvio Berlusconi, per cambiare in profondità il centrodestra e fare quel passo indietro da molti sollecitato e mai continuamente accettato dal leader di Forza Italia. La "questione romana" venne brillantemente risolta, nel 1929, dal cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato vaticano, che firmò i Patti lateranensi con Benito Mussolini. Oggi un altro Gasparri, Maurizio, non potrà alzare ostacoli per risolvere una questione romana meno significativa per i rapporti con l'altra sponda del Tevere ma sicuramente rilevante per il profilo del centrodestra che verrà.
     Berlusconi ha giocato d'anticipo sugli alleati, e ha recitato anche la parte, così riferiscono le cronache, di chi teme di aver commesso un errore con l'endorsement ad Alfio Marchini. La verità è forse più semplice: in attesa di costruire un nuovo contenitore, che dovrebbe essere "l'Altra Italia" (un'espressione spadoliniana che suona un po' cacofonica pronunciata da Berlusconi), il leader di Forza Italia ha capito che deve cominciare con "l'Altra Roma" e continuare con "l'Altra Milano", poi "l'Altra Napoli" e via di questo passo.
     Non c'è un modo diverso o più semplice per ridisegnare il centrodestra e affrancarlo dalle pulsioni radicaleggianti di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. La candidatura di Alfio Marchini si presta perfettamente al progetto berlusconiano, vero o immaginario che sia, di non lasciare il centrodestra in balìa delle correnti estremiste. Tale progetto ha una qualche consistenza se nel tempo Berlusconi confermerà l'intenzione, ribadita in un'intervista a Bruno Vespa, di uscire di scena o almeno mettersi ai margini.
     Problemi dunque risolti? Tutt'altro. Le scelte di Berlusconi, a Roma come a Milano e altrove, mettono sul piede di guerra il vecchio ceto dirigente di Forza Italia ma anche chi in quel circolo è entrato in tempi recenti. Non a caso un ampio fronte, da Maurizio Gasparri  a Giovanni Toti, ha espresso il proprio malumore nei confronti del leader e contestato apertamente il suo endorsement per Marchini. Loro, e non solo, sarebbe i primi a pagare un prezzo in termini di potere personale a causa di un corso politico molto simile a un trasferimento di potere dalle mani di Berlusconi in quelle nuove e non compromesse di un personale politico già rodato sul piano amministrativo.
     È una partita temibile quella che il centrodestra si trova ad affrontare alle prossime amministrative. Anche se la affronta da condizioni meno disagiate rispetto al premier. Matteo Renzi, infatti, deve affrontare la battaglia di Roma mimetizzando il PD dietro figure tecniche, prefetti o commissari poco importa, azzerando di fatto la classe politica locale. Per Renzi è oggettivamente più complicato affidarsi a personalità, come si dice con tanta ipocrisia, della "società civile". Egli ha bisogno di personaggi autorevoli e quelli fin qui lasciati intravvedere provengono tutti o quasi da incarichi pubblici. A Roma è un tripudio di prefetti e di commissari, a Milano è il commissario di Expo, Sala, il candidato al momento più accreditato. La differenza non è coì irrilevante come sembra: Renzi deve militarizzare un partito locale che lui, ricambiato, non ama; Berlusconi deve invece mettere vino nuovo ma non in otri vecchi, come sarebbe Forza Italia.