martedì 30 maggio 2017

ECCO PERCHÉ NON SI VOTERÀ IN AUTUNNO


di Massimo Colaiacomo


     Dietro la fumata bianca che annuncia l'imminente accordo sulla legge elettorale fra PD, M5s e Forza Italia si avverte l'odore di bruciato di un sistema politico troppo impegnato a sistemare i rapporti di forza in Parlamento e sempre troppo distante dalla realtà economica e sociale del Paese. Lo scivolone ieri della Borsa di Milano, con i principali indici in forte ribasso, unica Borsa in Europa, sono soltanto l'avvisaglia della tempesta che è pronta a scatenarsi sui mercati, complice anche la stagione estiva quando gli scambi si fanno rarefatti e basta poco per muovere gli indici della valute e delle Borse. Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe accaduto se in una giornata pesante come quella di ieri non ci fosse stato lo scudo del QE di Mario Draghi: lo spread e gli indici borsistici avrebbero sicuramente fatto segnare tempesta con notevole sofferenza per i titoli di Stato e per le tasche degli italiani.
     Renzi, Berlusconi e Grillo, almeno a giudicare dalle loro reazioni, non sembrano essersi accorti di niente. Berlusconi, già in campagna elettorale, ha annunciato un "reddito di dignità", per farla breve, aumenti di stipendio per chi è sotto una certa soglia di reddito. Dal PD, dove la campagna elettorale è permanente, si lascia trapelare l'idea di una finanziaria "a rate", da varare attraverso una serie di decreti dell'attuale governo così da lasciare a Gentiloni la responsabilità dei sacrifici che dovranno essere chiesti agli italiani. I partiti continuano a coltivare l'illusione di una campagna elettorale in carrozza lasciando all'attuale esecutivo il compito di mostrare la faccia feroce. E avviarsi, con una spensieratezza suicida, verso il voto autunnale.
     Il rischio è che le forze politiche la stiano facendo davvero facile, mostrando una irresponsabilità sulla quale non mancherà di accendere i riflettori il presidente della Repubblica. Imbarcarsi in una campagna elettorale sotto il solleone, asfissiando di slogan gli italiani sotto l'ombrellone o al fresco in montagna, è un rituale del tutto estraneo alla tradizione politica. Celebrarlo in una fase in cui il rifiuto della politica e il non voto guadagna fasce sempre più ampie dell'elettorato, ha qualcosa di demoniaco. Davvero Berlusconi, Renzi e Grillo pensano di avere un qualche vantaggio da una simile scelta? C'è da aggiungere una considerazione fin qui rimasta ai margini: introducendo la soglia di sbarramento al 5%, si sa già che saranno 4, forse 5 i gruppi nel prossimo Parlamento. Nessuno di essi sarà la maggioranza per governare e le alleanze post-voto saranno dunque obbligatorie. In queste condizioni, con quale credibilità Berlusconi e Renzi potranno chiedere il voto agli elettori quando sarà evidente dai sondaggi che saranno sfornati con cadenza quotidiana che la loro alleanza è obbligata e senza alternative?
     Neppure è trascurabile il peso che sulla campagna elettorale avrà la condizione della nostra finanza pubblica. Dovendo varare una Legge di stabilità con margini di manovra risicatissimi, come si potranno convincere gli italiani riluttanti che con una maggioranza solida saranno evitate nuove tasse e che tutto filerà liscio nel migliore dei modi? Una campagna elettorale con la Legge di Stabilità da approvare esporrebbe i partiti a un ulteriore bagno di ipocrisia e terrebbe ancora più elettori lontani dalle urne. Al contrario, approvare la Legge di Stabilità prima del voto, significa costringere il PD ed eventualmente i suoi futuri alleati ad un'assunzione di responsabilità chiara nei confronti del Paese. Di fatto le forze che approveranno la legge finanziaria dichiarano già da allora la futura alleanza per governare l'Italia e non sarebbe infondato ipotizzare una risposta positiva da parte degli elettori.
     Le ragioni per non votare in autunno sovrastano decisamente le ragioni per farlo. Ci vuole incoscienza - e ce n'è abbastanza in giro - per anticipare il voto. Ci vuole coraggio - e se ne vede poco - per arrivare alla scadenza naturale. Fra le due opzioni c'è di mezzo l'arbitro del Quirinale. Il presidente Mattarella non può tollerare che il Paese entri in una condizione di non governo per tre-quattro mesi ben sapendo che ciò lo espone sicuramente ai marosi della speculazione. E chi oggi fa calcoli e progetti sulla corsa al voto in autunno dovrà presto ricredersi quando Mattarella metterà gli interessi del Paese prima degli interessi delle diverse botteghe.

venerdì 12 maggio 2017

WARNING DI MONTI E BINI SMAGHI SULLE CONSEGUENZE DELL'EUROPA



di Massimo Colaiacomo


     Qualcuno ha detto che l'intervista altro non è che un articolo rubato. Il tono aforistico di questa sentenza non si addice però alla bella intervista di Mario Monti sulla Stampa. Non solo per l'acutezza delle risposte, tutte senza sconti o indulgenze per il governo di Matteo Renzi, ma anche per l'intelligenza delle domande poste con il consueto, finto disincanto da Fabio Martini. Che cosa dice Monti? Niente di nuovo di quello che già si sapeva delle sue analisi. Niente di nuovo, soprattutto, rispetto alle decisioni prese durante i suoi 16, contrastati mesi di governo. A conferma di una coerenza tra il "fare" e il "dire" che è merce sempre più rara, se non proprio introvabile, sulla scena politica. Monti ha spiegato ancora una volta le "conseguenze dell'Europa" per la politica italiana mentre, in un'altra pagina dello stesso quotidiano, Lorenzo Bini Smaghi, ha spiegato le "conseguenze dell'Italia" sull'Europa. Scelta coraggiosa, entrambe le interviste, da parte di un quotidiano il cui direttore Maurizio Molinari ha scelto una navigazione in mare aperto, senza i minuetti e i birignao di troppa stampa, non solo italiana, docile quando non indulgente verso i governi in carica.
     Senza giri di parole, Mario Monti ha messo in guardia l'Italia dal coltivare qualsiasi illusione sull'arrivo di Emmanuel Macron all'Eliseo. Alle file di supporter dell'ultima ora, Monti ha snocciolato alcuni dei capitoli del programma di Macron per dire che se un asse franco-tedesco si rimetterà in moto sarà dovuto al fatto che Macron farà le riforme e bullonerà il deficit di bilancio come mai nessuno prima di lui aveva tentato di fare. Guai a immaginare - è l'avvertimento di Monti - che con Macron all'Eliseo si mette in discesa il rilancio dell'Europa e si accelera la fine dell'austerità. Macron porta in dote alla Merkel, e quindi alla causa europea, un piano di riforme strutturali - dalla settimana lavorativa al taglio della spesa pubblica e al ridimensionamento della Pubblica amministrazione - perché è ben consapevole dei ritardi accumulati dalla Francia durante il quinquennio di Hollande.
     Chiunque in Italia dovesse pensare di avere Macron a fianco nella battaglia per un allargamento della flessibilità rischia di prendere una cantonata. Per la ragione - spiega Monti - che la flessibilità già ampiamente concessa ai governi italiani è stata sciupata nel peggiore dei modi con elargizioni, bonus e sconti fiscali dal sapore elettoralistico mentre la crescita è rimasta al palo. Per questa ragione, argomenta Monti, è illusorio pensare che la Germania potrà mai essere disponibile a togliere i vincoli di bilancio visto l'uso distorto della flessibilità fin qui fatto dai nostri governi. Se così dovessero decidere Francia e Germania "si comporterebbero verso di noi come il pifferaio di Hamelin, che dopo aver liberato il villaggio dai topi, lì incantò con la sua musica. Essi lo seguirono fino al fiume e lì annegarono. E gli italiani sarebbero proprio come quei topolini: felici e annegati".
     Questo giudizio può apparire spietato, ma l'ex premier lo argomenta molto bene quando richiama il coraggio con cui Macron si è presentato agli elettori ai quali ha parlato a viso aperto, senza cercare responsabili  al di fuori della Francia o in Europa.  Per dire, in sostanza, che l'europeismo "esibito" con coraggio si è rivelato una carta vincente contro gli allettamenti del ripiegamento nazionalista di Marine Le Pen. Al fondo di questa analisi, la domanda sottintesa di Monti è: ci sono europeisti di fede, e non per convenienza, in Italia? La risposta, meno sottintesa, sarebbe: sì, ma si tratta del solo Mario Monti.
     Pendant alle parole dell'ex premier, Lorenzo Bini Smaghi accende uno spotlight sull'ultimo bollettino della BCE e rileva che la crescita asfittica dell'Italia continua a soffrire di due gravi limiti: da un lato, la zavorra del debito pubblico; dall'altro lato, le riforme strutturali largamente incompiute o ampiamente insufficienti le poche realizzate. Da qui il suo allarme: la BCE si prepara a un monitoraggio stretto dei conti pubblici dell'Italia e invocare nuova flessibilità, visto come è sta utilizzata quella fin qui concessa, rischia di provocare soltanto irritazione a Berlino e Francoforte. È appena il caso di notare che entrambi gli intervistati sono conoscitori profondi delle dinamiche economiche e politiche essendo stati, in fasi diverse, Mario Monti commissario alla concorrenza e Bini Smaghi membro del board della Bce.
     Lo stridore fra queste analisi e le cronache quotidiane della politica è forte a tal punto da provocare il capogiro. Vorrà pur dire qualcosa se il tema dominante in questi giorni e nei prossimi rimane quello della legge elettorale. Esattamente come a Bisanzio prima del crollo dell'Impero.


     


lunedì 8 maggio 2017

QUALE LEZIONE PUÒ VENIRE DAL VOTO FRANCESE

La vittoria di Macron è importante per l'Europa. La sua affermazione è resa più significativa dalla decisione di Le Pen di rifondare il Front National


di Massimo Colaiacomo


     Le bandiere dell'Europa che sventolano sulla spianata del Louvre e l'Inno ufficiale dell'Unione europea che accoglie il discorso di Emanuel Macron sono una scenografia impensabile fino a qualche tempo fa nel piatto nazionalista dei Paesi europei. È già in questi simboli che si consuma la prima rupture di Macron rispetto alla Francia tradizionale. Ha impostato, e vinto, una campagna elettorale giocata sull'antinomia Europa sì-Europa no. Marine Le Pen ha scelto il No e ha incassato una sconfitta onorevole, portando il Front National a un risultato storico mai prima raggiunto da suo padre Jean. Quella di Le Pen non è una sconfitta orfana, perché non ha esitato un istante ad attribuirsene la responsabilità. Le Pen è andata oltre: ha riconosciuto che il suo movimento è stato poco inclusivo, troppo radicale nei programmi e ondivago nei propositi. Le Pen ha dimostrato notevole intelligenza riconoscendo che questa strategia ha tenuto lontano dalle urne milioni di elettori e altrettanti ne ha convinti a votare Macron.
     L'analisi del voto nel campo di Le Pen rappresenta forse la vera e più significativa novità. L'antieuropeismo senza un'alternativa credibile non ha forza attrattiva sull'elettorato. Per quanto in affanno, l'Europa è vista ancora come un porto sicuro contro le insidie e le sfide della globalizzazione. Aver alimentato l'indignazione degli elettori per una crisi sociale fra le più lunghe e pesanti del dopoguerra, averne addebitato le cause a un globalismo senza regole e alle ondate migratorie fuori controllo, ha portato sicuramente a Le Pen i voti del malcontento sociale ma ha spaventato quella quota sempre rilevante di elettori timorosi di trovarsi in un Paese isolato, costretto ad affrontare gli stessi problemi senza la sia pur vacillante solidarietà europea.
     Le ragioni della sconfitta di Le Pen sono le stesse della vittoria di Macron. In mezzo, un vero bacino di astensioni e di schede bianche, cioè una larga parte della Francia che ha rifiutato la scelta fra i due candidati. È a questi settori della società francese che deve ora rivolgersi Macron nella sua azione di governo. E sempre a loro dovrà rivolgersi, con toni meno tranchant se non più rassicuranti, Marine Le Pen se vuole ritentare l'avventura dell'Eliseo. Meno anti europeista e più incerta nel rifiuto della moneta unica, Le Pen punta adesso ad un'operazione ambiziosa: assorbire quella vasta area di elettori gollisti delusi da Fillon e rimasti a casa o astenuti nel ballottaggio.
     È comprensibile che nelle cancellerie europee si tiri un sospiro di sollievo per uno scampato pericolo, anche se le ferite socialmente sanguinose della crisi sono tuttora aperte.  Macron porta in dote all'Europa un programma di governo impegnativo: la riduzione di 120.000 funzionari pubblici; il taglio di 75 miliardi di spesa pubblica in cinque anni; la fine controllata della settimana lavorativa di 35 ore, rimessa alla contrattazione aziendale. Sono scelte inevitabili per un Paese ansioso di trattare con la Germania su un piede di parità. Sono scelte mai compiute da alcun governo italiano e, c'è da temere, mai saranno compiute. Chi, come Renzi, spera di trovare in Macron un alleato per aumentare la pressione sulla Merkel e porre fine alla politica di austerità, deve prepararsi a fare scelte altrettanto impegnative.
     Se una lezione per l'Italia si può ricavare dal voto francese essa ci dice che mettere ordine nella finanza pubblica domestica è la condizione preliminare per presentarsi con la necessaria credibilità in Europa. Cosa che finora non è mai avvenuta se è vero che il pareggio di bilancio è una scelta che viene rinviata di anno in anno, dal 2014 fino al 2019. Il voto di ieri ha salvato l'orizzonte dell'Europa ma dice anche quanto lungo sia ancora il cammino che devono fare i singoli Paesi.