sabato 24 marzo 2018

LA LEGISLATURA SOTTO IL SEGNO DI LEGA E CINQUESTELLE

Ma è presto per dire se è nato un nuovo bipolarismo. È certo invece che è calato il sipario sull'epoca che ha avuto in Berlusconi il suo simbolo


di Massimo Colaiacomo


La XVIII legislatura parte nel segno della Lega di Matteo Salvini e del Movimento Cinquestelle di Beppe Grillo. Sulla pagina degli sconfitti sono scritti diversi nomi, ma quello di Silvio Berlusconi campeggia su tutti. Il teatrino sulla candidatura d Paolo Romani, prima avanzata e poi ritirata, alla presidenza del Senato non è abbastanza per nascondere il brutale diktat al quale si è dovuto piegare quello che è stato per un quarto di secolo il padre-padrone del centrodestra. È vero, il M5s aveva candidato Fraccaro e poi ha dovuto fare marcia indietro per puntare su Fico, con ciò dando soddisfazione al centrodestra che non poteva limitarsi a subire il diktat su Romani senza metterne a sua volta sulla candidatura grillina alla Camera. Ma sempre di un teatrino si è trattato, uno spettacolo quasi penoso allestito al solo scopo di ammansire il vecchio leone Berlusconi impedito dalla realtà dei numeri parlamentari  a cacciare i suoi ruggiti.
Sono Salvini e Di Maio i due kingmaker nella costruzione degli equilibri istituzionali, perché così hanno deciso gli elettori. E saranno ancora loro, con qualche cautela, a delimitare la futura maggioranza di governo. C'è del vero, nel comunicato congiunto diffuso dopo il vertice del centrodestra, quando si afferma che gli accordi per le presidenze del Parlamento non devono essere considerati prodromici per la nascita della maggioranza di governo. Non saranno prodromici, ma hanno pur sempre la forza riconosciuta a ogni precedente. Che cosa, infatti, potrà impedire di replicare una tale maggioranza se l'arbitro del Quirinale non dovesse disporre di altre carte? È vero che per affidare l'incarico di governo Mattarella dovrà fare valutazioni molto più approfondite di quelle necessarie per la scelta dei vertici parlamentari. La compatibilità dei programmi delle forzse politiche con gli impegni europei e di politica estera e di difesa sui quali è stata costruita l'identita dell'Italia nel corso di questi decenni. Mattarella vorrà inoltre verificare il grado di compatibilità dei programmi esposti dalle diverse forze politiche in campagna elettorale per capire quanta parte di essi era per la vetrina della propaganda e quanta parte potrà entrare nei programmi di governo e con quali conseguenze sugli equilibri di finanza pubblica.
Non si spingerà mai oltre il confine dei suoi doveri istituzionali, ma le consultazioni che si apriranno al Quirinale dopo Pasqua ritagliano per Mattarella un ruolo di "maieuta" per la nascita del governo perché mai come in questa circostanza la neutralità politica del presidente della Repubblica non potrà essere confusa con la indifferenza per quello che i partiti metteranno nero su bianco per il governo dell'Italia. Se davvero Salvini insisterà per cancellare la legge Fornero, come ha sempre sostenuto, come può il presidente Mattarella sottrarsi al dovere di conoscere con quali misure precise il governo intende recuperare i circa 24 miliardi di spese aggiuntive che ne derivano? Se davvero i Cinquestelle intendono introdurre il reddito di cittadinanza o di nascita, può Mattarella lasciar correre senza prima conoscere da dove verranno le risorse per una tale impresa?

La coalizione di centrodestra esce ammaccata dalla vicenda delle presidenze delle Camere, ma ancora formalmente in piedi. Ben maggiori rischi correrà la coalizione quando si passerà alle trattative per la formazione del governo. Berlusconi non ha più la chiave di quell'alleanza ttrasformata, molto per i suoi errori e molto per la spavalderia di Salvini, in una prigione al cui interno Forza Italia è diventato un socio ancora importante nei numeri ma irrilevante come peso politico. Berlusconi ha voluto tenersi stretta la Lega di Salvini seguendolo sempre in tutti gli strappi consumati sulla via dell'estremismo: dall'abolizione della Fornero, all'espulsione degli immigrati all'abolizione del jobs act. Oggi raccoglie i frutti di un abbaglio strategico che ha tentato disperatamente di correggere in corso d'opera con una giravolta europeista e con la candidatura di Tajani a palazzo Chigi. Due "pezze" messe lì alla buona, senza alcuna credibilità perché il danno era stato fatto e i cocci sono tutti di Berlusconi e di Forza Italia. 

martedì 6 marzo 2018

IL POPULISMO SCUOTE L'EUROPA, MA SOLO IN ITALIA GOVERNA


di Massimo Colaiacomo

     La lunga stagione della delegittamazione della politica ha avuto il suo culmine con il voto del 4 marzo. Gli elettori hanno fatto calare il sipario su Matteo Renzi e Silvio Berlusconi e hanno messo sugli altari il movimento Cinquestelle e il leader della Lega Nord, Matteo Salvini. Giudizio più netto non poteva venire dalle urne anche se lo scenario disegnato dal voto si annuncia denso di incognite complicate per risolvere le quali non sarà sufficiente la tenacia e l'abilità che tutti riconoscono al presidente Mattarella. Senza un supplemento di responsabilità da parte dei vincitori il quadro politico è destinato ad aggrovigliarsi e nuove elezioni sarebbero inevitabili, con conseguenze al momento non facili da immaginare. Preso atto del verdetto elettorale, i partiti sono attesi a una seria riflessione sulle ragioni che hanno sconvolto la rappresentanza politica in Parlamento come non è accaduto in nessun altro Paese europeo, con l'eccezione dei Paesi ex comunisti (Ungheria, Polonia, Slovacchia) in cui però le forze politiche tradizionali resistono e hanno una rappresentanza importante in Parlamento.
     Giusto allora chiedersi perché le forze populiste, presenti in Germania non meno che in Francia, Spagna e Gran Bretagna, soltanto in Italia sono cresciute al punto da diventare forze di governo. Perché il Paese con l'opinione pubblica più europeista, almeno fino alla firma del Trattato di Maastricht, è scivolato via via fino a tramutare l'entusiasmo in rifiuto dell'Europa? Salvini e Grillo non vengono dal nulla o da un altro pianeta. Le loro idee e i loro giudizi hanno trovato terreno fertile in un'opinione pubblica alla quale per decenni è stato spiegato che la causa dei nostri problemi stava nelle regole europee, nel rigore di bilancio tedesco imposto agli altri partner. Hanno predicato così Silvio Berlusconi e lo stesso Matteo Renzi, prima di una strumentale riconversione in chiave europeista in campagna elettorale.
     I partiti hanno seminato vento e il 4 marzo hanno raccolto tempesta. È dal lontano 1992, con l'esplosione di Tangentopoli, che la politica è stata messa in mora. È da un quarto di secolo che agli elettori viene chiesto di votare contro qualcuno o contro qualcosa dietro la promessa di regalare quello che il Paese non ha. È vero che il populista Salvini, fiero di esserlo, ha smorzato il suo antieuropeismo una volta intravista la soglia di palazzo Chigi. I Cinquestelle sono pronti a violare il limite del 3%  nel rapporto deficit-Pil, ma sono anche disponibili a rinunciare al referendum sull'euro. Si tratta in ogni caso di impegni molto vaghi, come vaghe sono state finora le minacce. Così la "promessa" di rimpatriare 600 mila clandestini, che nessun governo, foss'anche sorretto da una maggioranza straordinaria, può essere in grado di mantenere.
     Dar vita a un esecutivo che abbia un certo orizzonte temporale diventa, leggendo i numeri del voto, un'impresa titanica, al di là di ogni ragionevolezza. Il presidente Mattarella non può aver apprezzato i paletti messi da un Renzi "candidato alle dimissioni" da segretario. Il rifiuto a qualsiasi alleanza con le forze populiste ed estremiste è soltanto la manifestazione di un orgoglio politico fuori misura per chi ha guidato il partito a una rotta elettorale e politica superiore a quella della SPD di Schultz. Un governo ci sarà e non sarà, come immaginano Di Maio e Salvini, un governo coeso e "anti-inciucio". Uno dei più brutti neologismi coniati dalla politica recente è destinato a nuova vita proprio con la nascita di un esecutivo che avrà, per necessità, il sostegno di forze esterne al M5S o alla coalizione di centrodestra. E il PD, pur nella sconfitta, sarà ancora decisivo con i suoi parlamentari. Da qui a immaginare l'Italia laboratorio di una nuova dimensione della politica e della rappresentanza parlamentare ne corre abbastanza. Tutt'al più l'Italia può essere il laboratorio di quello che può accadere in una grande democrazia quando la politica smarrisce il filo e il proprio ubi consistam. L'ultimo, e il più fatale errore è pensare che la nascita di un esecutivo purchessia consenta di archiviare quello che è accaduto il 4 marzo.