martedì 23 febbraio 2016

LA REALTÀ ASSEDIA RENZI E RENZI ASSEDIA BERLINO


di Massimo Colaiacomo

     Se le cose non vanno troppo bene a Roma è perché vanno troppo bene a Berlino. E se le cose vanno troppo bene a Berlino è perché i Trattati sono stati piegati dalla volontà di egemonia tedesca in Europa. Molto semplificato, è lo schema al cui interno si iscrive la strategia euro-italiana di Matteo Renzi e la conseguente decisione di mettere sotto assedio il cuore della politica europea. Non c'è un solo atto del premier (ultimo il "Position paper" intestato formalmente al ministro dell'Economia) da cui non sprigioni una critica all'indirizzo del governo tedesco. Si tratti della politica di bilancio o degli immigrati, delle banche o dei mancati investimenti, Renzi ha messo in campo una strategia a tenaglia, alimentata, da un lato, di contestazioni, anche risentite, alla politica di austerità e, dall'altro lato, di proposte non esattamente originali per portare l'Unione fuori dall'impasse in materia di crescita, occupazione e investimenti.
     Non è del tutto chiaro, a giudicare dalle valutazioni fatte ancora ieri nella conferenza con la stampa estera, fino a che punto Matteo Renzi sia convinto di aprire una breccia nel muro dell'austerità tedesca. Si fa strada, al contrario, la sensazione che Renzi voglia costruire un linkage sempre più stretto fra politica domestica e politica europea. Stabilendo, come per il principio dei vasi comunicanti, una correlazione fra la sua volontà di cambiare l'Italia e l'ostilità dell'Europa a fornirgli gli strumenti per farlo. L'Europa diventa così un alibi formidabile per giustificare la debolezza della ripresa economica e le prospettive tuttora incerte.
     L'immagine di un "antieuropeista europeista" che Renzi si va ritagliando è soltanto una convenzione giornalistica, ma non basta a nascondere l'azzardo della sua strategia. "La Stampa" ha anticipato stamane le valutazioni della Commissione europea sull'Italia. Si tratta ancora di valutazioni tecniche, visto che si deve attendere la primavera inoltrata per avere un assessment politico. La valutazione preliminare della Commissione è prudente, tutta in chiaroscuro perché riconosce i progressi fatti dal lato delle riforme ma denuncia anche la lentezza nel mettere sotto controllo il debito pubblico e nell'implementare una spending review all'altezza.
     È lecito chiedersi sulla base di quali valutazioni Renzi spera di ottenere da Bruxelles e da Berlino quello che è stato negato ai suoi predecessori. A suo favore giocano indubbiamente alcuni fattori. Per dire, Renzi ha introdotto un dinamismo nelle decisioni e nel percorso delle riforme che nessuno prima di lui aveva mostrato di possedere. Ma, soprattutto, Renzi può paradossalmente beneficiare delle peggiorate condizioni politiche del contesto europeo. La confusione sotto il cielo di Bruxelles è enorme e la situazione potrebbe essere eccellente, per parafrasare Mao Zedong, per una rivoluzione nelle liturgie europee. Gli attori principali, e Merkel in testa a tutti, non godono più una grande salute politica e sono alle prese con il problema dell'immigrazione biblica che sta scuotendo le fondamenta dell'edificio europeo e provoca rigurgiti nazionalisti che si credevano sopiti per sempre.
     Renzi ha colto il momento di debolezza dei suoi alleati-avversari e cerca di tramutarlo in un punto di forza per le rivendicazioni dell'Italia. Le proposte di riforma che Padoan illustrerà ai suoi colleghi non sono particolarmente originali e alcune di esse, come gli eurobond per finanziare investimenti in infrastrutture, o la mutualizzazione progressiva dei debiti, sono già state respinte in passato dalla Germania e dai Paesi del Nord. Perché dovrebbero ora essere accolte? Sulla base di quali progressi della finanza pubblica italiana Renzi può sostenere le sue richieste? La Commissione non interviene nella stesura dei bilanci nazionali, ne valuta però attentamente le conseguenze sul piano della stabilità fiscale e della tenuta dei conti. Cioè di quello che era, e rimane, il vero tallone d'Achille dell'Italia in Europa. Nessuno può impedire a Renzi di dare 500 euro ai giovani che compiono 18 anni o di stabilizzare il bonus di 80 euro mensili per i redditi da lavoro dipendente, ma se queste misure non hanno prodotto una ripresa significativa dei consumi, non hanno aiutato a creare nuova occupazione e hanno invece appesantito il debito e prodotto uno scostamento significativo del deficit vuol dire che il governo italiano si è mosso in una direzione sbagliata. Su questo punto Renzi non ha argomenti. Una sua affermazione, ripetuta con una certa frequenza, ne rivela fino in fondo il retropensiero: dove sono state applicate le ricette della trojka, hanno vinto i populisti. In Europa, però, rovesciano questo argomento: dove invece non sono state applicate, disoccupazione e debito crescono a braccetto. Questo è il punto: Renzi non taglia la spesa e non è incisivo nelle riforme perché non vuole perdere le elezioni. È una vecchia storia italiana e Renzi rischia di esserne soltanto l'interprete più recente e smaliziato.
   
     

sabato 20 febbraio 2016

CHI COMPLOTTA CONTRO RENZI? ECCO I NOMI

di Massimo Colaiacomo

     La teoria del complotto è il più classico dei passe-partout utilizzati nella lotta politica per spiegare una realtà negativa sulla quale non si riesce a esercitare una presa forte abbastanza per invertirne il corso. A essa ogni potere, di qualunque colore e tendenza politica, ha sempre fatto ricorso quando non riusciva a trovare una spiegazione plausibile sul perché la realtà non coincideva con i desideri di chi governa. Nella storia italiana recente lo hanno fatto Mussolini e Berlusconi, ma nel passato remoto nessuna dittatura ha saputo resistere al fascino del complotto. Salvador Allende, per dire, fu rovesciato sicuramente per l'interessamento degli Stati Uniti e di Richard Nixon e tanto bastò per accreditare la tesi che il socialista Allende è stato fatto fuori dal capitalismo americano. Il che è un falso storico: il capitalismo americano e i suoi interessi furono soltanto la leva che "i fatti oggettivi" utilizzarono per riportare il povero Allende al contatto con una realtà che gli era completamente sfuggita.
     Perché la teoria del complotto si affermi è dunque necessario il travisamento della realtà ad opera di chi esercita il potere e, soprattutto, è indispensabile che il sistema dell'informazione assecondi la teoria fino a farla coincidere con la realtà percepita così da appannare e rimuovere la realtà oggettiva. Pensare che Mario Monti sia un cospiratore dei poteri forti, domestici o europei, contro Matteo Renzi per aver manifestato, alla luce del sole, le sue perplessità sulla strategia europea del governo è, nel migliore dei casi, un peccato di ingenuità da parte dell'informazione italiana. Nel peggiore, è la manifestazione della totale inadeguatezza del sistema informativo. Si è mai visto nella storia, non solo politica, un cospiratore che si mostri a viso scoperto e dichiari scopertamente di voler eliminare un avversario politico, magari dichiarando anche nomi e cognomi dei mandanti?
     A riprova del pressappochismo dell'attuale ceto dirigente, c'è una nota di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Perfetta e confusa, nello stile del personaggio, ma esemplare dello schema tautologico in cui si avvita il ragionamento politico. Eccola: "Renzi in Europa non tocca palla. L'Italia di Renzi in Europa non esiste. Per la verità in Europa non contavamo molto neanche in passato. Solo Berlusconi cercò di invertire la rotta, e i poteri forti lo accerchiarono e lo fecero fuori". Lo ha detto Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. "Mercoledì, al Senato, Renzi -ricorda - prima del Consiglio europeo del 18-19, ha fatto un discorso molto duro, e in parte condivisibile. Ha detto, rivolgendosi evidentemente ai tedeschi, 'cosa fate le pulci a noi quando avete una banca piena di titoli tossici come la Deutsche Bank?'. Ecco, la stessa banca che nel 2011 aveva causato la crisi dello spread. Quello dello spread era un grande imbroglio, anche oggi sulle banche potrebbe esserci dietro un grande imbroglio. Ma chi ha cavalcato il grande imbroglio dello spread adesso è alleato di Renzi. Napolitano è ancora lì. Mandò via Berlusconi nel 2011 e tra fine 2013 e inizio 2014 dopo una cena con Renzi decise per la defenestrazione di Enrico Letta. Dall'estate-autunno 2011 viviamo in una sospensione della democrazia. Da quando qualcuno decise che Berlusconi doveva cadere. Non erano riusciti a farlo con Ruby, con Noemi, e Berlusconi fu fatto fuori per l''economia. E Renzi verrà fatto fuori per l'economia".
     È evidente che Brunetta, nel calore polemico, finisce per riconoscere a Renzi il destino del martire, lo stesso di Silvio Berlusconi, perché, proprio come Berlusconi, accerchiato dall'Europa "cattiva" che vuole disarcionarlo. Come le ciliegie, anche per i complotti finisce che uno tira l'altro. Perché Brunetta, e Renzi che, riferiscono le cronache, subodora manovre contro di lui, non fanno i nomi? Per la ragione che conoscono quei nomi, uno per uno, ma preferiscono tacerli perché in quasi tutti i casi coincidono con i nomi delle presunte vittime. Proviamo qui a elencarli:

1) Debito pubblico:  Silvio Berlusconi ha lasciato il debito pubblico al valore nominale di circa 1.936 miliardi di euro, nel novembre 2011. Oggi, febbraio 2016, il debito viaggia intorno ai 2.260 miliardi. In cinque anni è cresciuto di nominali 424 miliardi. Nello stesso arco di tempo sono state fatte manovre per complessivi 280 miliardi circa. Lo sbilancio finale è di oltre 700 miliardi di euro drenati dalla società e "bruciati" per tenere in piedi l'Italia.

2) Spending review: Renzi si era trovata, nell'estate-autunno del 2014, una lista ragionata di interventi mirati per ridurre la spesa pubblica. L'autore, il professor Carlo Cottarelli, suggeriva interventi, in alcuni casi con il bisturi, in altri con le cesoie, in grado di produrre risparmi di spesa crescenti nel tempo: 10 miliardi nel 2015, 12 nel 2016, 32 miliardi nel 2017. Letta la lista, Renzi l'ha riposta ordinatamente nei cassetti. Cottarelli è stato congedato, al suo posto è arrivato Yoram Gutgeld e i tagli sono diventati prima di 6, poi di 4 e infine di 2 miliardi. A consuntivo di bilancio, c'è da credere che i tagli saranno prossimi allo zero.

3) Tagli delle municipalizzate e delle partecipate: Renzi ha assicurato che saranno ridotte da 8.000 a poco più di mille. Il relativo disegno di legge è stato prima inglobato e poi stralciato dalla riforma della Pubblica amministrazione e rimane tuttora in attesa di presentazione. Intanto migliaia di ex parlamentari continuano ad arrotondare i vitalizi con incarichi di consigliere in questa o quella municipalizzata.

4) Il sistema bancario italiano è "solido": è la cantilena che gli italiani sentono ripetersi, prima di andare a letto o al loro risveglio, da tutti i canali televisivi. Si potrebbe commentare con una battuta: sarà pure "solido", ma è poco "liquido". Da Berlusconi in avanti, non c'è stato presidente del Consiglio (Monti, Letta e ora Renzi) che non abbia menato vanto nell'informare il Paese che mai avremmo accettato gli aiuti della trojka. Bene. Ora le banche si trovano con crediti deteriorati stimati in circa 360 miliardi di euro (e non 200 come si ostinano a ripetere dal Mef o da palazzo Chigi): nei crediti deteriorati vanno ricompresi correttamente tanto le sofferenze (di difficile esigibilità) quanto gli "incagli" più facilmente esigibili o recuperabili. Spagna e Irlanda non hanno esitato, fra il 2011 e il 2012, a portare alla luce le difficoltà delle loro banche e a sottoporsi alla dura terapia della trojka. Oggi hanno un sistema del credito ripulito e affidabile.

     L'elenco dei complottando potrebbe continuare, con la riforma poco incisiva del mercato del lavoro o quella superficiale della "buona scuola". Si può chiudere qui, però, osservando che quei complottando sono stati finanziati e nutriti dal piccolo cabotaggio e dalla convenienza politica, gli unici parametri non previsti dal trattato di Maastricht. Mario Monti ha avuto ragioni da vendere nel suo intervento al Senato. Parole di un europeista coraggioso, ma non incosciente, in cui i mass media hanno visto, in parte sbagliando, una polemica feroce all'indirizzo del premier. Renzi dice di aver fatto i compiti a casa. Ma se i compiti li fai sbagliati, il giorno dopo non puoi aspettarti una medaglia.    

mercoledì 17 febbraio 2016

SULLE UNIONI CIVILI RENZI PAGA UN ECCESSO DI ASTUZIA

Si è puntato tutto sulle procedure parlamentari per aggirare il merito. I Cinquestelle hanno capito tardi che stavano levando le castagne dal fuoco del PD. L'equivoco culturale della "modernità" schiaccia un Paese smemorato e senza più radici nella tradizione civile. 


di Massimo Colaiacomo


     Esagera sicuramente la senatrice Monica Cirinnà quando vede nella sospensione del dibattito in Aula la fine della propria carriera, a causa della fiducia mal riposta nei Cinquestelle. Se il problema fosse tutto qui, sarebbe poca cosa. I Cinquestelle hanno dato in precedenza numerose prove preclare della loro inaffidabilità, con la sola eccezione dell'elezione dei giudici costituzionali. La questione, semmai, è speculare a quella posta da Cirinnà: perché il PD ha preferito rischiare l'osso del collo, chiedendo i voti pentastellati sull'emendamento-canguro di Andrea Marcucci, pur di approvare una legge che tante lacerazioni ha provocato al suo interno e nella società?
     Il sospetto è che il premier puntando all'approvazione di un provvedimento tanto caro alle forze alla sua sinistra mirasse, con una maggioranza diversa da quella che sostiene il suo governo, a due obiettivi chiari: silenziare i dissensi della componente cattolica (ma non solo, perché anche Napolitano e i senatori d'origine PCI nutrono forti perplessità); presentarsi al Paese nelle vesti di un modernizzatore, cogliendo un successo grazie al quale poter nascondere i numeri traballanti e opachi dei conti pubblici.
     A questo e a niente altro sarebbe servito l'accordo con il M5s. Ovvio che Grillo fiutata la trappola, sia pure in ritardo, ha rovesciato il tavolo ancora una volta lasciando il PD alle prese con le sue divisioni. Perché, come ha giustamente ricordato Casini, il primo e più grave errore di Renzi è stato di aver impostato la battaglia sulle unioni civili sul piano delle furbizie procedurali, come è l'emendamento-canguro di Marcucci attraverso il quale si fanno decadere tutti gli altri impedendo una discussione nel merito del provvedimento. L'espediente del "canguro", riuscito sulla riforma costituzionale (davvero irrituale che si sia cambiata la Costituzione senza poter discutere gli emendamenti) stavolta si è ritorto contro i suoi proponenti.
     Giunti al bivio, si tratterà ora di capire se si può approvare il provvedimento senza la controversa stepchild adoption, o se il PD non preferisca affossare del tutto le norme. Anche qui, Renzi farà i suoi bravi calcoli politici: meglio le unioni civili, sia pure prive della stepchild adoption, oppure è preferibile affossare il provvedimento scaricando la responsabilità sui grillini e su questo fare la campagna elettorale per le prossime amministrative? Il PD, lo ha ripetuto il capogruppo Luigi Zanda nell'Aula del Senato, tiene molto a questa legge ma dopo la giravolta dei grillini Renzi deve prendere atto che il suo partito non più il dominus del Parlamento, non essendo in grado di coagulare una maggioranza diversa da quella che lo sostiene.
     È facile prevedere come nei prossimi giorni riprenderà la solfa sull'Italia "ultimo Paese europea senza una legge sulle unioni civili", oppure "è l'Europa che ce lo chiede". Cosa quanto mai curiosa è l'assunzione del parametro europeo quale metro di misura della "modernità" in tema di diritti civili, quasi che tutto quello che si stabilisce a Bruxelles sia di per sé garanzia di ampliamento delle libertà e dei diritti. Molte delle cose che si decidono in Europa vedono l'Italia allegramente inadempiente (si pensi, sempre in tema di diritti civili, al sovraffollamento delle carceri e alla mancata riforma della giustizia civile). La verità è che il renzismo, costruito sulla scia spumosa del nuovo e del moderno, si sta rivelando pericolosamente privo di contenuti e di una direzione di marcia. Renzi ha ultimato la demolizione delle tradizioni civili dell'Italia, lavoro avviato e intrapreso di buona lena da tutti i governi che lo hanno preceduto negli ultimi vent'anni. Così l'Europa, rifugio inospitale e madre matrigna con le sue ferree regole di finanza pubblica, si trasforma d'incanto in un porto accogliente. Guai però a trascurare i vascelli che si stanno armando un po' ovunque in Europa per uscire da quel porto da molti considerato insicuro.

sabato 13 febbraio 2016

IL CENTRODESTRA HA LAVORATO, E BENE, ALLA PROPRIA SCONFITTA



di Massimo Colaiacomo

     Bertolaso contro Marchini e Storace. Giachetti contro Mascia e Fassina. Centrodestra e centrosinistra si presentano schierando tre punte al primo turno delle comunali a Roma. Fuori da questi schieramenti c'è il candidato X dei Cinquestelle. Guadagnare il secondo turno diventa dunque un affare complicato nei due campi più affollati. Si tratta di capire quale dei candidati riuscirà a farsi sottrarre meno voti dagli altri competitori del suo schieramento. Quanti voti Storace porterà via a Bertolaso e quanti Bertolaso ne prenderà da Marchini, e viceversa? La condizione di Giachetti è meno complicata perché, in caso di vittoria alle primarie, si ritroverà un PD compatto o comunque interessato a mostrarsi tale mettendo fra parentesi le divisioni interne.
     Molto più complicata è la situazione nel centrodestra. La scelta di Bertolaso, fortemente voluta da Berlusconi, è il risultato di negoziati snervanti per mitigare, da un lato, le pretese di Giorgia Meloni e aggirare, dall'altro, i veti di Matteo Salvini. Il punto di equilibrio trovato con la candidatura dell'ex responsabile della Protezione civile assomiglia molto più a una tregua, un compromesso, che non a una solida base di ripartenza per un centrodestra che, di fatto, ha smesso di esistere, almeno nella versione incarnata da Berlusconi.
     Come centrodestra e PD siano arrivati a designare i rispettivi candidati a Roma e a Milano è un punto destinato a pesare in campagna elettorale. Passando per le primarie, Beppe Sala si presenta a Milano come il candidato di una sinistra inclusiva, capace di andare oltre il perimetro del PD. Certo, colpisce un po' sul piano mediatico averlo visto che esibiva la maglietta con l'icona del "Che", ma si tratta di una concessione, o, se si preferisce, di una sbavatura che sarà presto dimenticata. Il suo sfidante è il "pariolino", e dunque romanissimo Stefano Parisi. È stato battezzato da Berlusconi, con piena soddisfazione di Salvini e Meloni. Parisi è un ottimo manager, ha lavorato con Albertini e Moratti prima di imbarcarsi nell'avventura di Fastweb con Stefano Scaglia. Diversamente da Sala, però, Parisi dovrà entrare impiegare un pezzo della campagna elettorale per entrare nell'immaginario degli elettori di centrodestra, se ancora esiste o se non vada addirittura ricostruito ex novo.
     Non è molto diversa la condizione in cui è messo Bertolaso a Roma. Da tecnico non ha ricevuto nessun battesimo politico se non la faticata investitura arrivata da Berlusconi dopo aver convinto i riottosi alleati. Bertolaso e Parisi si sono fatti politici per un atto unilaterale di Berlusconi che di fatto, attraverso le loro candidature, vorrebbe simulare una sua (ri)discesa in campo. Si tratta con tutta evidenza di una confisca della politica con il rischio di accrescere per questa via il sentimento di estraneità degli elettori. È dubbio che Meloni capolista di Fratelli d'Italia possa fare il miracolo fin qui non riuscito.
     Il punto è che Berlusconi ritiene, avendo evitato le primarie, di avere ripreso nelle sue mani le redini del centrodestra agonizzante nella formula fin qui conosciuta e invecchiata con il suo geniale ideatore. Trascura il fatto che la resistenza di Alfio Marchini, pronto a tenere il punto e a non fare passi indietro, è un'insidia fin qui sottovalutata nel vecchio centrodestra. Se qualcuno ha confuso Marchini con un Fitto di passaggio sarà costretto a rivedere i suoi calcoli. L'ingegnere ha dato prova di coerenza da quando, nel 2013, si è battuto contro Marino. È rimasto al suo posto nell'aula Giulio Cesare e ha condotto un'opposizione risultata infine decisiva per rimuovere Marino. Questo gli vale un titolo politico, trascurato da chi come Giorgia Meloni si ostina a incorniciare Marchini nella storia della famiglia comunista. La battaglia di Roma diventa per Berlusconi una battaglia per la sopravvivenza politica: se Bertolaso non dovesse raggiungere il ballottaggio, il centrodestra, e Forza Italia più di altri, pagherà un prezzo pesante.
        

martedì 9 febbraio 2016

NELLA BATTAGLIA DI ROMA IL CENTRODESTRA SI GIOCA TUTTO CONTRO MARCHINI



di Massimo Colaiacomo


     Le elezioni non sono mai una vicenda locale quando si svolgono in città come Roma e Milano da sempre decisive negli equilibri politici nazionali, o perché li consolidano oppure ne anticipano i mutamenti. In entrambi i casi, la battaglia di Roma non sarà priva di riflessi dentro il PD e, in tempi più lunghi, nella maggioranza di governo. Renzi può vincere a Milano e perdere a Roma, con ciò limitando il danno di un passaggio elettorale che il premier ha tutto l'interesse a circoscrivere in un perimetro locale.
     Nel centrodestra che insegue la partita nella Capitale è molto più complicata. Se la sfida a Milano appare difficile se non proprio compromessa, a Roma è un imperativo assoluto vincere una battaglia che, al contrario, si sta mettendo tutta in salita, anche per gli errori del centrodestra. Berlusconi, Salvini e Meloni devono conciliare due esigenze mai come in questo momento difficili da conciliare: tenere unita la coalizione e vincere la corsa al Campidoglio. Nel primo caso, si sa, il partito di Giorgia Meloni ha alzato un muro sul nome di Alfio Marchini, il candidato "civico" al quale Berlusconi guarda da sempre con simpatia intermittente. Sarebbe tentato dalla sua candidatura per diverse ragioni, non ultima la capacità riconosciuta a Marchini di rimettere insieme settori dell'elettorato moderato attirati nell'orbita renziana ma non del tutto stabilizzati. Contro Marchini, però, Meloni e Storace hanno lanciato la storia famigliare, a Roma ben conosciuta come quella di una famiglia di forti simpatie comuniste.
     Come aderire al veto della destra sociale e trovare un candidato con le caratteristiche di Marchini, ma senza la sua storia, per vincere a Roma? È un rebus pressoché irrisolvibile. I nomi che circolano in queste ore, quello di Fabio Rampelli, esponente storico della destra missina a Roma, e del magistrato Simonetta Matone, volto noto televisivo ma estranea alla scena politica, prefigurano opzioni molto diverse. Il primo segnalerebbe un centrodestra blindato in un perimetro sempre più avaro di consensi, Nel secondo caso, invece, giocando la carta della novità, si punterebbe a rompere le uova nel paniere di Alfio Marchini sovrapponendogli un candidato con caratteristiche molto simili. Rimane il fatto che Marchini è in campo da tre anni, si è costruita una base di consensi piuttosto solida potendo oltretutto esibire un alto livello di autonomia rispetto al centrodestra tradizionale. Sotto questo aspetto la sfida di Roma, quale che sarà il suo esito finale, contiene un'altra sfida forse ancora più importante: è quella fra Alfio Marchini, deciso comunque a tirare dritto quale che sarà la decisione di Berlusconi, e il ceto politico del centrodestra costretto a difendersi da una candidatura che minaccia di insidiarne la leadership non solo locale. Marchini punta a raccogliere i voti del centrodestra senza la benedizione dei suoi leader. Una sfida mortale per Berlusconi, Salvini e Meloni.    

lunedì 8 febbraio 2016

SULLE UNIONI CIVILI GRILLO SBAGLIA PARTITA E PD DIVENTA CENTRALE



di Massimo Colaiacomo


     Chi di sondaggio ferisce ... È successo anche alla Casaleggio&Associati. Un sondaggio fra gli iscritti-elettori ha convinto il guru di M5s a un'improvvisa strambata costringendo la già turbolenta navigazione del gruppo a fare rotta sugli scogli delle unioni civili. L'improvviso ripensamento dell'eterodirettore dei parlamentari grillini che ha dato "libertà di coscienza" sulla stepchild adoption ha colto di sorpresa i gruppi, che già avevano dato la loro adesione al ddl Cirinnà, compresa la controversa norma, a condizione che non venisse cambiata una sola virgola del provvedimento.
     L'eccesso di furbizia tattica rischia questa volta di costare caro ai grillini. Se l'intento era di accentuare le divisioni all'interno del PD, soffiando sul disagio della componente cattolica, e andare a braccetto con un sentimento diffuso nell'opinione publica moderata, il risultato rischia di essere un buco nell'acqua. Perché Renzi e il PD non hanno accennato il benché minimo sbandamento. Il premier ha tenuto la barra ferma sull'impianto del provvedimento e punta, per questa via, ad assorbire i voti di quei parlamentari grillini che si erano detti favorevoli al provvedimento. La "libertà di coscienza" annunciata da Casaleggio arriva fuori tempo e trasmette l'immagine, sul piano politico, di una ritirata detta da una convenienza elettorale senza nessuna convinzione politica.
     Capita sempre più di frequente ai leader politici, non solo grillini, di restare impigliati nei sondaggi considerati alla stregua di una sentenza della Sibilla cumana. Per dire, se la cancelliera Angela Merkel avesse condotto un sondaggio in settembre prima di cambiare la sua linea sugli immigrati e aprire le porte dell'accoglienza, probabilmente non avremmo mai assistito alle immagini di quella trasmigrazione biblica che si affaccia ogni giorno dal televisore.  La cancelliera ha invece deciso - d'istinto, per calcolo politico o per convenienza economica -  e ha accettato di pagare un prezzo non indifferente se è vero che ha dovuto aggiustare passo dopo passo la sua strategia sull'immigrazione. Ha deciso, però, con risolutezza e tempestività, qualità indispensabili a un leader, senza lasciarsi condizionare dai sondaggi. È tutta qui la differenza fra un leader che "guida" il suo popolo, ne accetta le critiche e i malumori, e un leader populista che, al contrario, "si lascia guidare" dagli umori del popolo.
     Si può ragionevolmente affermare che sulla vicenda delle unioni civili il premier Renzi, forse per la prima volta, ha messo da parte i sondaggi e mette il PD nella condizione di "guidare" un processo parlamentare, sicuramente ad alto rischio, senza condizionamenti da parte di alleati e avversari. Contestabile e da contestare nel merito e nel metodo, il provvedimento Cirinnà è diventato un altro tassello nella partita impostata da Renzi per tagliare un po' d'erba sotto i piedi dei suoi avversari a sinistra e per ribadire la centralità della sua leadership sul campo moderato che lo appoggia in Parlamento, dentro o nei dintorni della maggioranza di governo. I mugugni silenti di Alfano non possono impensierire il premier, al quale hanno già garantito il loro voto i 18 senatori di Denis Verdini. Comunque finirà la partita, Renzi non ha nulla da perdere visto che non ha impegnato l'esecutivo. In caso di vittoria, però, gli sarà facile spegnere le ultime voci di dissenso dentro il PD.

martedì 2 febbraio 2016

RENZI ALLE PRESE CON LE ASIMMETRIE DELLA REALTÀ EUROPEA



di Massimo Colaiacomo


     Le parole di Manfred Weber sull'esaurimento dei "margini di flessibilità" nei conti pubblici dell'Italia sono finite nel tritacarne della politica romana suscitando il ben noto trambusto con uno scambio di ruoli non privo di risvolti comici. Renato  Brunetta, antieuropeista intransigente, difende Weber e legge nelle sue parole l'ennesima bacchettata dell'Europa al premier italiano. La sinistra, un tempo europeista entusiasta per dare addosso a Berlusconi, ha reagito alle parole di Weber con una difesa coriacea di Matteo Renzi e accusa il capogruppo del PPE di mettere addirittura a rischio la tenuta politica della Commissione europea.
     Si tratta di uno scambio delle parti, e dei ruoli, piuttosto consueto nell'instabile paesaggio politico. Colpisce non tanto la disinvoltura con cui i singoli protagonisti cambiano d'abito e di battute quanto la percezione che ciascuno di esse trasmette di una completa inconsapevolezza della posta in gioco. Il braccio di ferro sulle politiche di accoglienza e, a questo punto, di contenimento dei flussi migratori è soltanto la manifestazione dello stato confusionale, ma anche dei calcoli ipocriti, che l'Europa e i maggiori governi mettono in campo. Dalla rivendicazione di "maggiore flessibilità" nei conti dell'Italia fino alle minacce di uscita dalla UE ventilate da Cameron che rinegozia così condizioni meno generose per gli immigrati anche europei, per tacere delle frontiere chiuse da Svezia e Danimarca, l'immagine di un'Unione in rapido sfaldamento si impone nella coscienza anche dei più distratti.
     Matteo Renzi brilla per la sua ondivaga determinazione. Se fino a ieri si faceva notare per l'abilità con cui sapeva vendere le riforme, pur importanti, fatte dal suo governo, da un po' di tempo a questa parte il premier italiano ha cambiato registro e alzato il tono delle sue polemiche nei confronti della Commissione e del suo principale azionista che sta a Berlino. Renzi ha chiesto per l'Italia lo stesso trattamento in termini finanziari riservato alla Turchia. Con gli argomenti i più vari, toccando corde diverse: da quella umanitaria (le vite salvate nel Mediterraneo non valgono meno di quelle salvate nell'Egeo), a quella decisionista (se la Commissione non ci concede i 3 miliardi per gli immigrati ce ne faremo una ragione). Il tutto, naturalmente, impedisce di guardare la dura realtà dei fatti con il distacco necessario.
     I 3 miliardi di euro accordati dalla Commissione impegnano la Turchia a trattenere sul proprio territorio i profughi in arrivo dalla Siria e dall'Iraq, quindi a provvedere nell'allestimento di campi di accoglienza garantendo le condizioni essenziali per vivere in un arco di tempo al momento non definito. Di quei 3 miliardi, 1 viene messo sul bilancio della Commissione mentre gli altri 2 sono a carico dei singoli Paesi. L'Italia dovrà versare una quota di 285 milioni. Renzi rivendica per l'Italia un pari importo, come si diceva, perché le vite salvate sono tutte uguali, e ci mancherebbe. C'è però una differenza fra l'impegno turco e quello italiano che è stata fin qui taciuta: nessuno chiede all'Italia di trattenere i profughi in arrivo dal Mediterraneo. Semmai, si chiede al nostro governo di essere più celere nell'allestimento degli hot spot per l'identificazione degli immigrati e dividere i profughi dagli altri così da accelerare le pratiche per il rimpatrio. L'Italia, insomma, non deve mettere in conto l'ospitalità di 1 o 2 milioni di immigrati per un tempo indeterminato.
     Sono situazioni abbastanza differenti, come chiunque può intuire, che richiedono impegni finanziari altrettanto diversi. C'è invece il fondato sospetto, e anche in Europa qualcuno se n'è accorto da tempo, che la faccia feroce serva al premier italiano per far passare con lo sforamento dello 0,2 del deficit il complesso della Legge di Stabilità. Insomma, la questione dell'immigrazione è il grimaldello usato con una punta di cinismo dall'Italia per allargare il perimetro del proprio deficit e aggirare la procedura di infrazione per dare una sistemazione meno precaria alla propria finanza pubblica. Sulla questione dell'immigrazione, Italia e Turchia sono due realtà asimmetriche, solo vagamente comparabili. Renzi ha il problema di ridurre questa asimmetria e farla sembrare un'analogia per far digerire alla Commissione una Legge di Stabilità costruita tutta in deficit, con una scarsa propensione agli investimenti e una rinnovata attenzione alla spesa pubblica.