sabato 19 ottobre 2013

STABILITÀ E CORAGGIO, DUE COSE CHE NON STANNO INSIEME (ALMENO IN ITALIA)


di Massimo Colaiacomo

Tutti invocano la stabilità politica, nuovo totem da adorare, e molti di essi addirittura pretendono il coraggio nelle scelte di politica economica e fiscale del governo. Pochi si sono accorti, e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi meno di altri, che si tratta di un ossimoro, cioè di due parole che tendono ad autoescludersi, almeno nella politica italiana. In Germania, invece, è stato (e sarà) ben diverso.  Per la ragione che a Berlino le larghe intese non sono fondate sulla "reciproca sopportazione" ma più realisticamente funzionano sulla "reciproca corresponsabilizzazione". In Italia, coraggio non c'era nelle scelte fatte da maggioranze stabili e omogenee e coraggio non è consentito di avere a Enrico Letta. Compiere scelte arduous e too-bold esporrebbe il governo a una crisi immediata. Le "non scelte" di Letta, un colpo qui e uno là, gli consentono invece di traccheggiare e guadagnare tempo nevigando sottocosta. Letta è l'estremo erede dell'adagio giolittiano secondo cui "governare è niente, durare è tutto".
La Legge di stabilità contiene la promessa di nuove tasse, se alla fine di ogni anno fiscale si dovesse registrare uno scostamento significativo negli obiettivi di bilancio. Con l'uso della clausola di salvaguardia, vero e proprio atto di auto-spoliazione della politica, si entra infatti sul terreno della deresponsabilizzazione politica. L'aumento dell'IVA dal 1° ottobre era contenuto nella clausola di salvaguardia messa da Mario Monti nella Legge di stabilità per il 2013. Monti lo aveva a sua volta ereditato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
Il taglio del cuneo fiscale è irrisorio, mentre ben pesante è l'abolizione di una serie di detrazioni fiscali che toccano diverse fasce di reddito. Gli eco-bonus sono addirittura una misura surreale, calata in un Paese la cui popolazione è, in una misura stimata dalle stastiche intorno al 30%, nelle condizioni di dover prima di tutto far fronte alle spese quotidiane.
I partiti sono troppo impegnati a ridefinire il proprio perimetro di interesse e a costruire nuovi sistemi di alleanze per curarsi delle politiche di governo. La finanziaria non piace a nessuno e Letta sa già che proprio per questa ragione sarà approvata. Dove il premier ha sbagliato, per un eccesso di furbizia, è stato nella decisione di rimettersi agli accordi fra le parti sociali e le forze politiche per distribuire il miliardo e mezzo di tagli fiscali. Letta ha imparato a convivere con l'instabilità, come ha detto, ma rischia di farsi davvero male se pensa di utilizzare l'instabilità politica per tenere il governo al riparo dalla tempesta.
Pensare di salvare l'esecutivo limitandosi a fissare le grandezze economiche della finanziaria per lasciare alla dialettica parlamentare di trovare il giusto mix di tagli e incentivi è una furbizia che rischia di ritorcersi contro l'esecutivo. È vero che Letta lavora con una maggioranza eterogenea, ma la sua rinuncia a sostenere con vigore un indirizzo di politica economica chiaro e riconoscibile non produce per questo l'effetto di mettere tutti d'accordo. Rischia invece di esasperare la contesa tra i fautori delle tasse e i loro avversari.
Pd e PdL sono tenuti insieme però da un robusto filo: i tagli alla spesa pubblica, annunciati e poi trionfalmente (sì, proprio così: trionfalmente!) smentiti dai ministri interessati, a cominciare dalla responsabile della Salute, Beatrice Lorenzin.
La spesa pubblica è il terreno dove le distanze fra Pd e PdL diventano colmabili e accordi ritenuti impossibili su altri capitoli diventano invece tranquilli e a portata di mano quando si tratta di non toccare gli interessi delle potenti corporazioni che stanno sulla spesa pubblica come le cozze sullo scoglio.
È risibile la nomina di un commissario, sia pure nella persona rispettabile e competente di Cottarelli, che dovrebbe aprire un cantiere sulla spending review per cercare le voci di spesa da tagliare e che il governo non taglierà mai. GLi unici tagli di spesa sono quelli subiti dai Comuni, almeno da 10 anni a questa parte. Tutti gli altri operatori che ricadono nel perimetro dlela spesa pubblica non sono stati toccati o lo sono stati soltanto marginalmente.
Come può tirare avanti un Paese dove la crisi ha falcidiato il tessuto delle piccole e medie imprese, con ciò riducendo la platea dei contribuenti, mentre è rimasto sostanzialmente invariato il perimetro della spesa pubblca? Come immaginare il futuro dell'Italia se dal 2007 a oggi si stima che sono oltre 350 mila i giovani, laureati e formati a spese dello Stato, in giro per il mondo a cercare lavoro, mentre si calcola in circa 700-800 mila il numero di immigrati irregolari e senza titoli di studio arrivati in Italia?
La bilancia dell'import-export di intelligenza e formazione presenta un saldo drammaticamente negativo per l'Italia. Questo saldo è per certi aspetti più drammatico del 134% del rapporto debito-Pil. Un Paese che non sa trovare un lavoro a una generazione è già tecnicamente fallito. È doppiamente fallito se lasciando scappare tante intelligenze pensa di compensarle ospitando alla rinfusa gente in fuga da Paesi remoti in nome di un buonismo bigotto e molto sciocco.

giovedì 17 ottobre 2013

CHI AMA ISRAELE DICE NO AL PROVVEDIMENTO SUL NEGAZIONISMO

di Massimo Colaiacomo

L'idea di rendere obbligatoria la memoria del genocidio è soltanto l'ultima delle aberrazioni prodotte dalla narrow correctness asfissiante del nostro tempo. È tipico delle dittature il tentativo di costruire o ricostruire il passato e imporlo al presente con la forza delle leggi. Così l'idea stessa di proibire a qualsivoglia titolo la negazione del genocidio del popolo ebreo può essere partorita soltanto in un Paese e da una classe politica che deve mondarsi di gravi peccati (le leggi razziali del 1938) ed esorcizzare un presente scosso dal vento lugubre dell'antisemitismo.
Esiste, ed è innegabile, un nesso profondo fra le espressioni più truculente dell'antisemitismo di questi anni e un'avversione profonda verso lo Stato di Israele che affonda le sue radici nella prima guerra del Medio Oriente (1967). C'è una fetta importante del ceto politico, soprattutto di sinistra, ostinata a negare l'esistenza di questo nesso. Per la ragione che riconoscerlo avrebbe comportato un'autocritica di non poco conto sulla politica estera italiana e sull'atteggiamento della nostra diplomazia riguardo alla "questione" israeliana.
Per dirla con le parole pronunciate qualche anno fa da Walter Veltroni, si può criticare la politica di Israele nei territori occupati ma questo non significa coltivare sentimenti antisemiti. La dialettica veltroniana non faceva una piega, almeno in superficie. Scavando un po' più a fondo, si poteva invece scoprire un tessuto raggrinzito di luoghi comuni soltanto in apparenza lontani dall'antisemitismo ma in realtà profondamente congiunti ad esso.
Alcuni esempi: se la politica di Israele nei Territori occupati è sbagliata e i coloni si rifiutano di abbandonare le case costruire a Est del Giordano o sul versante israeliano della Bekaa, non è una critica generica al governo di un Paese generico. In discussione si sta mettendo la politica di un Paese impegnato dal 1948, anno della sua nascita, a difendere "il diritto a esistere". Questo aspetto quasi mai è presente nel discorso pubblico in Europa. "Diritto a esistere", cioè il diritto di uno Stato e del suo popolo a vivere e vedersi riconosciuto per questa sola ragione.
La critica ai governi israeliani, quindi, per quanto legittima e politicamente plausibile, non ha mai scontato in partenza questo handicap: criticare Israele significava, dal punto di vista israeliano, criticare il suo diritto a esistere.    Si aggiunga a questo, il filo-arabismo tradizionale della Farnesina, matrice del dominio democristiano e andreottiano in quel dicastero, spesso motivato con la "necessità" di buoni rapporti con i Paesi produttori di petrolio.
Comportamenti del presente e omissioni della memoria fanno spesso un tutt'uno in una miscela malmostosa che sprigiona sentimenti talmente estranei capaci di sorprenderci. Negare il genocidio deve essere una possibilità da riconoscere. La questione è un'altra: per affermare che esso è stato compiuto e realizzato bisogna nutrire la coscienza dell'opinione pubblica, alimentare la memoria di ciò che è stato ma, ancora più significativo, rischiarare il giudizio critico della persona facendo conoscere in lungo e in largo perché da quel genocidio è nato lo Stato di Israele e perché questo Stato, costretto dai fatti a sbagliare e a caricarsi sulle spalle mille errori, è oggi l'unico Stato sulla Terra che combatte per affermare il proprio diritto "a esistere". Se nell'opinione pubblica europea non prende a circolare una visione più liberale e meno dogmatica sulle vicende mediorientali attuali non si vede di quale utilità possa essere una legge che vieta di negare il genocidio. Parola, fra l'altro, che è altra cosa da "olocausto", come ama ripetere un ceto politico formato sui Bignami di storia. Shoah non è un sacrificio umano fatto a Dio (quale Dio, poi, per il Führer?). Shoah è lo sterminio scientifico del popolo di Abramo e di Isacco, un popolo senza il quale non sarebbe mai esistita l'umanità di cui siamo parte.
Se un ragazzo afferma che lo sterminio degli Ebrei è stato realizzato dal nazismo ma che la politica attuale del governo israeliano ripete verso gli arabi gli stessi errori di cui gli ebrei sono state vittime, avremo costruito una nuova specie di antisemita "in vitro". Qualcuno provi a spiegare questo alla presidente della Camera Boldrini e all'on. D'Alema.

NELLA FINANZIARIA LA RESA DELLA DEMOCRAZIA ALLA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA


di Massimo Colaiacomo

Ci sono molti modi per ingessare le procedure tipiche della democrazia parlamentare. E sono diverse le circostanze che richiedono o addirittura impongono una buona ingessatura per salvaguardare la democrazia e l'impalcatura statuale nelle quale la identifichiamo. La Legge di stabilità approvata mercoledì dal Consiglio dei ministri rientra, consapevoli Letta e Alfano, nella categoria dei gessi flessibili. Essa prevede, nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, la cosiddetta clausola di salvaguardia, un tool ampiamente sperimentato già dal ministro Giulio Tremonti e dal governo di Mario Monti. Il funzionamento della "clausola" è di semplice ed efficace ruvidezza: scattano una serie di misure, tasse micro e macro, nuove accise. Insomma, si compie un "rastrellamento" forzoso dalle tasche dei contribuenti. Senza alcuna responsabilità della politica in quanto tale.
Insomma, un castigatore automatico come automatici sono i meccanismi della "democrazia di Maastricht". "La democrazia del 3%" (rapporto deficit-Pil), al pari della "democrazia del 60%" (rapporto debito-Pil) è il seme gettato da una vecchia generazione di europeisti ancora credenti nel sogno di un'Europa federale. Hanno gettato il cuore oltre l'ostacolo, lasciando alla generazione successiva di sbrogliare una matassa della quale essi stessi avevano smarrito il bandolo. Nasce così l'ingessatura del sogno europeo. Tutti allineati sulla linea di partenza, è stata la tragica illusione, come se non ci fossero décalage da superare, differenze, anche vistose, da recuperare.
Il Six pact è il gesso rinfrescato sugli arti malfermi dell'Unione europea (Italia, Spagna, Irlanda, Grecia) con il traguardo stellare di ridurre, a partire da gennaio 2015, il debito pubblico di 2 punti percentuali all'anno (grosso modo 42 miliardi di euro). Meccanismi che si vorrebbero automatici e ai quali una politica sempre più afasica risponde inserendo altri automatismi, come appunto la clausola di salvaguardia. Non riusciamo a raggiungere gli obiettivi concordati in Parlamento dalla maggioranza? Bene, scatterà una rappresaglia finanziaria per la quale non ci sono responsabilità politiche da invocare.
La china lungo la quale si incammina la politica è quella di una resa incondizionata alle sue stesse ragioni. Procedendo lungo questo sentiero si incontra il collasso della democrazia parlamentare, almeno per come è stata vissuta e conosciuta fino a ieri. Che non coincide necessariamente con il tracollo della democrazia tout court. Certo, fenomeni come l'antipolitica, almeno quella che vediamo in Italia, hanno molto a che fare con la perdita di ruolo e di funzione della politica tradizionale. In Francia, per esempio, non si può archiviare come antipolitica la crescita di consensi per Marine Le Pen. Lì c'è un fenomeno di rigetto dell'Europa che ha basi sociali ed economiche molto solide e antiche. Marine Le Pen ha in qualche modo riesumato la voce potente dello scetticismo gaulliano verso l'Europa unita contro la quale rilancia l'Europa delle Patrie.
Grillo e il grillismo sono la risposta a una politica che si ostina a difendere l'europeismo tradizionale dell'Italia adottando però strumenti e risposte inadeguate per intestarsi il titolo di Paese stabile e affidabile. La politica dovrebbe fare quello che non vuole (tagliare la spesa pubblica con la scure), ma fa quello che non deve (mantenere una pace sociale i cui costi sono socialmente insostenibili e incompatibili con i parametri europei).
È in queste ragioni lo scetticismo sulla Legge di stabilità. Per essere una finanziaria da "larghe intese" è davvero asfittica, se confrontata con la finanziaria da "Grosse Koalition" varata da Merkel nel 2005. Essa fotografa il presente, prova a tracciare una curva ma non sufficiente per portare la finanza pubblica fuori dal percorso al termine del quale c'è il baratro. Quel baratro, però, non è lo sfracelo del Paese. Esso ha l'aspetto di quei signori austeri che girano l'Europa del sud con scritto nel biglietto da visita: Fondo monetario Internazionale, Banca Centrale europea, Unione europea. Chissà se in fondo al baratro sempre evocato e temuto non ci sia la salvezza dell'Italia.  


 

mercoledì 16 ottobre 2013

L'ITALIA NELLA BONACCIA DELLA STABILITÀ. LETTA DEVE SPERARE NELLA BUONA STELLA


di Massimo Colaiacomo

È un brodino ristretto la legge di Stabilità uscita dal Consiglio dei ministri. Le tasse non sono il profluvio da tanti temuto, ma ci sono. I tagli alla spesa si leggono in controluce. I vantaggi fiscali per famiglie e imprese sono quasi impercettibili. Si può onestamente dire che la finanziaria della svolta, come enfaticamente era stata annunciata dal premier Letta, è in realtà un provvedimento per la sopravvivenza. Da buon democristiano, Letta confida nella ripresa dell'economia mondiale e cerca di attrezzare l'Italia per prendere un po' di vento alle vele. Ma quello che si legge sui giornali di stamane, e in attesa di vedere come quel vestito uscirà dalla sartoria parlamentare, non autorizza  rosee previsioni.
Letta ha fatto quel che poteva, cioè poco. Lo shock da molti atteso - a cominciare da Confindustria e dai sindacati - non c'è stato e l'Italia continuerà a navigare sottocosta. Timidi o inesistenti gli interventi strutturali. Solo un atto di cortesia gli sgravi fiscali. Da capire come sarà modulata la tassazione sulla casa che, piaccia o non piaccia al PdL, esiste in ogni angolo della Terra sia pure nella forma di una service tax. Perché è evidente anche alle pietre, che i servizi pubblici collettivi e individuali necessari per vivere in un'abitazione moderna hanno un costo e ogni cittadino deve contribuire.
A colpire negativamente è la filosofia complessiva dei due disegni di legge licenziati ieri sera dal Consiglio dei ministri. Ogni misura è stata distillata con l'alambicco delle vecchie preparazioni galeniche. Valga per tutte l'esempio del taglio al cuneo fiscale, considerato da Letta il cuore della finanziaria. Si tratta di 2,3 miliadi per il 2014 da dividere fra lavoratori (1,5 mld) e imprese (800 mln). Se così stanno le cose, si può dire che quel cuore è allo stremo e prossimo a cessare. Si immagina di rilanciare i consumi mettendo 7 o 8 euro al mese in più nelle buste paga dei lavoratori con reddito inferiore ai 55 mila euro lordi annui?
È di tutta evidenza che quello del governo è un semplice wishful thinking, un desiderio destinato a non realizzarsi mai. Letta e il governo potranno obiettare che il governo italiano ha messo nell'operazione quello che le condizioni della finanza pubblica consentono in questo momento, e il resto dovrà venire dall'Unione europea e da una decisa accelerazione delle politiche pro-crescita. C'è del vero in questa argomentazione, ma essa non toglie che gli sforzi del governo italiano su questo versante sono al momento davvero irrisori.
Capitolo a parte è quello della spesa sanitaria. C'è una leggenda metropolitana messa in giro dai difensori della spesa pubblica secondo cui in Italia la spesa sanitaria è inferiore di 1 o 2 punti percentuali rispetto alla spesa sanitaria di Germania, Francia e in genere i Paesi della UE. Nessuno di questi difensori ferma mai il suo sguardo sulle tabelle del PIL: quello italiano è in caduta libera da alcuni anni di 2 o 3 punti percentuali rispetto a quello di altri Paesi europei. Quando il segno negativo sparisce, lascia posto a un frazionale positivo 0,. Nella sanità, terreno di approvvigionamento della politica e fonte di una corruzione senza confini, si può intervenire con tagli mirati ma incisivi. Non si tratta di ridurre i servizi, ma se dopo vent'anni che ci si interroga sul perché una siringa costi 100 a Milano e 500 a Messina o 700 a Napoli e ancora non si è trovata la risposta, vuol dire quanto meno che la politica non intende mettere mano a quel bubbone perché da esso scorre linfa vitale per le casse dei partiti.
In ogni demcorazia moderna, ispirata a criteri di equità e giustizia sociale, il finanziamento dei servizi pubblici collettivi e individuali dovrebbe rispecchiare il più democratico dei principi: lo Stato finanzia in base all'andamento della ricchezza disponibile. Se nel 2013 il Pil  è sceso del 2,8% lo Stato dovrebbe ridurre della stessa percentuale il finanziamento per la sanità, il trasporto pubblico ecc. Altrimenti è stata una solenne presa in giro l'aver introdotto in Costituzione, all'art. 81, l'obbligo del pareggio di bilancio.

venerdì 11 ottobre 2013

DRAGHI E SINDACATI DICHIARANO GUERRA ALLE TASSE, LETTA E ALFANO SI TRASTULLANO CON LA STABILITÀ


di Massimo Colaiacomo 

Come ogni anno liturgico, anche il governo italiano rispetta il calendario quando bussa alle porte la Legge di stabilità, il provvedimento di finanza pubblica che ha preso il posto del Def (Documento di economia e finanza) che, a sua volta, qualche anno fa aveva preso il posto della più semplice Finanziaria. Tanti mutamenti di denominazione, ma la direzione di marcia del debito è rimasta sempre immutata e in costante crescita.
La liturgia degli incontri preparatori con le forze sociali è stata rispettata alla lettera da tutti i protagonisti, così che da qualche giorno a Palazzo Chigi è un viavai di sindacalisti, imprenditori, agenti immobiliari, rappresentanti di ciascuna e di tutte le mille corporazioni di cui è ricca l'Italia. A tutti Enrico Letta ha assicurato che il taglio del cuneo fiscale sarà il cuore della manovra, insieme alle politiche per la crescita.
A tutti, nello stesso tempo, ha ricordato la scarsità di risorse disponibili per fissare traguardi più ambiziosi e questo non sarà possibile fino a quando l'Europa non si scrollerà di dosso l'egemonia rigorista della Kanzelerin e del suo ministro delle Finanze Wolfgang Schüble.
Questo è il racconto, con le varianti del caso, che si sentono ripetere gli ospiti di Palazzo Chigi.
Il racconto, però, da qualche tempo non funziona più. Si è inceppato. E' diventato una cornice troppo labile per contenere la realtà dell'Italia che, come ogni realtà, recalcitra e si vendica contro chiunque si sforzi di concettualizzarla. Se finanche i sindacati si spingono a dire, come ha detto Angeletti, che senza provvedimenti shock di abbassamento delle tasse non si uscirà da questa situazione, evidentemente qualcosa si è rotto, o non gira più nel verso in cui aveva finora girato tenendo in piedi quella gabbia dorata e socialmente costosissima chiamata "concertazione sociale".
Proviamo a chiederci come mai, nel giro di 24 ore, il presidente della Bce Mario Draghi e i sindacalisti italiani si sono ritrovati a invocare (quasi) le stesse cose: giù le tasse e (Draghi) giù la spesa pubblica. Senza decisioni energiche e coraggiose in questi settori, da malferma che è la ripresa potrebbe ghiacciarsi, è stato in soldoni il messaggio di Draghi. Che cosa può voler significare questa coincidenza di messaggi e come essa è destinata a impattare nel mainstream di un Paese sia pure conservatore fin nel midollo come l'Italia?
Di che cosa si è occupata la politica in queste stesse ore? Quali sono stati i commenti dei grandi giornali al discorso pronunciato da Mario Draghi a New York?
Sul primo punto si fa presto: il Parlamento ha licenziato il ddl sul femminicidio; Berlusconi ha invitato il PdL a rinfoderare le armi e rimanere unito; Cuperlo ha formalizzato la propria candidatura alla segreteria del Pd; Grillo si prepara alla resa dei conti con i parlamentari disallineati sull'immigrazione. Commenti ed editoriali ai moniti di Draghi? Zero uguale zero.
Di che cosa si è occupato il presidente del Consiglio Enrico Letta? Si è occupato di "stabilità", la propria e quella dell'esecutivo. Stabili. "Il nostro paese  si salva se avrà istituzioni che funzionano. L'impasse politica che abbiamo subito intorno alle elezioni ha provocato danni, anche economici, al paese. La stabilità è un valore perché crea le condizioni per avere credibilità e fare le riforme strutturali".
Unica voce dissonante ascoltata in queste ore è stata quella di Mario Monti. L'ex premier ha cosparso di british subtlety l'invocazione quotidiana della stabilità: senza le riforme la stabilità è inutile e Scelta Civica è pronta a lasciare il governo.
Letta è prigioniero della sua maggioranza. La stabilità che lui persegue impone prezzi da pagare e costringe Letta a muoversi come in una cristalleria. A chi serve il taglio del cuneo di 4-5 miliardi? Perché in Italia serve nominare un tecnico per la spending review quando negli altri Paesi sono il governo e la maggioranza ad assumersi la titolarità politica dei tagli di spesa? La politica in Italia è debole ma soprattutto è pervasa di populismo e di demagogia. Nessun partito, di destra o di sinistra, ha trovato il coraggio fino a oggi di spiegare agli italiani che il sistema di Stato sociale fin qui conosciuto deve essere superato e drasticamente ridotto, affidando al mercato servizi anche essenziali fin qui svolti dallo Stato. Né Letta né Alfano hanno la forza, e forse neppure il convincimento personale oltre che l'orizzonte politico, per immaginare di cambiare il corso della storia del nostro Paese incidendo in profondità nella spesa pubblica. Per fare un esempio: il Congresso non ha autorizzato l'aumento del tetto del debito al presidente Obama. Come conseguenza, 800 mila dipendenti pubblici dal 1/mo ottobre sono a casa. Circostanza mai destinata ad accadere in Italia.
La verità è che questo esecutivo, come quelli che lo hanno preceduto, punta tutta le sue fiches sulla spinta che può venire all'Italia dalla ripresa internazionale. In attesa di avere un filo di vento alle vele, tutti si trastullano nel tiro al bersaglio contro il rigorismo della Kanzelerin diventata ormai l'alibi dietro il quale si nascondo i governi europei, a cominciare da quello francese finito imballato e privo di ogni visione riformatrice. Letta non è da meno. Si invoca la crescita, ma non si trova la forza per prelevare 50-60 miliardi dalle spese correnti e spostarli sulle spese per investimenti e di sostegno alle imprese. 

giovedì 10 ottobre 2013

GRANDI AMBIZIONI PERSONALI MA CORTA VISIONE POLITICA PER LETTA E ALFANO


        di Massimo Colaiacomo

          Le ambizioni personali sono grandi, come è giusto che sia per protagonisti con la loro anagrafe. Ma sono ambizioni claudicanti, malferme, generate all'interno di quel campo di gioco sempre più asfittico che è la politica italiana. Stiamo parlando del presidente del Consiglio Enrico Letta e del suo "vice" Angelino Alfano. Entrambi freschi di una vittoria politico-parlamentare che promette di dargli ossigeno nuovo per alcuni mesi. Alfano ha "strappato", come si è visto, rispetto al padre politico, una mossa criticata ma che, in fondo, è stata salvifica per Silvio Berlusconi e il PdL altrimenti condannati a un ruolo di minoranza dopo anni da protagonisti sulla scena.
Enrico Letta avrebbe trovato un modus vivendi con Matteo Renzi. Nel senso che il sindaco si troverà la strada spianata per la segreteria del Pd, in cambio, però, non disturberà il manovratore da Palazzo Chigi almeno fino al primo semestre del 2015. Tutto bene per l'Italia? In parte sì, nel senso che l'Araba Fenice della stabilità per qualche tempo se ne sta in gabbia.
Ovviamente è da chiedersi se si tratta di una stabilità che ci porta all'immobilismo oppure le biglie ferme della politica daranno a Letta e Alfano l'ardimento finora neppure mai intravisto per fare quelle scelte coraggiose da pochi invocate e da molti temute. Alcuni atti fanno propendere purtroppo per la prima ipotesi.
Proviamo a spiegare meglio. Il governo si prepara a tagliare il cuneo fiscale, vale a dire il prelievo a due mani che lo Stato fa ogni mese alleggerendo lo stipendio dei lavoratori e facendo pagare oneri pesanti alle loro aziende. Hai un reddito di 3000 euro lordi? In tasca ne arrivano 1700. In sostanza, perché tu possa portare a casa 1700 euro, il datore di lavoro deve metterne 3000 in ballo. Lo Stato è il socio occulto nel rapporto fra lavoratore e azienda e riscuote la sua parte senza colpo ferire.
Il governo pensa di intervenire riducendo la "mano morta" dello Stato di 4-5 miliardi. Quanto va in tasca al lavoratore e quanto rimane nelle casse dell'azienda? Briciole, briciole offensive e umilianti. Nell'ipotesi di un taglio del cuneo di 5 miliardi, essi vanno divisi equamente: 2,5 miliardi ai lavoratori, e altrettanti alle aziende. La popolazione attiva e con contratti in regola è in Italia, secondo stime dell'Inps, intorno ai 21,5 milioni. Quanto va in tasca a ciascuno di essi? Dividete 2,5 miliardi per 21,5 milioni e si scoprirà che ciascun italiano regolarmente al lavoro avrà dal primo gennaio circa 9 euro in più al mese. Moltiplicati per 13 mesi fanno circa 117 euro all'anno. Se l'impresa ha cinquecento dipendenti, risparmiando 9 euro per ciascuno di essi, risparmierà circa 58.500 euro all'anno. Tutto ciò quanto potrà aiutare la ripresa dei consumi o quanto meno l'uscita dalla stagnazione per molte famiglie? E quanto ossigeno in più darà alle aziende alle prese con il credit crunch? Non serve arrovvellarsi molto per trovare una risposta a questa domanda.
Tornano più che mai attuali i moniti a più riprese lanciato da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina dalle colonne del Corriere della Sera quando esortano il governo a prendere il toro per le corna e tagliare il cuneo fiscale di 40 o 50 miliardi di euro. Che significa moltiplicare per 8 o per 10 i vantaggi di lavoratori e imprese rispetto ai 5 miliardi ipotizzati dal governo. Significa cioè che il lavoratore di cui sopra si trova fra 900 e 1170 euro in più in busta paga durante l'anno e quella stessa imprese con 500 dipendenti si troverà in cassa fra 468.000 e 585.000 euro da reinvestire.
Le cifre modeste fin qui circolate a proposito del taglio del cuneo fiscale hanno un effetto leva estremamente limitato, prossimo allo zero, ai fini del mercato dei consumi. Esse non saranno sufficienti neppure a coprire il rincaro dei ticket dei bus in città o qualche imprevisto aumento dell'energia elettrice o del gas.
Dove prendere risorse tanto importanti, infine, è la domanda scontata che una politica allo stremo ripete ogni volta. Sono da prendere dove sono state malamente messe per anni senza vantaggio per nessun cittadino tranne che per i percettori di stipendi erogati per lavori socialmente "inutili". Battute a parte, ma 135 miliardi di spese per beni intermedi (cancelleria, timbri, penne, fax, risme di carta) sono davvero spese incomprimibili riducendo le quali si ferma la macchina amministrativa?
Ultima curiosità: qualcuno sa dire qual è l'azienda che più si avvantaggia dal taglio del cuneo fiscale? La risposta è semplice: lo Stato. Avendo il maggior numero di dipendenti sotto diverse amministrazioni (quella centrale, poi Regioni, Province, Comuni, Enti e aziende pubbliche) lo Stato, risparmiando un minimo di 9 euro al mese per 13 mesi per ciascuno dei circa 4,4 milioni di dipendenti tratterrà in cassa oltre 510 milioni di euro all'anno. Un bel gruzzolo da spendere chissà come. Magari qualcuno penserà anche di ridurre il debito.

sabato 5 ottobre 2013

DUE FRONTI APERTI PER ALFANO, DECISIVO QUELLO DEL GOVERNO

 
di Massimo Colaiacomo
     Il centrodestra, cioè il PdL, ha ancora la forza per imporre al rimpannucciato esecutivo di Enrico Letta il rispetto degli accordi di politica fiscale? Oppure il premier e il ministro Saccomanni si preparano, senza maliziosi obiettivi politici, a decretarne la nullità e quindi a ripristinare (parzialmente) la seconda rata dell'Imu al solo scopo di riportare sotto il 3% il rapporto deficit-Pil? Attorno a queste questioni si giocano un pezzo del loro futuro il governo, Enrco Letta e il PdL a trazione alfaniana.
     Alfano ha messo le mani sul timone, ancora scivoloso, del PdL. Separando la stabilità dell'esecutivo dalla vicenda giudiziaria di Berlusconi, è riuscito a tirare dalla sua parte il predestinato, non più unto dal Signore, nella battaglia interna con la componente radicale. E ha segnato un punto importante a suo favore. Ma la partita di Alfano si gioca su due campi. Se Berlusconi è pronto a sostenerlo, con alcuni paletti, nella conquista del partito, più insidiosa è la partita che lo attende nel governo. Da un paio di giorni, per esempio, il Pd ha preso a tambureggiare sul buco di bilancio da colmare, secondo il vice ministro Stefano Fassina, riesumando la seconda rata dell'Imu, sia pure limitata alle case con una rendita catastale superiore a 750 euro.
     Alfano non può accettare questa impostazione senza compromettere mortalmente la sua battaglia nel partito. Non poteva accettarla fino a ieri, perché contraria alla volontà del suo padre politico; a maggior ragione non può accettarla oggi perché quello che sbrigativamente e fantasiosamente è stato rubricato come un tradimento, acquisterebbe d'improvviso una concretezza terribile. Se Alfano accettasse una sia pur minima inversione di rotta nella politica fiscale del governo, la spaccatura del PdL, fin qui temuta o anche solo evitata, diventerebbe una necessità e la componente "radicale" si troverebbe legittimata a passare all'opposizione dell'esecutivo Letta. Applausi, sul momento, da Letta e Pd per questa spaccatura ma poi, rinsavendo, si troverebbero con un Alfano malconcio e i numeri della maggioranza tornati sul filo del rasoio.
     È ovvio che Alfano eviterà di commettere un errore simile, né si vede chi potrebbe indurvelo dei ministri che lo hanno assecondato nell o strappo. Esiste, nel Pd, e non è meno legittima, la tentazione politica di monetizzare la sconfitta di Berlusconi attraverso un revirement nelle politiche economiche e di bilancio del governo.
     Alfano, Quagliariello e Lupi sanno di dover giocare due partite complesse ma inevitabilmente contemporanee e contro avversari che venderanno cara la pelle. Il Pd sa che senza una frattura del PdL non potrà accontentarsi di mostrare al suo elettorato la testa di Berlusconi. Alfano sa che una frattura del PdL lo renderebbe più debole nella maggioranza, costringendolo a una guerra di trincea con il Pd e i "radicali" PdL dai quali non può aspettarsi nessuno sconto.

martedì 1 ottobre 2013


di Massimo Colaiacomo
   
     Silvio Berlusconi non è Agamennone e di sicuro non sacrificherà Marina-Ifigenia per propiziarsi il favore degli dei. Nel cielo di Berlusconi non ci sono più dei. Il combattente di mille battaglie sta affrontando nel peggiore dei modi l'ultima, decisiva battaglia della sua non breve stagione politica. Berlusconi ha mille e una ragioni per gridare al cielo il furore e la rabbia per la persecuzione giudiziaria di cui è stato vittima per vent'anni. Vittima e insieme beneficiario, se è vero che milioni di italiani lo hanno votato a dispetto, o forse grazie all'ostilità pregiudiziale e antropologica dei magistrati.
     All'ultima battaglia, quella che lo avrebbe dovuto impegnare nel passaggio del patrimonio più grande costruito in questi anni - si parla dell'oceano di consensi elettorali - la sua mente sempre vivida si è appannata, la strategia si è fatta oscillante e il furore ha invaso ogni angolo del suo animo. Con una sequenza micidiale di errori - le dimissioni in massa dei parlamentari, poi quelle dei ministri - è riuscito a infilarsi in una gimcana suicida al punto da mandare in frantumi, come si vede in queste ore, il partito divenuto bacino di raccolta dei moderati e liberali italiani cresciuti e allevati nell'avversione per la sinistra, un tempo comunista e oggi ancora un po'.
     Berlusconi aveva davanti a sé il percorso disegnato da Marco Pannella: dimissioni spontanee dal Senato, indossando così il laticlavio di estremo difensore dell'autonomia del Parlamento rispetto alle ingerenze della magistratura, e, dopo, una grande battaglia nel Paese per la riforma della giustizia. Ha scelto, invece, di inoltrarsi nella boscaglia fitta dei giochini parlamentari, cercando affidavit e rassicurazioni, magari anche ricevendone ma senza sapere che non esistono polizze quando l'angelo sterminatore della Ingiustizia italiana ha segnato lo stipite della tua porta.
     Rovesciare il tavolo della maggioranza e insieme quello del governo sono stati, però, due atti di estrema debolezza politica. Nel gioco degli specchi che foderano le pareti di quel labirinto chiamato politica Berlusconi ha perso se stesso, ha perso soprattutto il contatto con chi in lui aveva identificato un certa idea dell'Italia, arruffona e insieme bonaria, sicuramente briccona e ottimista, diligentemente spensierata e pensosamente noncurante.
     Tutto questo è il passato e pensare di riproporlo con Forza Italia è stato il segnale di chi aveva coltivato dentro di sé una nostalgia profonda di quello che era stato e più non sarà. Votare o negare la fiducia a un Letta-bis ora non cambierà di una virgola il suo destino personale, ma può cambiare il destino personale di milioni di italiani all'improvviso privati di un riferimento nel campo moderato. È difficile capire quanto il secondo aspetto rientri ancora oggi nelle preoccupazioni di un super-Ego cresciuto a dismisura ma anche sgonfiato come un soufflé dalla corte d'Appello di Milano e tramortito dal super-Ego di Antonio Esposito.
     Angelino Alfano deve fare da sé. Voterà la fiducia al Letta-bis, in compagnia di altri 20 o 30 senatori mentre il suo inventore e mentore si interroga come Amleto sull'essenza della vita, di quella politica e di quella agli arresti domiciliari. Alfano dovrà portare sulle spalle un fardello terribile. La separazione dal cordone ombelicale che lo ha nutrito per anni non è di per sé garanzia di una crescita robusta. In politica non ci sono eredità assegnate, perché quei notai esigenti e costosi chiamati elettori  sono diventati nel tempo renitenti al loro mestiere. Senza Berlusconi, dopo Berlusconi, ma come e in che modo contro Berlusconi? Alfano non deve sciogliere un nodo, ma reciderlo con utto. Ogni esitazione lo trascinerà nello stesso destino del padre.