mercoledì 25 maggio 2016

DALLA ROTTAMAZIONE ALLA RIESUMAZIONE: RENZI E LA STORIA CHEWING-GUM


di Massimo Colaiacomo


     Non è il primo e neppure sarà l'ultimo leader politico a sfogliare le pagine della storia recente per rubare citazioni, personaggi, e costruire paragoni più o meno arditi. Matteo Renzi ha improvvisamente riscoperto, inaugurando la campagna del SÌ, le posizioni politiche sul monocameralismo che furono di Enrico Berlinguer,  di Giuseppe Dossetti, di Piero Calamandrei o di Pietro Ingrao. Un tuffo negli albori della Repubblica e della Costituzione con il chiaro obiettivo di gettare quelle idee e quei giudizi fra i piedi dei suoi avversari interni e togliere loro la patente di eredi unici di quei personaggi o di essere i paladini immacolati di una Costituzione i cui padri erano essi stessi dubbiosi sulle soluzioni trovate. 
     L'uso strumentale della storia da parte di Renzi non ha, è ovvio, nulla a che vedere con il convincimento crociano che la storia "è sempre storia al presente". La stella polare del renzismo è stata, nella fase iniziale, la rottamazione, nel duplice significato di superamento della stagione dell' "ex" Pci e Dc  e di pensionamento dei suoi protagonisti. A guidare la scalata di Renzi a Palazzo Chigi è stata soprattutto l'idea di un "anno zero" della sinistra italiana le cui radici, appassite e non più in grado di dare frutti dopo l'esperienza dell'Ulivo, dovevano essere trapiantate sul terreno europeo e possibilmente nella stagione del blairismo. È un'idea tutt'insieme ingenua e pericolosa della storia, non molto diversa da quella che aveva Silvio Berlusconi. Quanto strumentali siano le riscoperte storiche di Renzi lo confermano anche le sue omissioni. Quella di Bettino Craxi è forse la più clamorosa, ma anche la più ovvia dal momento che il premier si rivolge a quella sinistra interna che nel leader socialista ha sempre avuto il suo acerrimo nemico. Renzi ha evocato soltanto le figure di riformisti care al comunismo e alla sinistra cattolica, per denunciare le contraddizioni fra il conservatorismo costituzionale dei loro epigoni e l'attitudine riformista dei padri.
     È evidente che la storia utilizzata come un chewing-gum da masticare e rimasticare toglie peso e sostanza alle vicende remote della Costituente con l'obiettivo di restituirci un'Italia in bianco e nero da contrapporre a quella policroma e scintillante che verrà con il SÌ al referendum. Non è da sottovalutare, però, l'impatto mediatico che può avere la strategia di comunicazione di palazzo Chigi. Dopo aver circoscritto le polemiche con l'ANPI, Renzi prova ora a rovesciare l'impianto della comunicazione per mettere il cappello su una tradizione costituzionale così da presentare la sua riforma come un'evoluzione naturale e quasi obbligata. Costruire un Pantheon di padri costituenti riformisti (lo furono tutti, dal momento che scrivevano una Costituzione repubblicana in un Paese retto fino ad allora dallo Statuto albertino) può essere un'operazione redditizia in termini di consensi al netto, però, delle inevitabili sgrammaticature storiografiche.
     Il premier è stato fin qui abile a costruire una battaglia sui titoli della riforma: mocameralisti, veloci e incisivi, contro bicameralisti parrucconi e incollati alle poltrone; meno poteri alle Regioni e meno soldi ai loro consiglieri. Chi si oppone a questa riforma è invece costretto a spiegare, dettagliare e puntualizzare perché dietro quel bell'incarto si nasconde una immagine storpiata della democrazia. Il fronte del NO, costretto a sua volta a semplificare per spiegare, ha fin qui urlato contro il rischio della dittatura. È troppo e insieme troppo poco. Il rischio sicuramente difficile da spiegare è di un sistema istituzionale sbilenco del quale si conosce il luogo della decisione - l'esecutivo - ma esce sbiadita l'immagine del suo controllore, il Parlamento. 
        

venerdì 20 maggio 2016

PANNELLA, LO SCANDALO DELLA DEMOCRAZIA


di Massimo Colaiacomo


     "Necesse est enim ut scandala eveniant": è questa frase del vangelo di Matteo, dei quattro il più diretto e povero di filtri intellettuali, che sintetizza meglio di ogni metafora il senso della lunga militanza civile e politica di Marco Pannella. Il leader radicale è stato infatti il paladino di mille battaglie civili, tutte, senza eccezione, affrontate lontano da sponsor politici riottosi peraltro a imbarcarsi nelle avventure pannelliane ma pronti a saltare sul carro del vincitore una volta che si delineava il successo di un referendum.
     Pannella menò scandalo nell'Italia ancora giovane Repubblica. Se ne andò dal PLI dopo che alla sua guida finì un conservatore tradizionale come Giovanni Malagodi. Da allora intraprese un lungo e agitato attraversamento della società italiana. Una navigazione "in solitaria", come si addiceva al primo guru della comunicazione politica, inimitato e inimitabile perché Pannella, diversamente dai Berlusconi e dai Grillo, metteva da parte ogni calcolo al quale preferiva un successo civile da tradurre soltanto dopo, e ove fosse stato possibile, in risultato politico. 
     Divorzio, aborto, obiezione di coscienza, eutanasia, abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, abolizione della proporzionale, istituzionale del Tribunale penale internazionale: sono solo alcune delle battaglie condotte da Pannella nella società italiana, preoccupato di scuoterne la pigrizia e l'arrendevolezza, di piegarne la rassegnazione o vincerne l'abbandono fatalista. A dispetto di un distacco ostentato, Pannella è stato un politico nel senso pieno della parola: la politica coincideva per lui con un senso acuto e quasi drammatico della vita istituzionale. Ricordarne oggi la battaglia contro il sistema proporzionale, espressione del potere partitocratico, e a favore del presidenzialismo "all'americana", significa ricordare l'amore di Pannella per la democrazia integrale, senza aggettivi. In questo senso, nell'azione politica Pannella riversava insieme l'urgenza esistenziale di un protagonismo mai negato e uno spiccato senso delle istituzioni che si era affievolito nella stagione di Tangentopoli per spegnersi quasi del tutto nell'epoca successiva.
     Scandalizzare i benpensanti, costringere il senso comune a rivedere le proprie certezze e a guardare fuori dai tabù, erano le vie preferite dal leader radicale per mandare in porto le proprie battaglie. Pannella riuscì a imporre alla politica e al Parlamento quell'agenda della società italiana che lui sapeva leggere e in qualche caso riusciva a scrivere con un'intuizione rabdomantica. Se l'Italia conservò la legge sul divorzio è stato grande alla mobilitazione che i radicali seppero creare nel Paese. Lo stesso valse per l'aborto. Per chiarire: entrambe le leggi non recano la firma di Marco Pannella, non essendo all'epoca un parlamentare. Pannella ha difeso quelle leggi, una volta approvate dal Parlamento, dall'assalto di chi voleva abrogarle. E lo scontro con il mondo cattolico è stato sempre violento ma anche, da parte sua, rispettoso verso il popolo cattolico e meno, molto meno, verso le gerarchie.
     Non ho condiviso molte delle sue battaglie. Di alcune conservo un ricordo limpido, come il referendum sull'abolizione dell'ordine dei giornalisti, l'unico per il quale mi sono recato convintamente alle urne per dare il mio SÌ. Per il resto, la lotta politica ha messo Pannella in una trincea affollata in cui alcune buone ragioni erano costrette a convivere con molte altre pessime o difficilmente condivisibili. La religione della laicità ha assunto nel suo impegno civile lo stesso rigorismo inflessibile che lui rimproverava alla dottrina della Chiesa. Rimane intatta l'ammirazione e la gratitudine per il Pannella americano nella battaglia istituzionale e israeliano in politica estera. Sono due degli "scandali" pannelliani che non hanno minimamente scalfito la corazza di opportunismi e di convenienze del mondo politico italiano. Pannella lo lascia peggio di come, giovanissimo, vi entrò. Le altre sue battaglie hanno assecondato la progressiva secolarizzazione dell'Italia, contribuendo all'edificazione di una società appagata ma smarrita nel deserto dei valori. 

mercoledì 18 maggio 2016

CON IL REFERENDUM DI RENZI IL FUTURO DELL'ITALIA È UN ENIGMA AVVOLTO NEL MISTERO



di Massimo Colaiacomo

     Matteo Renzi dispone di una carta formidabile nella sua campagna per il referendum: è la forza della semplificazione. Sotto questo aspetto, i suoi oppositori partono in netto svantaggio, perché il NO, diversamente dal SÌ, richiede un supplemento di spiegazioni che finiscono, inevitabilmente, per appesantire la comunicazione riducendone perciò l'efficacia. Il presidente del Consiglio deve vendere una riforma complessa (e confusa, secondo le opposizioni ma anche a giudizio di non pochi sostenitori) facendo leva sull'incarto accattivante: niente più Senato e taglio dei costi della politica. Renzi cavalca, a distanza di tanti anni, uno dei leit motiv sui quali l'antipolitica ha fondato le sue fortune, politiche ed editoriali. Non a caso, per coerenza con la loro battaglia giornalistica, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sono nella schiera dei convinti sostenitori del SÌ alla riforma della Costituzione. La battaglia referendaria si risolverà tutta "in superficie" e Renzi potrà agevolmente vellicare gli spiriti dell'antipolitica e mettersi alla testa, lui, politico di professione, di una crociata impostata molto tempo fa. Il tutto in nome della modernizzazione istituzionale, di un Paese "in linea" con l'Europa e "le democrazie più avanzate", cioè gli stessi slogan da tre soldi, ma di efficacia micidiale, utilizzati per le unioni civili.
     In simili condizioni è difficile per chiunque opporsi al bombardamento mediatico del presidente del Consiglio. Come dire NO alla riforma votata dal Parlamento senza per questo essere accusati di conservatorismo istituzionale, di essere inguaribili poltronisti, di rifiutare il cambiamento per paura del nuovo? E come convincere gli elettori che un NO a questa riforma non sarà preclusivo di una riforma diversa, insieme più incisiva ed equilibrata, e non segnerà la fine di ogni processo riformatore come afferma quel sostenitore non occasionale quale è Giorgio Napolitano? Esiste inoltre un dato che rende ancora più complicata la battaglia del NO: si tratta di un fronte talmente eterogeneo, diviso sul piano politico e privo di una proposta alternativa forte e visibile, da mettere in votazione una volta fallito il referendum, da risultare poco credibile anche per il più scettico  sostenitore della riforma.
     È questa la forza maggiore che proviene a Renzi dalla disordinata compagine dei suoi oppositori. Vedere insieme coriacei parlamentaristi e presidenzialisti incalliti quanto confusi, nostalgici della partitocrazia e riformisti à la carte in servizio permanente effettivo, almeno finché le riforme non si fanno, è uno spettacolo che vale da solo la campagna elettorale per il SÌ. Tuttavia, a dispetto di un evidente squilibrio mediatico e di comunicazione a lui favorevole, la strada per la vittoria è ancora lunga e Renzi non può rischiare di anticipare troppo i toni ultimativi e tranciante ascoltati ancora in queste ore. La semplificazione oltre misura dei contenuti della riforma - meno senatori, meno soldi ai consiglieri regionali e meno poteri alle Regioni - rischia di ritorcersi come un boomerang nel momento in cui gli oppositori al referendum dovessero trovare una ragione valida ed efficace. Quando Berlusconi evoca, come ha fatto qualche giorno fa, un governo tecnico come via d'uscita alla sconfitta di Renzi al referendum e alle sue conseguenti dimissioni, ha evocato uno scenario plausibile sul piano tecnico ma politicamente inconsistente. Un governo tecnico dopo l'ennesimo fallimento delle riforme può solo accompagnare il Paese a nuove elezioni, con una legge elettorale nel frattempo divenuta legge dello Stato. Ma con quali schieramenti e, soprattutto, con quali forze in campo rimane un mistero. Quel governo tecnico (se non addirittura istituzionale) rischia di essere guidato dal Pierre Mèndes-France di turno, cioè dal primo ministro francese il cui fallimento nel 1958 aprì la strada alla Quinta Repubblica. È una speranza debole, ma è la sola alla quale possono aggrapparsi i democratici senza aggettivi sfuggiti alle sirene del renzismo ma distanti anni luce dai parrucconi della conservazione. È auspicabile per la nuova Italia un assetto politico presidenzialista, con il popolo che elegge la guida della Repubblica e dell'esecutivo e sceglie poi i suoi rappresentanti in Parlamento eleggendoli in collegi maggioritari uninominali. La grande costituzione monarchica americana intravvista da Tocqueville, e contrapposta alla monarchia costituzionale europea nata nella Francia luigifilipparda, rimane ancora oggi un riferimento luminoso. Come da tanti lustri non si stanca di ripetere Marco Pannella. 

     


domenica 15 maggio 2016

CHE SUCCEDE SE LA QUESTIONE MORALE TOCCA LE FORZE ANTI-SISTEMA



di Massimo Colaiacomo


     Il diverso trattamento riservato dai vertici grillini alla vicenda parmigiana rispetto ad altri, analoghi casi giudiziari che hanno coinvolto amministratori del movimento è un fatto politico rilevante. Non tanto per il peso mediatico di Federico Pizzarotti, primo sindaco grillino eletto in una città capoluogo di provincia. Il rilievo della vicenda sta tutto nelle conseguenze da essa provocate negli equilibri interni al movimento. Il direttorio è stato azzittito e la decisione presa da Casaleggio Secondo, il quale ha comunicato la sospensione di Pizzarotti dal movimento con modalità tipiche del vecchio PCUS, ha confermato, con la mancanza di ogni democrazia interna, che l'esercizio del potere è rimesso tutto nelle mani di una sola persona, titolare e proprietario esclusivo di una piattaforma in rete attraverso la quale si decide la platea degli elettori, di chi può votare e, in definitiva, della vita o della morte politica di ogni militante del Movimento.
     Tutto questo non è servito a mettere in sicurezza il Movimento sulla questione morale, da sempre al centro tema della propaganda grillina e cavallo di battaglia per inanellare trionfi elettorali sul piano locale e nazionale. È lecito ora chiedersi che cosa potrà accadere se la questione morale tocca la principale delle forze anti-sistema nate in Italia negli ultimi anni. Scoprire di avere decine di amministratori destinatari di avvisi di garanzia, da non confondere con sentenze di condanna, tende per forza di cose ad assimilare il M5s ai partiti tradizionali o, quanto meno, a rendere meno spendibile la carta della diversità morale. È troppo facile ricordare l'aforisma di Pietro Nenni secondo cui "prima o poi un puro trova uno più puro che lo epura" anche perché è difficile intravvedere all'orizzonte nuovi campioni di purezza e di trasparenza.
     Più verosimile è immaginare il Movimento grillino costretto a confrontarsi sul terreno delle scelte politiche e dei programmi di governo. Appannata e oggi meno spendibile che in passato la carta della "diversità morale", il M5s viene a trovarsi in una condizione non molto diversa da quella in cui si ritrovò, all'inizio degli anni Ottanta, il Pci di Enrico Berlinguer all'indomani della marcia dei quarantamila a Torino e in avvio della stagione del pentapartito. Il partito si ritirò dalle piazze per chiudersi nella corazza della "questione morale", una scelta che non pagò più di tanto sul piano dei consensi elettorali ma in cambio privò il Pci della sua capacità di incidere sulle politiche di governo. Facile obiettare che quella di oggi è un'Italia profondamente diversa da quella di 35 anni prima, ma ciò non cambia in nulla il senso della sfida che attende Beppe Grillo. Al bivio fra la continuità con le scelte radicali della prima ora e una svolta politica capace di farne una forza di governo, il M5s si trova di fronte a decisioni capaci di aprire la strada a nuovi successi oppure segnarne il declino definitivo.
     Se prevarranno le pulsioni integraliste, e dunque l'idea di rifiutarsi a una visione più laica e istituzionale della lotta politica, che deve comprendere, è ovvio, la lotta alla corruzione, per il M5s, e per tutte le forze anti-sistema, potrebbe arrivare l'ora della risacca. Nel Paese rimane forte il clima di ostilità, quando non di disprezzo, per la politica in generale. Sapere però che a votare un candidato grillino si corrono rischi non diversi né inferiori che a votare un candidato sindaco del PD o di Fratelli d'Italia, potrebbe portare altre migliaia di elettori ad andarsene al mare il prossimo 5 gennaio. Ma quella astensioni sarebbero per Grillo un temibile "vaffa-day" di ritorno.  

martedì 10 maggio 2016

SULLE UNIONI CIVILI MARCHINI CERCA DI INCRINARE LA MAGGIORANZA TROPPO AMPIA DI RENZI


di Massimo Colaiacomo


     Da sindaco di Roma Alfio Marchini non accetterebbe mai di celebrare un'unione civile gay. L'affermazione è stata fatta cadere, quasi con nonchalance, in mezzo ad altre più impegnative promesse (la privatizzazione di Atac o il no al delisting di ACEA da Borsa italiana). L'effetto politico è stato immediato: alla vigilia del voto di fiducia della Camera sulle unioni civili, Marchini ha deciso di agitare le acque con l'obiettivo di incrinare una maggioranza altrimenti oceanica sul provvedimento  che il premier Matteo Renzi si prepara ad alzare come un trofeo da esibire alla sua sinistra, nel silenzio e nello smarrimento del centrodestra.
      È evidente, come sa bene il candidato di centro-destra, che nessun sindaco potrà rifiutarsi di applicare una norma una volta diventata legge dello Stato. Quella di Marchini, però, è una provocazione politica destinata a scompigliare gli equilibri in quell'area moderata in cui Renzi ha mietuto e miete consensi e punta a rafforzare il proprio insediamento elettorale. Con la sua sortita, Marchini ha voluto risospingere Renzi in un'area di sinistra, marcando il provvedimento sulle unioni civili come un prodotto della cultura gender e relativista tipica della sinistra radicale.
     Se quello di Marchini è un calcolo elettorale, resta da vedere quanto possa rivelarsi efficace. Sul piano politico, non c'è dubbio che appare come una mossa destinata a rinsaldare il fianco sinistro della maggioranza renziana per meglio metterne in discussione il suo radicamento nel mondo moderato, non solo cattolico. Perché soltanto gli ingenui possono pensare che sulle unioni civili omosessuali si consumi uno scontro secondo lo schema ottocentesco fra laici e cattolici. Intorno a questo tema, come su tutte le questioni di bioetica e che riguardano la vita e la morte, la battaglia politica si svolge su un terreno diverso dal passato, mentre l'appartenenza religiosa ha un peso ormai relativo. In gioco entrano due differenti weltanschauung, visioni della vita e della società che muovono da valori diversi e talora radicalmente diversi. È vero che le unioni civili non sono assimilabili, né la legge in votazione le assimila, al matrimonio. Ma come negare che provvedimenti simili portano a una relativizzazione del matrimonio come è incardinato nella Carta costituzionale?
     Marchini ha tracciato una linea sulla sabbia, ma non per dire "di qua i cattolici, di là i laici". Ha semplicemente voluto, ma dovrà spiegarlo meglio, ricordare che ha una visione relativista della vita se ne può contrapporre un'altra, non meno legittima, volta a riaffermare istituti e valori, sicuramente da rinnovare, ma ancora oggi capaci di essere un collante etico per una società smarrita. Sono obiettivi che rimangono molto sullo sfondo del ragionamento solo abbozzato da Marchini. In primo piano rimane però il suo obiettivo, non troppo vago, di contestare a Renzi la rappresentanza del mondo moderato. Perché è su questo terreno che si svolgerà la prossima contesa elettorale. Sarebbe sbagliato attendersi note di plauso da parte delle gerarchie vaticane. Questo pontificato ha scelto una dimensione diversa dai suoi predecessori. La predicazione di Papa Francesco si svolge su un piano orizzontale e i valori "non negoziabili" della stagione ruiniana sono soltanto un pallido ricordo.