sabato 27 luglio 2013

ITALY BURNING IN AUTUMN, MA NON PER COLPA DI MERKEL O DELLA CATTIVA SORTE


La spesa pubblica è il Vello d'oro della politica. Nessuno ha osato e mai oserà squarciare la coltre di ipocrisia che circonda l'ultimo e più resistente dei Paesi statalisti dell'Occidente. Senza tagli immediati della spesa, nessuna terapia potrà salvare l'Italia dall'intervento della Troika (Bce, Fmi, Ue). E forse sarà un bene che sia così  


di Massimo Colaiacomo

Jürgen Stark, ex capo economista della Banca centrale europea che ha lasciato nel 2011 per protesta contro la politica di acquisto dei bond dei Paesi in crisi, sarà anche un falco come ama raffigurarlo l'informazione dei Paesi in crisi, ma la sua profezia sull'autunno nero che attende l'Italia è meno sconclusionata di come appare a certi ottimisti di casa nostra. Con la sua politica del denaro facile "Draghi - ha detto Stark al Corriere della Sera - ha comprato tempo ai governi europei, che però non l'hanno sfruttato". "Comprare tempo" è l'espressione più azzeccata per spiegare che cosa è accaduto in Europa dopo il discorso, nel luglio 2012, con cui Draghi annunciava che la Bce "avrebbe fatto qualsiasi cosa in difesa dell'Euro". Il risultato fu il varo dell'Omt (Outright monetary transaction, cioè acquisto illimitato di bond per impedire la crescita del differenziale fra i tassi decennali dei Bund tedeschi e quelli dei titoli pubblici equivalenti di Paesi come Italia e Spagna).
La Bce ha caricato la pistola e i mercati, cioè gli hedge found, non hanno voluto verificare se è carica a salve o spara per davvero. Questo momento, però, potrebbe essere vicino o meno lontano di quanto sembra. Per una serie di ragioni, la più importante delle quali è una sola: dietro lo scudo europeo alzato da Draghi, non ha preso vita nessuna delle riforme strutturali (lavoro, pensioni, sanità, tagli della spesa pubblica e riforma delle sue procedure) invocate e inutilmente attese dai mercati. Nasce da qui la tentazione dei mercati di mettere alla prova la forza di quello scudo. Ove mai dovesse accadere, le luci in fondo al tunnel che Saccomanni, Letta e compagnia cantando intravvedono da mesi, si spegnerebbero di colpo.
Per essere più chiari: le rivolte, non si sa se da Grillo temute o più auspicate, forse non avranno l'aspetto di masse turbolente che scendono in strada con i forconi, ma certo potrebbero assumere la forma di tensioni sociali non facili da controllare. La caduta del PIL continua e all'ultima revisione ha subito un ulteriore aggravamento. Appare molto improbabile, messe così le cose, rivedere il segno più nel 2014.
Che fare? L'interrogativo che Lenin si poneva nel 1917 è quanto mai attuale in Italia. Il governo Letta, figlio di una coalizione di necessità, si trastulla tra misure minimaliste e auspici. Se si pensa all'esultanza fuori luogo per aver introdotto la flessibilità contrattuale per i circa 800 dipendenti che lavoreranno da qui al 2015 all'Expo non c'è motivo di nutrire soverchie speranze. Quel modello andrebbe esteso a tutta l'Italia, cominciando naturalmente dal pubblico impiego.
Anche l'esecutivo in carica, come quelli di Monti, di Berlusconi, di Prodi ha annunciato che interverrà sulla spesa pubblica. La frustrazione dei mercati, e dunque la loro aggressività, nasce dalla certezza che questo annuncio, come gli altri precedenti, non sarà seguito da alcun fatto o atto che possa incidere anche solo per un centesimo sulla spesa.
La rincorsa divenuta affannosa per mettere in vendita il patrimonio immobiliare dello Stato (con Saccomanni che ha accennato, salvo fare marcia indietro, alla possibilità di collocare sul mercato sia pure come "collaterali", cioà garanzie, le quote di Enel ed Eni) è purtroppo la conferma dello spirito imbelle che anima il ceto politico e la maggioranza che sostiene il governo. Tutti fingono di non capire che abbattere il debito di 100 o 200 miliardi, lasciando immutate le procedure di spesa, può fornire un sollievo temporaneo alla finanza pubblica lasciando però irrisolti i nodi strutturali che la soffocano. Tutti sanno che senza un'opera di destatalizzazione imponente dell'economia non ci sarà alcun futuro per l'Italia, ma nessuno ha fino a oggi osato far seguire comportamenti coerenti alle vaghe enunciazioni fatte in materia.
Il governo Letta è atteso a una sfida mortale in autunno: superato lo scoglio delle elezioni generali in Germania (22 settembre) sarà difficile per chiunque immaginare toni e comportamenti più concilianti da parte di Berlino. Cioè dalla capitale che esattamente nel Ferragosto di 10 anni fa, con il governo Schröder, varò il pacchetto più imponente di riforme strutturali il cui significato ultimo era un maggior concorso di spesa per i contribuenti nei servizi della sanità, della scuola e dei trasporti e una ritirata molto ampia dello Stato dall'economia.
Sempre sul Corriere della Sera di oggi, Francesco Giavazzi ha rinnovato il suo appello al governo a prendere coraggio e intervenire sulla spesa pubblica con tagli programmati di 50 miliardi all'anno e la destinazione di somme tanto importanti agli sgravi fiscali per lavoratori e imprese. Da Giavazzi, come da Alesina, sono arrivati stimoli frequenti in questa direzione, rimasti, purtroppo, soltanto auspici accademici e caduti nel silenzio più cupo da parte del titolare dell'Economia. Il quale continua a gingillarsi intorno al dilemma se restituire 5 o 4 o 10 miliardi alle imprese sapendo che i debiti maturati dallo Stato ammontano a oltre 100 miliardi e le piccole imprese, i laboratori artigianali continuano a spegnersi al ritmo di 300-400 al giorno.
La difficoltà principale che impedisce al governo di cogliere in tutta la sua drammaticità la reale situazione dell'Italia risiede ancora una volta nell'insufficienza del quadro politico. In quale altro Paese se non in Italia si può immaginare il principale partito della maggioranza, il Pd, impelagato in lotte intestine sul regolamento congressuale mentre tutto intorno divampano le fiamme di crisi che rischia di inghiottire il futuro di un paio di generazioni?
E in quale altro Paese, messe così le cose, il secondo partito, il PdL, rimane in stand by in attesa di una sentenza della Cassazione che segnerà il destino del suo leader e forse dell'intero quadro politico?
Si spiega, allora, perché gli ultimi sondaggi danno il PdL in forte risalita, oltre il 28%, e il Pd in caduta libera sotto il 23%. Il PdL sale, mentre sta fermo attorno a Berlusconi, il Pd scende mentre ribolle per le lotte intestine. Il PdL è stato fin qui percepito come un elemento stabilizzatore intorno al governo, il Pd come invece una spina nel fianco di Enrico Letta. Sarà pure un gioco degli specchi che rimandano immagini deformate e ingannevoli, ma questo è lo stato dell'arte.   

domenica 21 luglio 2013

LETTA ACCETTA LA SFIDA, IL GOVERNO ENTRA NELLE DINAMICHE DEL PD (E DEL PDL) E SI RAFFORZA


di Massimo Colaiacomo

Enrico Letta ha deciso dunque di posizionare il governo rispetto alle dinamiche interne ai partiti, e non solo al Pd. Perché, a ben guardare, la contrarietà a qualsiasi rimpasto o tagliando di governo, comunicata ieri dal ministro Franceschini, contiene in sé una clausola vincolante per il Pd non meno che per il PdL: l'esecutivo non cambia la propria né il suo programma, né a settembre ma neppure dopo il 30 luglio, giorno della sentenza della Consulta sulla vicenda Mediaset.
Le dichiarazioni di Franceschini, unite a quelle del ministro Zanonato sulla determinazione del governo a non aumentare l'IVA e a cancellare l'IMU (per la verità, la norma sarà riscritta e non cancellata), sono tessere di una controffensiva che vede l'esecutivo compatto nel respingere l'assedio del Pd e nell'anticipare le difficoltà del PdL conseguenti a un'eventuale condanna di Berlusconi. Letta ha insomma realizzato che il governo non può restare fermo rispetto alla dialettica dei partiti, sia che si tratti dello scontro congressuale, combattuto senza esclusione di colpi nel Pd, sia che si tratti delle reazioni del PdL alle vicende giudiziarie del suo leader. E' evidente che un governo divenuto politicamente "interventista" rispetto alla sua maggioranza si espone a qualche rischio in più, quanto meno deve prepararsi a incassare nuovi colpi bassi.
Letta, però, non ha alternative. Muovendosi come ha fatto nelle ultime ore, ha in qualche misura "neutralizzato" gli umori del PdL quando, all'indomani della sentenza della Consulta, dovesse ritrovarsi decapitato del suo leader. Il fatto che Berlusconi si sia spinto oltre ogni limite di prudenza nel suo sostegno convinto al governo può autorizzare mille retropensieri. Non ultimo quello di aver percepito una sentenza per lui benevola o quanto meno interlocutoria, nel senso che la Consulta si riunisce il 30 luglio, impedisce la prescrizione parziale dei reati riconosciuti in Appello, e rinvia il tutto all'autunno.
Non è molto diverso l'atteggiamento verso il Pd. Le turbolenze quotidiane che scandiscono il dibattito congressuale in quel partito sono destinate a crescere di intensità e di pari passo aumenta la tendenza a scaricare sull'esecutivo le tensioni interne. In assenza di reazioni, il cortocircuito per il governo sarebbe pressoché garantito. Si spiega così la controffensiva governativa con i ministri Franceschini, Zanonato, Carrozza uniti come i tre moschettieri nel respingere ogni richiesta di "tagliando" autunnale per l'esecutivo, per non dire di un eventuale rimpasto.
Il richiamo di Letta a concentrarsi sulle risposte da dare al Paese, in sintonia con le affermazioni di Napolitano,  è stato rivolto naturalmente a tutti i partner di maggioranza. Ma è nel Pd che le sue parole hanno aperto una ferita profonda. Il fatto che un ex-popolare come Fioroni ipotizza il rinvio del congresso (argomento tabù fino a ieri) è la conferma, in qualche misura, che si comincia ad avvertire il rischio dei troppi fuochi accesi dentro il Pd, con il rischio di appiccarlo anche al governo.
Per queste ragioni il premier Letta ha ripetuto che la vicenda Ablyazov è da considerarsi chiusa a tutti gli effetti. Per le ragioni esattamente opposte, invece, Epifani ha ribadito ancora stamane in un'intervista a l'Unità che quella storia non è affatto chiusa. Epifani rischia di vedersi saltare il partito, ma Letta rischia di vedersi saltare il governo ove accettasse di tenere Alfano a bagnomaria.
Per entrambi il rischio è di dar vita così a un braccio di ferro destinato a indebolire sicuramente la maggioranza, già scarsamente coesa, senza peraltro aprire la strada a soluzioni alternative allo stato inesistenti o di pura fantasia. In questo gioco a incastro, con le tessere mai al loro posto, si inserisce agevolmente il vento del populismo grillino. Come conferma l'intervista, dai toni decisamente terroristici, di Casaleggio al sito del comico. Evocare un autunno di fuoco, con la gente che scende nelle piazze, equivale a spargere benzina in una prateria già in fiamme. Casaleggio e Grillo hanno bisogno di evocare paure e scenari catastrofici per tenere il tiro alto sul governo. Devono tentare, con la speranza di una sorte migliore dell'archetipo, di battere la strada della profezia che si autoavvera evitando la fine dello stregone vittima del suo stesso sortilegio. La realtà quotidiana è molto più prosaica e racconta agli italiani le stesse paure che da qualche mese si sono impossessate dei tedeschi come dei francesi, dei danesi come degli spagnolo o dei greci. Dopo il 22 settembre, quando Angela Merkel, se i pronostici saranno confermati, sarà stata rieletta alla cancelleria, allora l'Europa, e dunque l'Italia, girerà pagina. E nelle nuove pagine sarà difficile trovare un posto per Grillo&C. 

venerdì 19 luglio 2013

RENZI E LETTA, SENZA RIFORME RADICALI PERDONO ENTRAMBI


di Massimo Colaiacomo

E' dunque con la tecnica andreottiana del "caso Kappler" che il premier Enrico Letta si prepara a risolvere la vicenda Ablyazov? Spulciando nella memoria, può essere utile ricordare come il presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti, affrontò e risolse il grave caso di Herbert Kappler, l'ufficiale nazista condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, e fuggito dall'ospedale del Celio la mattina del Ferragosto del 1977.
Sul banco degli imputati finì il ministro della Difesa, Vito Lattanzio, esponente pugliese della sinistra Dc (un moroteo) in quanto responsabile politico delle Forze armate nel cui ospedale era stato ricoverato Kappler dato in fin di vita dopo una serie di accertamenti clinici. Dopo qualche giorno di riflessione, Lattanzio optò per le dimissioni ma venne dissuaso dal segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, preoccupato di mettere  repentaglio gli equilibri di governo sempre fragili fra le diverse correnti del partito.  
Le opposizioni, che all'epoca significava Pci e Msi,  incalzarono il governo e il ministro Lattanzio senza fare sconti nella richiesta di dimissioni. Fu allora che Andreotti tirò fuori il coniglio dal cilindro (ne aveva un intero allevamento, visti i frangenti superati anche successivamente): arrivato il mese di ottobre, Andreotti, manuale Cencelli alla mano, realizzò un giro di poltrone. Lattanzio lasciò il ministero della Difesa per i Trasporti scambiandosi di ruolo con il collega Attilio Ruffini, passato dai Trasporti alla Difesa.
Nel caso di Angelino Alfano le cose sono rese più complicate, ma solo fino a un certo punto, dal fatto che egli è il segretario del PdL e il vice premier, ruolo quest'ultimo che ne fa il garante degli equilibri politici del governo.
Se davvero la soluzione politica della vicenda Ablyazov prenderà questa piega, o una simile, Enrico Letta potrà dire di averla sfangata, almeno per il momento. Ma le turbolenze non finiranno almeno finché il Pd non avrà superato la stagione congressuale che ne è la causa principale. Ai  dirigenti del partito è chiaro che la morsa di Matteo Renzi sul governo potrebbe allentarsi a patto di scrivere regole congressuali che ne favoriscano, o non ne intralcino, l'ascesa alla segreteria. Renzi ha fretta, e ha ragione: lui ha 38 anni, Enrico Letta qualcuno in più. Se il governo si stabilizza, Letta diventa un competitor naturale di Renzi.
E' del tutto evidente che la conquista della segreteria del Pd non è il traguardo del sindaco, intenzionato, al contrario, a farne il trampolino per Palazzo Chigi. E qui il rebus si complica. Il ministro Del Rio, renziano della prima ora ma leale ministro del governo Letta, è convinto che la convivenza fra i due sia non solo possibile ma indispensabile nell'interesse del Pd e dell'Italia. L'obiettivo indicato da Del Rio è difficile ma non impossibile.
Renzi e Letta hanno alcune necessità in comune: a) cambiare la legge elettorale, che significa, come si dice, superare il "porcellum" ma significa anche conservare l'attuale assetto maggioritario e possibilmente rafforzarlo per aggirare le difficoltà che il Pd incontrerebbe nel costruire alleanze sul fianco sinistro; b) modificare la Costituzione per introdurre l'elezione diretta, del premier o del presidente della Repubblica, senza la quale qualsiasi premier resterebbe ostaggio del suo partito; c) ridefinire su basi nuove il sistema delle relazioni sociali, superando una volta per tutte il sistema concertativo che sta affossando l'Italia.
Sono pochi ma decisivi punti di contatto quelli che dovrebbero mettere d'accordo Letta e Renzi. Con una differenza significativa: la leva del governo è oggi nelle mani di Letta e dunque è a Letta che Renzi è costretto a rivolgersi con i toni inevitabilmente polemici, e talvolta ruvidi, propri della legge della domanda e dell'offerta. Renzi deve domandare e Letta offrire. Letta non può dare a Renzi quello che il suo governo non ha (compattezza della maggioranza; comune visione strategica; un'agenda di riforme sociali ed economiche condivisa). Renzi, però, non può neppure allargarsi in promesse che né lui né altri potrebbero mai realizzare senza avere fatto le riforme di cui si è detto.
La lotta politica fra i due - si chiama così e non guerra - è destinata a un lungo, defatigante surplace. Defatigante per entrambi: il logoramento non è soltanto del governo ma anche dell'immagine e dei consensi Matteo Renzi. Per queste ragioni Letta ha oggi un interesse vitale a imprimere un'accelerazione al programma di governo. Per farlo deve mettersi alle spalle qualche liturgia del passato alla quale mostra di essere affezionato, come, per fare un esempio, la ricerca spossante di accordi con il sindacato sulla flessibilità del lavoro per i dipendenti di Expo 2015. Il 31 agosto è una data spartiacque più del 30 luglio, quando sarà nota la sentenza della Cassazione su Mediaset. Perché per il 31 agosto il premier dovrà essere in grado di annunciare agli italiani che cosa il governo ha deciso sull'IMU, sull'IVA, sulla riforma fiscale e sulla riforma del lavoro. Quella data rende il governo Letta molto simile a uno yogurt. 

giovedì 18 luglio 2013

RENZI VITTIMA DELLA SUA IMPAZIENZA, ORA LETTA PIÙ FORTE E PD PIÙ DIVISO


di Massimo Colaiacomo

Il presidente Napolitano ha ricevuto il tradizionale ventaglio dalla stampa parlamentare ma l'oggetto non è stato quest'anno puramente ornamentale. Si può dire che Napolitano ha agitato quel ventaglio e mandato refoli d'aria fresca a un governo da troppo tempo in affanno e con tanti dossier aperti. L'ultimo, più spinoso, è quell'affaire Ablyazov costato una figuraccia all'Italia sul piano internazionale. Sul punto, Napolitano ha mostrato una fermezza di toni favorita probabilmente dalla circostanza non protocollare. Guardando a quel campo di Agramante cui è ridotta la maggioranza di "larga coalizione" Napolitano non ha esitato ad ammonire quanti coltivassero l'ambizione di liquidare il governo Letta, tanto apprezzato all'estero, perché i danni che ne verrebbero al Paese sarebbero "irrecuperabili". Di più: mai Napolitano darebbe il suo avallo a chi lavora a "ipotesi fumose" (leggi: governo di minoranza Pd-grillini) e tutti sono invitati a togliere la mano dalla spina. Staccarla all'esecutivo Letta equivarebbe esporre l'Italia a contraccolpi "irrecuperabili".
Sarà stata una coincidenza e niente altro, ma le parole di Napolitano sono planate sull'assemblea dei senatori Pd convocata quasi nelle stesse ore per decidere l'atteggiamento da tenere quando domani, nell'Aula di Palazzo Madama, saranno messe ai voti le mozioni di sfiducia di Sel e M5S contro il ministro dell'Interno. Il Pd voterà contro la sfiducia ad Alfano ma il fatto in parte clamoroso è stata la rottura dei senatori "renziani". In pochi hanno tenuto il punto - sfiducia ad Alfano - mentre la subordinata, una mozione di censura, ha avuto sorte ancora peggiore.
L'atteggiamento di Renzi sulla vicenda Ablyazov è stato sbagliato, più della affannosa difesa pronunciata dal ministro Alfano in Aula. Il sindaco di Firenze si muove con intelligenza nella fase di impostazione delle sue battaglie ma sbaglia poi in modo rovinoso nella finalizzazione della sua strategia. Il risultato è che i richiami di Napolitano hanno improvvisamente incollato, non si sa per quanto, i cocci di un partito lacerato come mai nella sua storia e il risultato è l'isolamento del sindaco aspirante premier.
Va detto che non è stata oggi la prima volta che Renzi si è mosso "fuori tempo" rispetto alle vicende. Il caso Ablyazov è solo l'ultima circostanza. Per dire, la stessa battaglia sulle regole congressuali lo sta mostrando come un protagonista indeciso e a tratti timoroso. Pretendere, come Renzi ha preteso, di conoscere le regole e la composizione della platea degli aventi diritto al voto (iscritti, simpatizzanti o quali altri), è stata una manifestazione di debolezza.
Le conseguenze interne al Pd dopo la decisione di votare contro la mozione di sfiducia ad Alfano sono ancora tutte da misurare. La determinazione mostrata da LEtta nel difendere il suo ministro e il mantello istituzionale-politico steso da Napolitano sull'esecutivo hanno sparigliato non poco le carte congressuali del Pd. Letta appare stasera meno isolato dal suo partito e il segretario Epifani appare un po' meno di transizione. Il sostegno convinto al governo ha spiazzato non poco vecchi generali come D'Alema e Veltroni, convinti che andasse comunque trovato un modo per marcare le distanze del Pd dal governo sulla vicenda Ablyazov.
Non è stato così. E' stata ancora una volta, come a marzo per la rinuncia di Bersani a formare il governo, la parola del Quirinale a farsi sentire e a pesare nella dialettica interna del Pd. Verrebbe da dire che se il Pd ha il suo vice segretario a Palazzo Chigi, ha mandato al Colle ... il suo segretario. Per chi ha memoria storica e prova a riandare agli anni '70, non troverà azzardato il paragone di Napolitano con François Mitterrand. Il primo interpreta, senza averli direttamente assegnati, ma neppure negati, dalla Costituzione, i poteri tipici del presidenzialismo. L'altro, Mitterrand, fiero avversario della Repubblica presidenziale disegnata da De Gaulle, una volta incoronato segretario del Psf, erede della vecchia Sfio, si mosse, dal 1971, con l'ambizione di chi quei poteri voleva conquistarli. E li conquistò, nel 1981. Dopo una lunga traversata nel deserto. Il guaio per il Pd è che non sa esattamente in che punto sia della traversata e quanto esteso è il deserto che deve attraversare. Napolitano, con il suo comportamento, cerca di dargli almeno una bussola.
Dopo la decisione del Pd e il rimescolamento di carte che si preannuncia al suo interno, qualcosa è destinato a cambiare anche nel PdL. Messa temporaneamente da parte la scadenza del 30 luglio, e sposati con più costanza che in passato i toni della moderazione, sarà difficile per Berlusconi riaccendere i fuochi. Ma attorno alla data del 30 luglio si è sparsa all'improvviso una strana calma.  
       

mercoledì 17 luglio 2013

RENZI IN PRESSING SUL PD, O IL GOVERNO O IL PARTITO


di Massimo Colaiacomo

E' evidente anche ai più ingenui che la vicenda Shalabayeva è finita nelle mani di Matteo Renzi come il fucile caricato nelle mani di un cacciatore di fronte a un orso. Matteo Renzi punta alla crisi di governo, o a un vistoso azzoppamento di Enrico Letta disarcionando Angelino Alfano e, in questo modo, portare all'autunno un esecutivo indebolito e in balia degli eventi. E' qualcosa di più che una congettura, poiché un simile scenario trova ampi riscontri nelle manovre parlamentari in corso in queste ore. I parlamentari renziani hanno espressamente chiesto ai senatori del Pd di votare la mozione di sfiducia al ministro Alfano la qual cosa, è di tutta evidenza, significherebbe la sfiducia all'operato del governo. Da Londra, dove si trova in visita, il premier Enrico Letta ha fatto sapere che venerdì sarà "presente" in Senato durante le votazioni della sfiducia ad Alfano. E' da temere che la sua presenza sarà insufficiente. Letta deve prendere la parola, come Renzi gli ha chiesto, per dire se è o non è d'accordo con il ministro dell'Interno. Insomma, o dà una copertura politica piena ad Alfano, o ne prende le distanze e lo scarica e si prepara alle conseguenze del caso. 
Si è arrivati fino a questo punto per due ragioni: la gravità in sé della vicenda Shalabayeva, con la credibilità dell'Italia uleriormente indebolita fin quasi all'irrisione; la seconda ragione è che in tanti, troppi, aspettavano un'occasione simile per sparare contro il governo a palle incatenate. Una terza ragione non meno evidente è il dilettantismo con cui si sono mossi i protagonisti del caso. Se solo si pensa al ritardo con cui il ministro degli Esteri è entrato nella vicenda, convocando l'incaricato d'affari della Repubblica khazaka per le spiegazioni di rito, sarà allora chiaro quante e quanto gravi smagliature ci sono state a livello di esecutivo.
A rendere ancora più chiara la posta in gioco della partita politica in corso ci ha pensato la Lega. I due capigruppo al Senato e alla Camera, seguiti a ruota da un mai spento Umberto Bossi, hanno assicurato che mai voteranno la sfiducia ad Alfano ma deve essere Letta a prendere posizione con chiarezza in Aula. Dietro la difesa di Alfano, possibile e quasi sicuro alleato alle prossime (imminenti?) elezioni politiche, si è fatta strada un duro attacco a Letta.
Il presidente del Consiglio avverte l'assedio minaccioso che gli arriva dal suo partito. Epifani e i vertici del Pd durano non poca fatica per tenere uniti gruppi parlamentari che si muovono come una nave senza rotta. La lotta congressuale e le ambizioni personali di vecchi e nuovi generali hanno fatto del Pd un deserto di strategia politica. Al Senato e alla Camera ci sono drappelli di parlamentari che vivono alla giornata, con la maggior parte di essi in fila per accasarsi con il futuro padrone del partito.
E' sulle spalle di Letta però che cade il peso maggiore di questa fase confusa. E' lui che deve assumersi in prima persona la difesa del ministro Alfano perché essa coincide, se non nei fatti certo nel significato politico, con la difesa del governo. Un'esitazione di troppo e il castello di carte va in aria. Non è una decisione semplice, come si può intuire: difendere Alfano significa, in questo caso, mettersi contro Renzi e i suoi parlamentari. In mezzo c'è il Pd, sempre più simile "a un focoso destriero pronto a partir in tutte le direzioni" come dice il poeta di Astolfo, l'amico di Orlando partito, a dorso dell'Ippogrifo, in direzione della Luna per recuperare il senno per amore perduto dall'amico.
Letta ha ben compreso il pasaggio difficile che si sta preparando per il suo esecutivo. La circostanza assume i contorni del dramma perché a fronte del grave incidente khazako sull'altra piatto della bilancia il governo non può certo esibire risultati strabilianti nella realizzazione del programma. Il carniere a voler essere generosi è semivuoto. La riforma del lavoro, i tagli alla spesa pubblica, l'abbattimento del cuneo e in genere tutte le questioni legate al fisco sono altrettanti temi irrisolti e accantonati. Letta deve mettere le ali ai piedi ed esibire qualche risultato importante se vuole legittimare l'esistenza di un esecutivo altrimenti destinato a essere archiviato per il "pasticcio khazako".
Si può osservare che l'assalto di Renzi al governo, sia pure nella forma subdola della sfiducia ad Alfano, ha un che di disperato nella strategia del sindaco. Il quale è alla ricerca ogni giorno più affannosa di una via d'uscita strategica alle sue ambizioni: incerto se esse potranno essere meglio realizzate candidandosi alla segreteria oppure bypassare questa scadenza per puntare straight as an arrow alla premiership. A ben vedere il pressing di Renzi non è solo sul governo ma è anche e, forse, soprattutto sul Pd. La sua strategia di aggressione ad Alfano punta a indebolire il gruppo dirigente del partito diviso tra la fedeltà, sempre più lasca, a Letta e il bisogno di marcare le distanze rispetto al PdL e a un ministro vittima di una sprovvedutezza inescusabile.
Renzi deve premere sull'acceleratore perché la marcia da lui intrapresa non gli consente deviazioni o rallentamenti. Ha visto la melina messa in atto dalla Commissione per il Regolamento congressuale e teme di finire a rosolare in dispute regolamentari nelle quali ci sono fior di maestri nel Pd. Deve agire e scompigliare, però facendo attenzione. E' stato a Berlino, ha incontrato la cancelliera Angela Merkel e con lei ha parlato di competitività e occupazione. Tornato a Roma, e intruppati i suoi con Sel e M5S nell'assalto al governo, Renzi deve anche chiedersi: con Vendola e Grillo quante chances potrò avere di realizzare gli obiettivi concordati con Angela Merkel? 
 

martedì 16 luglio 2013

È L'INCERTEZZA STRATEGICA DI LETTA IL MIGLIOR ALLEATO DI RENZI


di Massimo Colaiacomo

Si muovono come giovani pattinatori sulla superficie di un lago ghiacciato in una spensierata giornata invernale. Qualcuno di essi ignora, per imprudenza o per inesperienza, che un volteggio di troppo su un punto dove il ghiaccio è più sottile potrebbe risolversi in un'ecatombe per tutti. E' una delle immagini che trasmette la scena politica in queste giornate. Il trambusto provocato da singole vicende - dal caso Shalabayeva agli insulti non si sa più scemi o più razzisti (ma c'è una differenza?) di Calderoli al ministro Kyenge - gli attori politici si muovono ciascuno pensando a tappare una possibile falla nella propria posizione, di governo o nelle istituzioni. Si deve votare la mozione contro Calderoli? Ecco che la Lega tuona contro il governo che fa rapire una bimba khazaka con il che lasciando capire al PdL che potrebbe votare a favore della mozione di sfiducia individuale contro il ministro Alfano. E il PdL che cosa fa? Annuncia la propria ritorsione, e firma, con Schifani e altri parlamentari, una mozione di censura contro il vice presidente leghista del Senato.
Siamo in presenza di scelte di piccolo cabotaggio, figlie di un esasperato tatticismo da cui il premier Letta cerca di tenere il più possibile lontano l'esecutivo. La stessa richiesta di Guglielmo Epifani "se Alfano sapeva, deve dimettersi" è un cinico espediente tattico, fondato sul presupposto che non sapendo come si è svolta la storia khazaka, può restare al suo posto. Epifani cerca così di prendere due piccioni con una fava: non lasciare a Sel e M5S il monopolio della contestazione e, nello stesso tempo, coprire il governo.
Come si vede, la lastra di ghiaccio si fa sempre più sottile e l'incidente di percorso è sempre dietro l'angolo. Da notare un paradosso: le divisioni nel Pd sull'atteggiamento verso il governo si sono a tal punto approfondite che dal chiacchiericcio quotidiano è persino sparito il dilemma su che cosa accadrà il 30 luglio, giorno della sentenza della Cassazione sulla vicenda Mediaset. Questo fatto la dice lunga sul livello di confusione raggiunto nel dibattito politico.
Matteo Renzi è uno degli artefici del quadro confuso che si stringe attorno al governo. Il sindaco di Firenze si aspetta naturalmente di essere anche il principale beneficiario ma non è detto che le cose debbano e possano aggrovigliarsi come a lui conviene. Intanto sulla vicenda khazaka Renzi ha dovuto sposare, per portare l'enneismo attacco a Letta, la linea dell'intransigenza scelta da Grillo e Vendola che puntano alle dimissioni di Alfano in quanto responsabile politico del ministero direttamente coinvolto. Renzi sempre più verrà a trovarsi in compagnia delle sinistre radicali, una strategia che appena qualche mese fa rimproverò a Bersani come profondamente sbagliata.
Il sindaco di Firenze sta compiendo qualche contorsione di troppo e, al netto del battesimo sulla scena europea che è andato a cercare a Berlino (che l'abbia trovato è tutto da vedere: i colloqui di cortesia, e di conoscenza, sono una delle carte della buona diplomazia), deve prepararsi a un percorso accidentato per ottenere un'investitura come leader nazionale. Giocare la carta della crisi di governo lo esporrebbe all'accusa di irresponsabilità e creerebbe non pochi imbarazzi al Quirinale. Renzi deve usare la leva della sinistra radicale per scardinare gli attuali equilibri, ma quando si rivolge agli italiani lo fa con parole e programmi di rinnovamento "radicale" nei contenuti, ma distanti anni luce dalla visione di Vendola e da Grillo.
Qui sta il punto di forza dell'attuale esecutivo: la scarsa omogeneità di obiettivi rende poco credibile gli assalitori. Renzi rischia così di vedere appannata la propria immagine di leader insieme innovativo e affidabile, ascoltato dai settori moderati del Paese e non sgradito a un pezzo della sinistra tradizionale.
Renzi fatica però a tenere insieme la platea dei consensi costruita in questi anni con la tempistica che si è data per incoronarsi candidato premier. Deve navigare fra due scogli evitando di urtare anche contro uno solo di essi: mostrare il senso di responsabilità per le difficoltà del Paese, e quindi verso il governo Letta; nello stesso tempo, deve mettere in campo programmi credibili e tali da renderlo competitivo verso le inadeguatezze fin qui mostrate dall'attuale esecutivo (e non sono poche). 
Enrico Letta ha fin qui reagito, almeno ufficialmente, facendo spallucce alle punzecchiature del sindaco. Anche se è facile immaginare la sua irritazione per le critiche che quotidianamente gli arrivano, quando non da Renzi da qualcuno dei suoi parlamentari. Non basta, però, per legittimare il governo. Letta ha una sola arma a disposizione per indurre Renzi a più miti consigli: deve produrre azioni e decisioni di governo che siano forti e credibili. Non deve, come ha promesso il ministro Giovannini, ridurre la flessibilità dei contratti di lavoro per Expo 2015. Non deve, come gli chiede di fare il Pd e la Cgil, usare il bisturi per cercare gli sprechi nella spesa pubblica che merita, al contrario, una terapia d'urto da tempi di guerra. La scelta del traccheggiamento da parte del governo è un nemico peggiore di Renzi e quindi un alleato prezioso per le ambizioni del sindaco.

mercoledì 10 luglio 2013

BERLUSCONI, UNA QUESTIONE ITALIANA


di Massimo Colaiacomo


     La politica italiana si trascina nel sottosuolo della realtà e scava, come fa la talpa, cunicoli sempre più complicati dai quali, a differenza della talpa, non sa più come uscire. Silvio Berlusconi è la talpa della nostra storia recente, ma non ha scavato mai nessun cunicolo. Si è limitato a seguire quello da altri costruito, lo ha percorso fin dove poteva e ora deve prepararsi a percorrerlo anche dove non vuole. Il 30 luglio, quando la Cassazione si riunirà in udienza sulla vicenda Mediaset, sarà la deadline della Berlusconi's story? Potrebbe esserlo e no. La magistratura, come ogni rispettabile corporazione del nostro Paese, ha molti difetti e anche qualche pregio, a differenza delle altre corporazioni tutte e solo difettose. Nel caso specifico di Berlusconi, tutte le sentenze emesse e dai sostenitori del leader definite nei modi più inciprigniti, avevano ed hanno un solo significato: scuotere, svegliare la politica dal torpore in cui è precipitata, aiutarla a liberarsi dallo stato ipnotico in cui l'ha ridotta Berlusconi per ricostruire una sua autonoma, sacrosanta e democratica capacità decisionale.
     Invece, è accaduto il contrario. La politica e la sinistra sono rimasti imbambolati davanti allo spettacolo dei processi, e il vortice quotidiano di accuse contro Berlusconi l'ha trasformata in uno spettatore trasognato facendone così, una volta individuata la parte dei buoni e quella dei cattivi, il primo, cieco supporter della magistratura. Quando poi, risucchiata nelle sabbie mobili del giustizialismo trinariciuto ha cominciato a sentire il terreno mancare sotto i piedi, allora ha coniato la formula ipocrita "le sentenze si rispettano e non si commentano". Fino alla sua più recente evoluzione, ora che governa insieme a Berlusconi: "le vicende processuali di Berlusconi non incidono sul governo".
     L'Italia è un Paese allergico alla realtà dei fatti e la politica, sempre in cerca di qualche esorcista della realtà (ieri Berlusconi, oggi Renzi, domani si vedrà), stenta a riconoscere i contorni dei problemi. Come si ostina a fare da 20 anni, rubricando di volta in volta Silvio Berlusconi sotto la voce "vicende giudiziarie" oppure "caso clinico" (definizione della ex moglie Veronica Lario). Definire la vicenda di Berlusconi per quello che essa è, cioè una vicenda politica e dunque una vicenda di politica italiana, è un compito troppo arduo per una politica in perenne asfissia.
     Quella di Silvio Berlusconi è una vicenda politica nazionale e non ci sono giochi di prestigio per quanto abili in grado di esorcizzarla.  La Cassazione può confermare o annullare per vizio di forma la sentenza della Corte d'Appello di Milano: quale che sarà il verdetto esso non può cambiare in alcun modo i termini del problema. Il governo Letta non potrà non accusare il colpo di una sentenza di condanna per Berlusconi, perché sarebbe la condanna del leader di una parte politica che lo riconosce tale, insieme a circa 10 milioni di elettori.
     La magistratura non ha colpe per come ha proceduto l'infernale macchina mediatico-giudiziaria in questi vent'anni. Si è ritrovata alla guida di processi che dovevano essere politici per la semplice ragione che la politica ha rinunciato alla sua funzione di guida. Ha preferito accomodarsi sul sedile posteriore illudendosi che l'autista l'avrebbe portata a destinazione, cioè a Palazzo Chigi. Il fallmento politico della sinistra, sempre sconfitta e sempre minoritaria, potrebbe paradossalmente essere la riprova dell'autonomia dell'azione giudiziaria o dell'insipienza della sinistra stessa a sfruttare le ricadute politiche dei processi a Berlusconi. Enrico Letta è l'erede, il custode e il continuatore degli errori della sinistra sulla vicenda tutta politica di Silvio Berlusconi. Il leader del PdL aveva finora trascinato nella sconfitta una decina di leader avversari (Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Rutelli). La sua uscita di scena per via giudiziaria non potrà non portarsi appresso anche il governo. E' inevitabile. 
     In democrazia, se esiste, non può resistere un quadro politico senza uno dei due pilastri fondamentali. E' scontato che dopo l'eventuale condanna del suo leader il PdL non potrà votare nessun altro governo né potrà esserci un altro governo senza essere prima passati dalle urne. Lo impongono le circostanze, lo vuole Matteo Renzi. Eventuali fuoriusciti dal PdL o dal movimento grillino non potrebbero dar vita a nessun esecutivo con un minimo di credibilità sui mercati. Anche questo, e forse questo più di altri, è il senso della bocciatura di Standard&Poor's sul nostro debito pubblico.
     

lunedì 8 luglio 2013

L'AGENDA DEL GOVERNO È OVERBOOKING E IL CARBURANTE DELLA BCE NON BASTA PER LA NAVIGAZIONE


di Massimo Colaiacomo

L'autunno è dietro l'angolo e le cambiali sottoscritte da Enrico Letta all'atto di formazione del governo verranno tutte a scadenza. Vero è che il premier, diversamente dalle accuse che gli rivolgono i critici più severi, non sta con le mani in mano e non vuole presentarsi alla ripresa con il carniere vuoto. Si spiega così l'accelerazione degli ultimi giorni con il ministro Saccomanni impegnato a definire prima della pausa estiva le misure necessarie per bloccare l'aumento dell'IVA e avviare la "rimodulazione" dell'IMU, termine sempre più ambiguo col passare dei giorni.
Letta sa di camminare su un sentiero stretto: è determinato a non sforare di un centesimo i saldi di bilancio, decisione quanto mai avveduta e scontata dopo l'uscita dell'Italia dall procedura di infrazione per deficit eccessivo; deve, nello stesso tempo, trovare una soluzione convincente alle richieste del PdL sull'abolizione dell'IMU. Si tratta, come si può intuire, di un'equazione non facile da risolvere neppure per un commis dell'esperienza di Saccomanni. Va detto che il premier dal 4 luglio può godere di un mantello protettivo ampio e solido, in parte inatteso e per questo più prezioso. Quel giorno, infatti, il governatore della BCE, Mario Draghi, ha raccolto il testimone dal collega della FED Ben Bernanke quando ha annunciato che i tassi resteranno ancora a lngo bassi e l'attuale rate di 0,50% potrebbe non essere ancora il pavimento della politica monetaria. Una manna, è il caso di dire, per quei Paesi come l'Italia alle prese con quell'angoscioso problema che è il controllo del debito pubblico da inizio 2013 proiettato verso traguardi stellari.
Nel suo intervento del 4 luglio, però, Draghi è stato perentorio: una politica monetaria accomodante, e ancora a lungo, è l'occasione, forse l'ultima, per consentire a Paesi come il nostro di mettere mano a quelle riforme strutturali fin qui soltanto annunciate e mai realizzate. Dove è finita la liberalizzazione dei servizi pubblici locali? E la riforma degli ordini? E la flessibilizzazione del mercato del lavoro? E il taglio della spesa pubblica, affrontato sempre con la delicatezza di un ricamo di tombolo?
Come si vede, Draghi ha in qualche misura suonato la campanella dell'ultima chiamata. La trasformazione silenziosa della BCE in una banca centrale, sull'esempio della FED e della giapponese BOJ, è in corso, in forme ancora vaghe, ma Draghi può permettersi oggi un livello di autonomia impensabile ancora un anno fa. E questo, almeno così sembra, per due ordini di motivi: i Paesi periferici hanno avviato, con diversa intensità, le riforme e hanno accelerato sulla via del consolidamento fiscale; la cancelliera Merkel, a due mesi dalle elezioni politiche, non può presentarsi con un'economia in affanno, sempre meno performante rispetto al resto d'Europa e sempre più a rischio contagio. Al punto che lo stesso Mario Draghi ha ribadito, con un occhio rivolto a Berlino, che una recessione prolungata costituisce oggi il maggior rischio sistemico per l'Europa. E la Germania, dopo aver beneficiato per anni della competitività stratosferica aiutata in ciò dalle ipervalutazioni dell'Euro, rischia di soccombere oggi che la moneta unica vedrà intaccata la sua forza dalla politica monetaria di Draghi.
Se questo è con buona approssimazione il quadro europeo dentro cui anche l'Italia deve muoversi, è evidente che Letta può giocare sul tavolo della maggioranza il non possumus del rispetto dei vincoli europei, da un lato e, dall'altro lato, può far leva sugli accordi europei per imporre quelle riforme strutturali che le forze politiche dicono di sostenere senza però averle mai solo sfiorate durante gli anni dei governi, di centrodestra o di centrosinistra cambia poco.
La BCE fornisce carburante, divenuto improvvisamente disponibile per le circostanze appena dette, in quantità illimitata ma chi deve guidare la macchina dei rispettivi governi nazionali è chiamato a farne un uso il più oculato possibile. Le rivendicazioni programmatiche del PdL devono fare i conti con questo quadro e con i paletti indipendenti dalla volontà politica del governo. Vero è anche che la tenuta di bilancio e la sistemazione delle poste dipende dalla volontà politica della maggioranza e dalla capacità del premier di fare sintesi tra le diverse esigenze. Per fare un esempio destinato a rimanere d'attualità per le prossime settimane, abolire l'IMU o allargare la fascia di esenzione è una scelta non soltanto contabile ma squisitamente politica. Restringere la platea dei contribuenti al 20-25%, come vorrebbe una delle ipotesi, rischia di esporre questa riforma alla censura della Corte costituzionale poiché si opera una discriminazione sul concetto e sull'uso stesso della residenza. Peggio ancora sarebbe se il calcolo della nuova IMU venisse realizzato utilizzando anche la capacità di reddito dei residenti, con il che aumentando di fatto la pressione fiscale incrociando il patrimonio con il reddito. La sola via possibile per mantenere l'IMU, mettendo in qualche modo in difficoltà lo stesso PdL, è recuperarla alla funzione originaria prevista dalla Commissione bicamerale per il Federalismo: una tassa a disposizione dei Comuni che possono così coprire i tagli dei trasferimenti statali.