venerdì 23 agosto 2013

PARTE LA CORSA AL VOTO, PD IN SBANDATA E LETTA NON FRENA


di Massimo Colaiacomo

Il rumore è tanto e la polvere da sparo si respira nell'aria a Palazzo Chigi e dintorni. Dunque la strada è (sarebbe) segnata per il governo. La data fatale del 9 settembre, quando la Giunta delle elezioni si riunirà per ascoltare la relazione del suo presidente Andrea Augello sulla condanna definitiva del senatore Silvio Berlusconi, e  votare sulla sua decadenza e conseguente ineleggibilità come prescrive la legge Severino, è molto vicina e nello stesso tempo molto lontana.
Troppo vicina perché da qui ad allora possano trovarsi le soluzioni tecnico-giuridiche chieste in modo ultimativo dal Cavaliere. L'agibilità politica, invocata dal PdL come garanzia minima perché possa continuare nel sostegno a  Letta, è una richiesta difficile da esaudire senza che nella Giunta delle elezioni si trovi una maggioranza convinta della bontà della richiesta. Al momento non c'è e difficilmente si troverà per allora.
La condanna definitiva di Berlusconi si è rovesciata poi su un quadro politico nato fragile e andato facilmente a soqquadro una volta che la Cassazione ha sentenziato. Se si riavvolge la pellicola fino al 4 agosto e si lascia posare la polvere da allora sollevata quotidianamente, si può agevolmente vedere come le forze in campo si sono via via dislocate rispetto alla sentenza. Il PdL si è mosso con la frenesia della mosca catturata dal bicchiere rovesciato: una volta ha invocato l'amnistia; un'altra il rinvio della Giunta; una terza il conflitto davanti alla Corte costituzionale. E via così.
Tentativi tutti falliti, e destinati a fallire, per la semplice ragione che il successo di uno solo di essi presuppone una forte e concorde volontà politica. Senza la disponibilità del Pd, infatti, non esiste nessuna possibilità di attenuare le conseguenze politiche di una sentenza chiara (ingiusta quanto si vuole, ma chiara) di condanna in sede giudiziaria. Il compito della Giunta delle elezioni non è assimilabile infatti a quello di un tribunale. I commissari non sono giudici ma senatori eletti dal popolo e le loro valutazioni, fondate sicuramente su motivazioni tecniche e giuridiche, sono, e non posso essere altrimenti, di natura esclusivamente politica. Sostenere il contrario è un'ipocrisia bell'e buona.
Alla mobilità nevrotica della mosca-PdL si è contrapposto il muro di cemento del PD. Invece di replicare, e argomentare e spiegare sull'impraticabilità di questa o di quell'altra delle soluzioni proposte dal PdL, dal PD è venuta una risposta monocorde e tetragona: le sentenze vanno rispettate. Una posizione all'apparenza impolitica ma, in realtà, carica di un significato politico dirompente. La linea del PD ha sancito, nella realtà, come le conseguenze politiche di una sentenza giudiziaria sono parte della sentenza stessa e la possibilità di intervento da parte della Giunta per valutarne il peso e l'applicabilità della legge Severino sono pressoché nulle. Insomma, la sentenza di Cassazione letta dal giudice Antonio Esposito ha già svolto il lavoro di competenza di un'Aula parlamentare con ciò alimentando la tesi di chi sostiene che quella sentenza sia una sentenza politica.
Con il che si arriva al nocciolo della vicenda Berlusconi e delle ripercussioni devastanti che essa può avere se la politica non sa fare argine. Quando, all'indomani della sentenza il presidente Napolitano, pronunciata la formula di rito (e, francamente, un po' polverosa) che le sentenze si rispettano e si applicano, esortò la politica a procedere celermente con la riforma della giustizia, altro non faceva se non cogliere le degenerazioni provocate nel rapporto politica-giustizia proprio dai gravi ritardi accumulati sul terreno della riforma.
Il Pd, come ha detto con espressione freudianamente efficace Gianni Cuperlo, sulla vicenda Berlusconi "si gioca l'anima". Che tipo di anima? Un'anima giustizialista e supina al potere della magistratura? Un'anima un tempo giacobina ma garantista e poi convertita alla Dea Legalità per onorare la quale si fanno sacrificumani? Oppure, più prosaicamente, il Pd si gioca la possibilità di andare al voto anticipato e vincere le elezioni visto che il Cavaliere dovrà correre non con una ma con tutte e due le mani legate dietro?
Quest'ultima ipotesi diventa la più concreta guardando all'immobilismo politico che ha colpito il PD con la vicenda Berlusconi. Lo scambio di mazzate fra Davide Zoggia, che ha escluso le primarie di partito e indicato in Letta il candidato premier in caso di voto anticipato, e il renziano Dario Nardella, risentito per l'annuncio, è la spia della confusione in cui è finito il PD. Si è condannato alla paralisi, preso dai giochi congressuali, da un lato, e dal calcolo elettorale dall'altro. Si aggiunga la stilettata di D'Alema su Letta premier transitorio e Renzi futuro candidato premier e il quadro è completo. Con un'annotazione a margine: D'Alema, le cui parole rotolano con la precisione di una palla da biliardo che tocca quattro sponde, quando candida Renzi alle primarie sa bene che ci sono tempi tecnici non proprio ravvicinati. Il che è possibile a condizione che il governo non vada in crisi. E D'Alema deve avere qualche buona ragione per pensare che sia così.

martedì 13 agosto 2013

IL DOPO-BERLUSCONI È NELLE MANI DI BERLUSCONI


di Massimo Colaiacomo     
     Dopo Silvio Berlusconi, che si prepara molto nolente e per niente volente, a risalire dal campo della politica non ci sarà un altro Berlusconi pronto a scendervi. La primogenita Marina, presidente di Fininvest e Mondadori, ha tagliato corto con la ridda di voci che la davano pronta a rilevare il ruolo del padre per consumare una vendetta di sangue contro coloro che ne hanno decretato la fine politica. Non sarà così. Con una puntigliosa nota diffusa nel pomeriggio, Marina Berlusconi ha ribadito "ancora una volta, e nel modo più categorico" di non aver "mai preso in considerazione l'ipotesi" di impegnarsi in politica.
     La pietra tombale messa da Marina Berlusconi su questa ipotesi non è una notizia irrilevante per gli equilibri di governo ma anche nel confronto interno al PdL. Senza la successione dinastica, che avrebbe di fatto congelato gli attuali equilibri, e in prossimità del ritiro di Berlusconi, il PdL diventa un partito contendibile dall'interno ma anche una forza spendibile in un rinnovato e più ampio sistema di alleanze. Si innescano dinamiche fra loro contrapposte e destinate, senza una forte coesione del gruppo dirigente, ad alimentare possibili spinte centrifughe con il rischio di scissioni. Il dopo-Berlusconi senza più un Berlusconi al timone del centro-destra è soltanto agli inizi, ma avviato ben oltre le intenzioni del suo protagonista.
     Dal vecchio gruppo dirigente del PdL nessuno sembra al momento in grado di riorientare la strategia del partito sul governo. Lo stesso Berlusconi, che agita la clava dell'IMU sul tavolo di un negoziato impossibile in nome di un' "agibilità politica" che nessuno, e Napolitano meno di altri, può assicurargli, sa di giocare una partita disperata il cui esito è solo in parte nelle sue mani. Può decretare la fine del "governo di servizio" ma sarebbe un azzardo politico dalle conseguenze imprevedibili. Una scelta simile presuppone un PdL coeso al di là di ogni ragionevole intenzione e pronto a seguire il suo leader nel precipizio elettorale dal quale riemergere, magari vincitore, ma in un quadro di macerie politiche e istituzionali.
     Senza trascurare il fatto che da una eventuale crisi di governo al voto ci sono passaggi non proprio irrilevanti da consumare. Come reagirà il presidente della Repubblica, risoluto a non sciogliere il Parlamento senza che abbia prima approvato la riforma elettorale? E quale riforma si può essere in grado di varare con una maggioranza ridotta a un lago di veleni? Aperta la crisi, quali dinamiche si mettono in movimento all'interno del Pd e in particolare del PdL?
Berlusconi non candidabile e fatto decadere dal Senato è un leader sul viale del tramonto politico. Ma sarebbe sbagliato considerare finita la sua influenza sulla società italiana che rimane intatta e, se possibile, accresciuta per via del martirologio cui lo hanno consacrato vent'anni di corride giudiziarie (difficile trovare un altro italiano che abbia, come Silvio Berlusconi, subito 41 processi 41 ...).
     La crisi di governo sarebbe l'atto finale di un leader disperato, un uomo solo che spara un colpo nella notte. Consegnarsi alla storia come colui che ha affondato un governo e condotto il Paese nel baratro finanziario come vendetta per i processi ingiusti subiti e le ingiuste condanne patite significa cancellare o collocare sotto un'altra luce il ventennio appena alle nostre spalle. Ma significherebbe anche marchiare la sua costruzione migliore - un centro-destra legittimato a governare l'Italia - di un'infamia che non merita ma che rischia di condizionarne la vita futura.
Quanti si apprestano a rivedere le loro strategie (vedi Casini) in funzione di un quadro politico che perde il suo dominus ventennale faranno bene a muoversi con prudenza. Il consenso elettorale di cui ha goduto e tuttora gode Berlusconi non è un'eredità trasmissibile. Essa non va conquistata, ma coltivata attraverso atteggiamenti e linee politiche solide e comprensibili. A cominciare da quella riforma della giustizia che ora, assente Berlusconi, nessuno potrà più cestinare o rimuovere con la scusa dei processi a Berlusconi. In fondo le leggi ad personam, a ben vedere, sono state la migliore polizza assicurativa per quella corporazione dei togati contraria a qualsiasi riforma ne mettesse in discussione privilegi e potere. Ora, senza più Berlusconi, non ci sono più alibi per nessuno. Neanche per il Pd.

venerdì 9 agosto 2013

PD-PDL, SCONTRO FRA DUE IMPOTENZE. SOLO LETTA PUÒ CONSUMARE LETTA


di Massimo Colaiacomo

"Non vogliamo un autunno caldo di tensioni sociali" ma una stagione "di riconciliazione con tutti quanti - giovani e lavoratori in primis - sono esasperati da quanto hanno vissuto". Erano le parole cariche di speranza, ma anche di qualche scongiuro, affidate dal premier Enrico Letta alla Tv greca Alpha alla vigilia del suo viaggio, il 29 luglio, nella capitale ellenica.
Quegli auspici sembrano evaporati, appena dieci giorni dopo. Oggi, presentando con i vertici di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) il piano industriale dell'ente, Letta ha mostrato l'altra faccia dell'autunno. "I segnali di crescita e ripresa ci sono", ma insieme ad essi il premier registra anche "il clima sociale molto faticoso e pieno di
difficoltà: è questo il rischio più grande per l'autunno". Con uno scenario incupito, i segnali di ripresa appena intravisti si attenuano fin quasi a scomparire quando Letta affaccia il timore, molto simile a una certezza, che, è vero, ci sarà la ripresa ma essa non trascinerà con sé maggiore occupazione come è nelle speranze di tutti.
Che cosa significa tutto questo? Significa che l'economia italiana ha toccato la parte bassa del ciclo economico e si prepara a beneficiare di un piccolo rimbalzo visibile però più sui grafici delle statistiche che non nella realtà delle famiglie e delle imprese. Significa, però, anche altro. Quando Letta si riferisce alla scarsità di lavoro che la ripresa potrebbe trascinare, non si rivolge a un interlocutore indistinto. Pensa a quella riforma strutturale del mercato del lavoro, chiesta esattamente due anni fa in quella sorta di "lettera scarlatta" inviata della BCE al governo Berlusconi e dimenticata nei cassetti di palazzo Chigi. Flessibilità, era la richiesta della BCE, in entrata e in uscita. E una riforma degli ammortizzatori sociali che ne abbassasse il costo e la durata, modificandone la natura di puro sostegno economico in strumento per il reinserimento nel lavoro. Si tratta, insomma, di adeguare il welfare alla crisi, e dunque renderlo sostenibile e socialmente meno punitivo verso quanti il lavoro non possono perderlo non avendolo mai trovato. Questa è la sfida che Enrico Letta ha rilanciato alle parti sociali e, in primis, a quella parte del sindacato (leggi Cgil)  dichiaratamente ostile a ogni ritocco della legge Fornero.
Questi è uno dei temi su cui l'esecutivo è atteso a una prova di coraggio e determinazione. Anche se le luci della ribalta rimangono tutte puntate sull'IMU, dopo che il Cav si è fatto vivo con un richiamo perentorio al governo: rispettare i patti firmati all'atto di nascita dell'esecutivo con l'abolizione della tassa sulla prima casa. Falso, è la replica piccata di Epifani: quei patti prevedono una rivisitazione dell'imposta con riguardo alle famiglie meno abbienti.
Per la verità, il discorso di insediamento di Enrico Letta prevedeva ogni soluzione per l'IMU. Con un lessico che più democristiano non poteva, Letta ha accennato alla necessità di "superare" l'attuale tassazione sulla casa (superare significa molte cose: perfino "abolire", termine ultimativo mai pronunciato da Letta o Saccomanni). E' dunque possibile che Pd e PdL vadano a un Armageddon sull'IMU e il governo va a casa a settembre?

GOVERNO CADE SULL'IMU? PRESSOCHÉ IMPOSSIBILE
La politica è il regno delle possibilità illimitate e, in assenza di ogni ragionevolezza o messi incidentalmente fra parentesi gli interessi corposi dei singoli protagonisti, delle cantonate sempre dietro l'angolo. Non pare però il caso dell'IMU. Le facce feroci e i toni perentori delle Santanché o della Carfagna come dello stesso Epifani sono concessioni alle rispettive tifoserie. Sul piano delle decisioni operativ si troverà, eccome si troverà, un accordo sull'IMU. Per esempio trasferendo ai Comuni la piena autonomia impositiva sugli immobili e quindi lasciando ai Sindaci la decisione finale sulla quale mettere la loro faccia. La cancellazione dell'IMU ope legis non ci sarà e il PdL non farà nessuna crisi. Non la vuole Berlusconi, anche se le fumisterie agostane con tutto il loro corredo di congetture e ipotesi fantasiose su Marina in campo, voto in autunno ecc. sono quanto mai utili per non lasciare che i cittadini possano appisolarsi sotto l'ombrellone.
L'unica decisiva partita dalla quale tutte le altre dipendono riguarda la cosiddetta "agibilità politica" che il PdL chiede di salvaguardare per il suo leader mortalmente ferito dalla condanna definitiva della Cassazione. Curioso come la stessa espressione "agibilità politica" sia fiorita sulle labbra del premier che l'ha invocata alla direzione del Pd osservando che se viene meno l'unità del partito viene giù il sistema. Se Letta si rivolge così al suo partito ha le sue buone ragioni: è dalle divisioni in quel campo che vengono le insidie maggiori all'esecutivo. Insidie non causate dalla sovrapposizione di strategie differenti ma, al contrario, dall'assenza di qualsiasi strategia. Scalzare Letta da Palazzo Chigi per fare che cosa? Per presentarsi agli elettori con quali alleanze di ricambio? E con quali programmi che non cadano sotto la mannaia del rigore di bilancio della Commissione europea?
Chi spera, o anche solo vaticina il voto anticipato in autunno come compimento di una strategia per conquistare il governo, vive fuori dalla realtà. Il solo Berlusconi, sopraffatto dalla disperazione per la condanna e risoluto a non fare passi indietro, può decidere di buttare giù il governo. Non lo farà, perché sa che ogni alternativa sarà peggiore dell'attuale. Se qualche carta ancora può giocare per salvaguardare la propria "agibilità politica" può farlo finché Letta sarà a Palazzo Chigi. Perché Letta a Palazzo Chigi è garanzia di Giorgio Napolitano al Quirinale.

giovedì 8 agosto 2013

IL SOCIALISTA SACCOMANNI SBAGLIA SULL'IMU E SBAGLIA DI BRUTTO


di Massimo Colaiacomo

L'imposta municipale (IMU) è nata nel 2011 come tributo sostitutivo dell'ICI, la vecchia imposta comunale sugli immobili. E' nata avvolta nell'ambiguità: prima il via libera della Commissione per il Federalismo, che l'aveva concepita come imposta comunale la cui applicazione, e i cui proventi, erano di esclusiva competenza dei Comuni. Poi, con le manovre del governo Monti, e in particolare con il cosiddetto decreto "salva ITalia", nel 2012, ha perso il suo originario significato di imposta di accompagnamento e sviluppo del federalismo fiscale per trasformarsi nell'ennesima, iniqua imposta d'emergenza per far quadrare i conti pubblici.
Le imposte in Italia nascono tutte così: sono ultimo treno per rincorrere la spesa pubblica che viaggia su un binario tutto suo. Le ipotesi messe in campo dal ministero dell'Economia, con la bocciatura perentoria della richiesta di abolizione dell'IMU sulla prima casa voluta dal PdL, sono il completamento di un pasticciaccio, ma anche il disvelamento di un imbroglio: l'IMU non è, o non è soltanto una tassa sul patrimonio, ma è un'aggravio dell'Irpef e quindi colpisce sull base del reddito. Si può dire, come rivela lo stesso Mef, che l'IMU ha effetti moltiplicatori della pressione fiscale dal lato del redditi ma con un'accentuata autonomia rispetto al valore del patrimonio immobiliare.
Quando Saccomanni afferma che l'abolizione totale dell'IMU sulla prima casa avrebbe effetti distorsivi sui redditi , con benefici che che aumentano con l'aumentare del reddito, trascura un piccolo dettaglio che pure si ricava dalle sue tabelle. 

Benefici derivanti dall’esenzione dall’ IMU sull’abitazione principale per classi di reddito complessivo dei proprietari
Soggetti (% su totale) Versamenti (% su totale)       Beneficio medio in euro
Fino a 10.000 28,10 23,31 187
da 10.000 a 26.000 42,37 36,77 195
da 26.000 a 55.000 23,51 27,89 267
da 55.000 a 75.000   2,82   4,79 382
da 75.000 a 120.000   2,18   4,40 455
oltre 120.000   1,01   2,83 629
    Totale 100,00       100,00         227


Questa tabella elaborata dal Mef dice molte più cose di quante non contengano le osservazioni dell'elaborazione del Mef stesso. Racconta, ad esempio, che la classe di reddito inferiore a 26 mila euro rappresenta il 42,37% dei soggetti titolari di IMU e contribuiscono per il 36,7% del gettito complessivo. La classe di reddito  compresa fra 55 e 75 mila euro di reddito rappresenta il 2,82% dei soggetti e contribuisce per il 4,79% del gettito complessivo (quindi in una misura superiore dell'60% alla percentuale dei titolari). La classe di reddito superiore ai 120 mila euro rappresenta appena l'1,01 dei soggetti e contribuisce per il 2,83% del gettito (cioè con un moltiplicatore di 3 rispetto al numero dei soggetti).
Scrive lo studio del Mef che l'abolizione totale dell'IMU sulla prima casa darebbe benefici minimi ai redditi più bassi (calcolati in 187 euro) e massimi ai redditi più alti (circa 629 euro per i redditi superiori ai 120 mila euro). E' difficile stabilire se al Mef si siano resi conto di ciò che hanno scritto. Se un reddito alto è gravato da un Irpef del 45% più contributi di solidarietà e quant'altro, è forse da considerare una bestemmia se recupera 400 euro in più rispetto al reddito più basso?
Seconda osservazione: proprio quella disparità di benefici è la controprova che il meccanismo dell'IMU, così come è stato congegnato, è un torchio che affianca la garrota fiscale messa in azione questi ultimi anni. La combinazione dell'imposizione fiscale in base al reddito, giusta e sacrosanta, è ancora giusta e sacrosanta se lo stesso criterio di progressività si trasferisce dal reddito al patrimonio? E perché non allora, potrà obiettare qualche socialista più realista di Proudhon, non rendere progressiva, sempre in base al reddito, anche l'imposta sulla nettezza urbana, sul consumo idrico, sul biglietto dell'autobus, dopo aver reso progressivo il ticket sanitario e il relativo regime di esenzioni?
La costruzione dello Stato socialista, vagheggiata nell'800 come una rivoluzione popolare da perseguire con mezzi violenti, ha imboccato nel nostro millennio la via più ambigua del fisco. Il concetto di progressività si è trasferito dalle imposte sul reddito alle imposte sul patrimonio e ai tributi. Alla violenza dei fucili  si è sostituita la più sfuggente ma non meno violenta forza autoritativa delle leggi. E tutto per tenere in piedi uno Stato moloch che divora il futuro dell'Italia in nome di un'emergenza sempre presente e mai passata.   






lunedì 5 agosto 2013

MAGGIORANZA PIÙ RISSOSA MA LETTA PIÙ INSOSTITUIBILE


di Massimo Colaiacomo

Il governo Letta si conferma quello che abbiamo più volte rilevato in questo blog: un frangiflutti meno precario di quel che appare se è vero che le ripetute mareggiate che lo scuotono non ne hanno scalfito più di tanto la prospettiva politica. Con ciò confermandolo come punto di equilibrio in un sistema di impotenze - Pd e PdL - costrette a una convivenza che diventa sempre più difficile ma, con il passare del tempo, sempre più obbligata.
Si sta parlando qui dello strano caso di un esecutivo la cui forza risiede nelle contraddizioni di fondo della  maggioranza che lo sostiene e i cui soci principali non hanno un'alternativa credibile alla convivenza forzata scaturita dalle urne e somministrata al Paese dal buon senso di Giorgio Napolitano. Uno scenario simile, però, ha messo solo in parte le ali alle politiche economiche e di bilancio del governo. Letta, a ragione, snocciola una serie di provvedimenti, ragguardevoli e importanti: dal rifinanziamento delle infrastrutture alla revisione complessiva della politica fiscale sulla casa; dal blocco dell'aumento dell'IVA (le cui coperture sono ancora da definire in maniera strutturale) agli incentivi alle imprese per l'assunzione dei giovani. 
Non gli si può dar torto: sono misure pesanti, e con un impatto notevole sulla congiuntura. Letta ha dato precedenza alle politiche di rilancio e lo ha fatto muovendosi sul sentiero stretto, ma reso meno angusto dopo l'uscita dell'Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, dei vincoli di bilancio. Perché allora si rincorrono le voci fra gli operatori finanziari e nelle cancellerie, non solo europee, su un autunno a rischio per l'Italia? La risposta è da leggere sui monitor degli operatori in Titoli di Stato: il debito pubblico italiano ha rotto soglie psicologiche importanti, raggiungendo la cifra ragguardevole di due trilioni e 50 miliardi di euro. Anche se i mercati fingono di non essersene accorti, dal momento che proprio oggi lo spread si è portato sotto la soglia dei 260 punti base con il Bund decennale tedesco.
Cosa è che rende un'incognita l'autunno del debito pubblico italiano? Il  timore di qualche operatore, ma anche di grandi banche italiane, è che la speculazione potrebbe essere tentata di mettere alla prova le difese dell'euro alzate nel luglio del 2012 dal governatore Mario Draghi. Il meccanismo OMT (Outright monetary transaction, in pratica acquisto illimitato di Titoli di Stato dei Paesi in difficoltà) ha fin qui agito da deterrente contro la speculazione. L'interrogativo è proprio qui: se la speculazione volesse saggiare la resistenza dlel'OMT che cosa accadrebbe allo spread? E davvero la BCE terrebbe fede all'annuncio di un anno fa? Acquisto illimitato è un'espressione retorica, perché nella realtà si tratta di acquisti limitati essendo l'OMT un meccanismo studiato per acquistare Btp, Bonos e Titoli greci con scadenza triennale e il totale di queste emissioni sfiora circa 450 miliardi di euro.
La decisione di Draghi lascia aperte altre non meno spinose questioni per l'Italia. Se la BCE concentra la sua difesa dell'Euro sui titoli "corti", non invoglia così la speculazione ad aggredire i debiti pubblici più vulnerabili sulla parte lunga, assai più sostanziosa e quindi anche più difficile da difendere per le risorse non illimitate della BCE? Su questo punto tutti tacciono, in attesa di capire come si pronuncerà, a settembre, la Corte di Karlsruhe davanti alla quale pendono diversi ricorsi contro l'OMT (su uno dei quali, presentato da Oskar Lafontaine, il Vendola tedesco, farebbe bene a svolgere qualche riflessione la sinistra italiana). Al giudizio della Corte tedesca si affiancherà quello degli elettori quando, il 22 settembre, si recheranno alle urne per scegliere il nuovo cancelliere.
E' in questo contesto europeo, in cui a motivi di turbolenza si affiancano ritrovati elementi di stabilità, che l'esecutivo italiano deve inserire il Documento di economia e finanza e dunque la manovra di politica economica che lo accompagna. Dopo la sentenza della Cassazione che ha chiamato il tie-brek di Berlusconi, all'esecutivo si è aperto qualche nuovo spazio di manovra politica. L'indebolimento vistoso del PdL, alla ricerca affannosa di un "ubi consistam" sul dopo-Cavaliere, ne ha anche minato le capacità negoziali con il governo. Capitoli spinosi come IMU e IVA restano tali, ma se ad essi si deve affiancare anche la riforma della giustizia Letta si ritrova una carta in più da giocare al tavolo del negoziato con i partiti. Nessuno scambio giustizia-fisco (sarebbe un suicidio politico-elettorale per il PdL) ma i conti con la realtà non si possono nascondere sotto il tappeto.
Oltre questo esecutivo, per il PdL c'è il salto nel vuoto e un avvitamento nella protesta populista più sbracata dalla quale non potrebbe sarebbe impossibile tornare indietro. Oltre questo esecutivo, per il Pd c'è il salto nel buio di un sistema di alleanze alla sua sinistra privo di numeri ma soprattutto politicamente avventuroso.
La sfida per Letta è riuscire a trasformare questa somma di impotenze in propellente per politiche di bilancio più incisive e con un respiro strategico. Se saprà piegare le ragioni della sua maggioranza agli interessi del Paese, con la promessa di un dividendo politico sostanzioso, Letta può percorrere l'intera legislatura. Salvo, è ovvio, gli scarti improvvisi di Matteo Renzi, un aspirante premier in affanno e da qualche tempo a corto di argomenti.

    

domenica 4 agosto 2013

LETTA VA AVANTI, MA SULLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA IL PD RISCHIA DI ESPLODERE


di Massimo Colaiacomo

Il berlusconismo è una pianta dalle radici ampie, ramificate e solide. Sradicare il tronco di quella pianta dalla vita parlamentare non è un'operazione indolore: né per il tronco, né per il Parlamento né per il Paese. Conforta ascoltare, dopo le reazioni urlate dei primi momenti, le voci tornate a farsi ragionevoli nel campo del PdL. La guerra civile non avrà luogo per la condanna di Berlusconi, semmai un simile rischio potrebbe essere alle porte con la caduta del governo Letta, come ha osservato il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.
A Berlusconi giungono in queste ore parole di solidarietà e di comprensione da quel vasto arcipelago che comprende i possibili, futuri soci di un centrodestra rinnovato: da Montezemolo a Casini a Monti. Interessate quanto si vuole, le reazioni di questi protagonisti convergono però nel riconoscere l'accanimento giudiziario contro Berlusconi e la necessità di riformare la giustizia. Esse danno voce  al sentimento di forte preoccupazione che percorre tutto il quadro politico, con conseguenze però molto diverse. Se la condanna di Berlusconi ha visto ridursi gli attriti polemici fra il centrodestra e le formazioni centriste, essa ha invece ulteriormente inasprito lo scontro interno al Pd le cui correnti, fino a ieri tenute insieme dall'antiberlusconismo, sono oggi divise sulla gestione del post-berlusconismo. Matteo Renzi, come si sa, tiene sotto tiro il governo e ripete che esso va avanti "se fa" quel che serve al Paese, a prescindere dalla vicenda giudiziaria di Berlusconi. A Bersani, invece, voci di corridoio attribuiscono l'intenzione di far dimettere Letta in contrasto con il PdL così da averlo disponibile come candidato del centrosinistra e bloccare così la candidatura del sindaco di Firenze. Sono, come si vede, manovre asfittiche da parte di un ceto politico perso dietro miserevoli tattiche per sopravivvere a se stesso. Da qui vengono le insidie maggiori per Letta il quale, da politico avveduto e mal disposto a certi giochi, tutto può pensare tranne che di autoaffondarsi per risorgere candidato a capo di una coalizione di sinistra che dovrebbe comprendere anche i suoi attuali oppositori, come Vendola.
C'è da osservare che quella dell'antiberlusconismo è diventata, dopo la Cassazione, una carta farlocca se davvero la crisi politica dovesse avvitarsi e sfociare nel voto anticipato, ipotesi remotissima allo stato dell'arte. Come si potrebbe usare, per vincere, quella carta nel momento in cui si andasse alle urne e quindi a caccia dei voti moderati e fino a ieri berlusconiani? Di questi e simili interrogativi si nutre lo scontro infuocato dentro il Pd.
Ha ragione Casini, che lo conosce da una vita e ha imparato, anche a sue spese, ad apprezzarne le doti di tempismo e intelligenza politica, quando profetizza le dimissioni di Berlusconi da senatore. E' il modo più spedito per rimuovere ogni ostacolo sulla via del governo e incanalare quella riforma della giustizia in assenza di colui che viene ritenuto il principale beneficiario. Con Berlusconi fuori dal Parlamento, Grillo, Vendola e il Pd dovranno trovare altri alibi per opporsi a ogni riforma della giustizia. In particolare, il Pd dovrà mettere sul piatto della bilancia la vita del governo Letta: senza quella riforma, si offre al PdL un'autostrada per le urne dove potrà arrivare sbandierando la connivenza fra un pezzo della magistratura e la sinistra di origine comunista. E, c'è da giurare, non sarebbe un buon viatico per quella platea elettorale che, sfuggita alle sirene berlusconiane, ritiene tuttavia necessario ripristinare un equilibrio fra la politica e la magistratura.
Come si vede, da qualunque lato si guardi alla scena politica in queste ore, è difficile per chiunque immaginare una corsa verso il voto perché, in queste condizioni, equivarrebbe a una corsa verso il vuoto. Non è interesse di Berlusconi, per le considerazioni fatte. Non lo è del Pd, diviso al suo interno e a un passo dalla deflgrazione. Letta può andare avanti, facendo salire di importanza nella sua agenda la riforma della giustizia e, si può scommettere, ritrovando maggiore libertà d'azione nelle politiche fiscali e di bilancio la cui importanza da oggi sarà meno rilevante nei calcoli politici del PdL. Questo riequilibrio nei programmi di governo e nelle prospettive politiche della legislatura è un passaggio difficile, superato il quale la scena politica potrebbe presentarsi completamente rinnovata, come e più di un passaggio elettorale.
Per centrare questi obiettivi sarà ancora una volta decisivo il ruolo del presidente della Repubblica. Dai suoi stimoli e dai suoi input sempre meno esortativi e sempre più vincolanti dipenderanno le sorti della legislatura.

venerdì 2 agosto 2013

CIELO PLUMBEO SULLA LEGISLATURA MA BERLUSCONI NON È SANSONE (E I FILISTEI NON SONO QUELLI DI UNA VOLTA)



di Massimo Colaiacomo

     Con la sentenza della Cassazione è calato il sipario sulla lunga stagione politica di Silvio Berlusconi. Il tycoon più estroso e imprevedibile, si è rivelato anche il politico più estroverso, geniale e inconcludente nella storia italiana di questi anni. La stagione del berlusconismo non sarà agilmente archiviata insieme al suo ideatore, gli sopravviverà ancora per qualche tempo per diventare terreno di caccia elettorale per coloro che aspirano a raccoglierne l'eredità. Perché, va detto per verità di cronaca, buona o cattiva che possa sembrare, Berlusconi lascia un'eredità elettorale cospicua, nettamente superiore a quella politica.

     Ha ragione il direttore della Sir, l'agenzia dei vescovi italiani, Domenico Delle Foglie, quando coglie nella sentenza della Cassazione l'amplificazione abnorme di una contraddizione insanabile: il quadro politico resta appeso al cardine di Berlusconi e le forze di maggioranza si rivolgono all' "immorale" Berlusconi per chiedergli di comportarsi "virtuosamente" a sostegno di Enrico Letta.
     Quanto è accaduto venerdì sera, con i gruppi parlamentari del PdL pronti a dimettersi se Napolitano non dovesse concedere la grazia, ha offerto una scena a dir poco sconfortante se dietro a essa non ci fosse la regia politica accorta di Berlusconi. Il quale, amareggiato e avvilito quanto si vuole, è fra i pochi protagonisti di queste ore, con Gorgio Napolitano ed Enrico Letta, a conservare il sangue freddo necessario per pilotare la nave in porto.
     Allora perché la sceneggiata, ridicola più che avvilente, dei parlamentari che insorgono e minacciano l'Aventino? Beh, intanto perché il Cavaliere (anche questo titolo, caro ai suoi avversari che potevano così associarlo al Cavalier Mussolini, è a rischio dopo la condanna della Cassazione) doveva concedere qualcosa alla platea dei descamidos che affollano il suo elettorato. Ma Berlusconi non è ingenuo fino al punto da ignorare che la grazia chiesta in quel modo così plateale e minaccioso può solo ottenere il rifiuto imbarazzato del Capo dello Stato, regalandolo così ai suoi avversari. Il Cav ha comunque lasciato libertà di strepito ai Brunetta e agli Schifani per meglio ritagliarsi il ruolo del pacificatore, pronto a discutere di riforma della giustizia e a proseguire nel sostegno al governo Letta.
     Di riforma della giustizia ha parlato il presidente della Repubblica, un istante dopo la lettura della sentenza della Cassazione. Il Pd è cauto su questo terreno perché sa che c'è una mina impossibile da rimuovere: a ogni riforma della giustizia, sotto qualsiasi latitudine, al momento della sua promulgazione viene associato un atto di amnistia e indulto. È così da sempre, e a maggior ragione lo sarebbe nell'Italia del 2013 con le carceri sovraffollate e più volte sanzionata dalla Commissione europea. Si tratta di un percorso talmente scontato che Beppe Grillo ha stoppato qualsiasi ipotesi di riforma fra Pd e PdL contro la quale si è detto pronto a fare le barricate.
     È nel Pd, però, che la condanna definitiva di Berlusconi rischia di provocare lo sconquasso maffiorerà. Epifani, con aria quasi soave, ha detto che quella sentenza promette di dare una svolta profoprofila politica italiana, con ciò ammettendo che soltanto un tribunale era in grado di fermare quella macchina di consensi elettorali chiamata Berlusconi. Parole che non devono essere piaciute a Matteo Renzi, convinto come pochi nel suo partito che Berlusconi andasse sconfitto alle urne e non per via giudiziaria.
     Lo strepito di queste ore fa tremare la terra sotto i piedi di Enrico Letta e il governo balla come un aereo in mezzo alla turbolenza. Da qui a lasciare quella macchina senza un pilota ce ne passa. Berlusconi lo sa: sa che sul piano emotivo troverebbe una forte risposta elettorale e, probabilmente costringerebbe il Pd a un nuovo pareggio. Ma dopo? Dopo l'ennesima sfida elettorale cambierebbe qualcosa nella sua posizione di condannato in via definitiva? Nulla potrebbe mai mutare dopo la pronuncia della Cassazione. Per questa ragione, il Cav sa di dover giocare le poche carte di cui dispone in questa legislatura e con questo governo. Ogni subordinata presenta incognite più numerose e insondabili rispetto all'attuale, precario quadro. Ecco perché il peso maggiore di quella sentenza sta tutto sulle spalle del Pd. Renzi vuole ancora sconfiggere Berlusconi alle urne? Il Pd si accontenta di vedere Berlusconi fuori dal Parlamento oppure vuole far calare il sipario sull'intera stagione del  berlusconismo? Se questi due obiettivi sono ancora sui monitor di Renzi e del Pd, allora hanno bisogno di Berlusconi ancora in pista. Senza di lui, probabilmente sarebbe piccola cosa il terremoto visto in queste ore. Perché un'onda sismica, un vero e proprio tsunami sarebbe pronto in tal caso a investire il Pd e a spaccarllorda vecchi, giovani Dc e vecchi esponenti del Pci. Che sarebbe come dire guardare al 1992 e concludere, vent'anni dopo: "stavamo dicendo?"