martedì 29 novembre 2016

EN CHANGEANT LA FRANCE, FILLON PEUT CHANGER L'EUROPE


par Massimo Colaiacomo

     Peut-être il ne sera pas l'homme du destin, mais sûrement François Fillon peut être l'homme just qui rassemble les Français autour un nouveau project politique qui affranchie le Pays des plus récent grisaille, de la baisse croissance, de l'égarement social et, en definitive, de la perte d'identité. Ces sont les multiples signals qui sont arrivés par le ballottage aux élections primaire du dernière dimanche. Un pays désanchanté a retrouvé soi-même merci à la mobilisation sans pair pour rejoindre le bureau de vote et choisir Monsieur Fillon comme défiant des autres candidat au prochaine élections présidentielle.
     Que-est ce que veut dire tout ça? Ça peu représenter beaucoup des choses, mais surtout signifier que le refus de la politique n'est pas une maladie incurable, au moins en France. Fillon est réussi à convaincre plus que 4 millions de français à se rendre aux bureaux de vote pour choisir le candidat de droite aux élections présidentielle de 23 april. Il s'agit d'un premier signal de fiance retrouvée dans la possibilité de changer les choses sans confier ses espoirs à les sirènes du populisme ou de nationalisme sans autre horizon politique. C'est vrai, comme a observé quelque analyste, que l'Europe ne représente un chapitre important ni le principal dans le programme de Fillon, mais les rares lignes y dédié sont suffisantes pour donner une idée claire sur le point de vue de Fillon. Stop au Traité de Maastricht, au moins dans la vision jusqu'ici donnée par l'Allemagne et les autres Pays du Nord-Europe, et plus d'espace aux intérêts national dont leur somme doit sortir une autre Unione Européenne.
     Mais encore plus importante parâit-il le sentiment de la différence avec la droite de Marine Le Pen. Madame Le Pen représente aussi bien le côté social qu'elle se peut, à juste titre, s'établir comme une petite partie de l'héritage gaulliste. Fillon promet de dépasser celle héritage-là ou, au moins, de la renouveler suivant la défi de la globalisation et alimenter une nouvelle dimension du liberalism qui doit se mettre au croisement entre les intêréts nationaux et les exigences du libre marché. Fillon se promit une forte destatalitation, en recourant à la réduction des employés et des fonctionairs, une relance des professions libérales et une générale baisse des taxes.
     Il s'agit de la même surenchère qui précéde les elections? C'est très difficile de le penser, encore plus difficile de le croire. Parce-que Fillon se trouve au point plus haut de sa parabole politique. Il joue sa reputation, pas seulement devant les Français mais surtout devant l'Europe. Il doit réaliser au moins une bonne partie des ses engagement s'il veut vraiment changer la France. Et un changement en France déviendra, qu'il plaire ou non, le changement de l'Europe comme nous l'avons jusqu'ici connue et souffrie.    

IF RENZI WINS, IF RENZI DEFEATED



by Massimo Colaiacomo

     Picking personalized the referendum, PM Matteo Renzi have put his personal fate on the balance. Right or wrong, that choice marked the campaign for all time. The unavoidable consequences having everyone's eyes on one: voter are going vote next 4-th december to decide the stability of present government or his eviction. Renzi is aware of that but nevertheless he carried on his project until last minute, putting voter toward turning point: if YES will win, the government can carry on his job, on the contrary PM will be ready to pass the hand.
     In that case, it will be to the Republic's President resolving the tangle of crisi that would announce really intricate. In favor of Renzi plays people's boredom for the old ruling class. The main old leader as Berlusconi, D'Alema, Monti are favorable at NOT on the constitutional referendum. In the leaflet sent to the million people, all former PM are picked up on the ideal bunch and charged having blocked any reform for last 30-th years. It matter of hard and persuasive image, although many voters are convinced of the contrary. Main problem of PM has been inadequate answer to the economic and social crisis and Italy is going through a bad moment in financial market on the grounds that is increased the spread with T-Bond until 190 basis-point. This circumstance will have inevitable consequences on the public debt. This one or next government could be forced definitely to adopt a new budget.
     A big picture of Italy's problem shouldn't allow at the moment mistake or lack of attention on the running of public debt. Market monitor trend of spread and will be ready for a new speculation against Italy's bond if the referendum's outcome should punish the present government. Although the experience show that speculation move in advance compared with events. Anyway, the opposition criticize the PM for his campaign too much arrogant, carried on without care for other parties. The economic pledge undertaken by PM are really heavy for treasury. None of the opposition's party has prompt the possibility a new heavy budget after vote of 4-th december. If Renzi win or will be defeated, all chickens of public debt come home to roost.            

lunedì 21 novembre 2016

PERCHÉ IN FRANCIA E GERMANIA E NON IN ITALIA


di Massimo Colaiacomo

     Il primo turno delle primarie di centrodestra in Francia hanno dato un risultato inatteso in Europa ma, forse, non imprevisto dall'opinione pubblica francese. François Fillon, ex primo ministro di Sarkozy, ha dato scacco matto al suo vecchio dante causa e all'altro candidato Alain Juppé. Sarkozy si è fatto da parte, ancora una volta, e sembra non più intenzionato a risorgere dalle sue ceneri. Al secondo turno, secondo i pronostici, Fillon dovrebbe spuntarla largamente su Juppé. Significa che il prossimo aprile, quando la Francia sceglierà il nuovo presidente della Repubblica, il centrodestra dovrà combattere fino all'ultimo voto per avere la meglio sulla candidata del FN, Marine Le Pen.
     Chi avesse immaginato la signora Merkel pronta a fare gli scatoloni per sgombrare gli uffici della Cancelleria, dovrà ricredersi. La cancelliera ha annunciato la sua intenzione di candidarsi per un quarto mandato, proprio come il suo padre politico, Helmut Kohl, con l'obiettivo di fermare i populisti e impedire che una loro affermazione accentui la disgregazione già avanzata del progetto europeo. Merkel non ha indicato nella Spd il suo bersaglio, proprio come, in Francia, Fillon non ha indicato nel Ps il suo concorrente. Entrambi i candidati conservatori, a Berlino come a Parigi, hanno i loro avversari più agguerriti sulla destra e imposteranno su di loro le rispettive campagne elettorali.
     Quello che in Italia si vorrebbe unire, Salvini, Meloni e Forza Italia, è radicalmente diviso nel resto d'Europa. L'anomalia italiana, perché di anomalia si tratta, ha molte cause ma la fine dei partiti politici organizzati è stata la prima e più importante causa dello sfarinamento del sistema politico e della rappresentanza parlamentare. Nel vuoto creato da Tangentopoli ha messo radici il populismo nelle sue differenti versioni: da quello soft di Berlusconi e di Renzi a quello hard di Grillo e di Salvini. La fine dei partiti politici come canali di raccolta del consenso e come luoghi di formazione del ceto politico ha lasciato uno spazio enorme al proliferare di un'offerta politica via via più scadente, sempre più intrisa di demagogia a buon mercato. Questo risultato è stato ulteriormente aggravato dal tramonto della stella berlusconiana e dalla crescita proporzionale del populismo leghista e del vetero-statalismo di Fratelli d'Italia.
     Il referendum del 4 dicembre, presentato come lo spartiacque fra un passato irredimibile e un futuro carico di speranze, si presenta, in questa cornice, soltanto come un'altra tappa nell'evoluzione della strategia populista che ormai avvolge la politica in Italia. Chiunque uscirà vincitore, rimane irrisolto il problema di fondo di un ceto politico inadeguato e della conseguente incapacità del Parlamento di scrivere una legge elettorale che consenta di selezionare, attraverso il voto popolare, una nuova generazione del personale politico in grado di misurarsi con le sfide culturali e politiche di questo tempo. Sullo sfondo rimane la questione decisiva: rimettere in piedi i partiti politici, e le culture che essi hanno rappresentato con alterne fortune per oltre 50 anni, è il primo passo senza il quale qualsiasi riforma della Costituzione e delle istituzioni sarà nel segno della precarietà.
     È molto difficile immaginare una svolta nella crisi italiana se le forze politiche residue continuano a inseguire le capriole di Beppe Grillo, consegnandosi in questo modo a un'irrilevanza del tutto simile al proprio necrologio. Continuare a illudere gli italiani che il limite dei mandati parlamentari è la panacea ai problemi del Paese è da irresponsabili e se Renzi la pensa come Grillo sbaglia a credere di potere in questo modo prosciugare l'acqua in cui nuota. L'ubriacatura populista ha sfibrato il coraggio anche in chi ne aveva impedendogli di constatare quello che il buon senso  suggerisce, e cioè che i Paesi europei dove la crescita economica è solida e ridotta l'area di conflitto fra la società e la politica sono quei Paesi governati da un ceto politico di grandi professionisti. Merkel, Rajoy, Hollande oggi e, forse, Fillon domani, come Theresa May a Londra, sono tutti politici di lungo corso, persone che hanno vissuto e vivono di politica in quanto hanno una conoscenza solida e profonda della macchina statale, dei dossier principali di politica economica e di politica internazionale. Esattamente il contrario di ciò che accade nel villaggio Italia.  

martedì 15 novembre 2016

NON PARISI MA LA LEGGE ELETTORALE È IL BERSAGLIO DI BERLUSCONI. E RENZI SPERA


di Massimo Colaiacomo


     Se ancora qualche dubbio residuava, dopo le parole di Silvio Berlusconi a Radio anch'io ogni incertezza cade: Stefano Parisi non sarà mai il Sarkozy o il Juppé italiano. Allo stesso modo, Forza Italia non sarà mai come i Repubblicani del centrodestra francese o i conservatori inglesi. Troppo diversa è la geografia politica italiana, troppo diversi i suoi protagonisti impegnati in sfide sempre al penultimo sangue salvo brevi tregue, fragili e precarie quanto basta per riaccendere lo scontro. L'anziano leader di Forza Italia ci ha messo del suo, come sempre ha fatto lungo tutta la sua parabola politica. Ogni volta che un pretendente alla sua leadership si affaccia sulla scena, Berlusconi tira fuori dal cilindro un delfino, lo battezza, e poi lo dà in pasto, oggi alla spavalderia di Matteo Salvini, come ieri immolava Casini alle ambizioni di Fini.
     Questa volta, però, Berlusconi ha scelto di scuotere con più veemenza il suo campo politico. Dopo un'intervista al Corriere della Sera, la settimana scorsa, in cui prendeva le distanze del populismo leghista con tono perentorio, sabato scorso ha inviato un caloroso messaggio alla manifestazione di Stefano Parisi, a Pavia, per incoraggiarlo nel suo percorso. Stamane l'altolà, lo stop brusco: Parisi non sarà mai leader di alcunché a causa dei suoi contrasti personali con Salvini. Una tattica in apparenza omicida-suicida: tagliare le gambe a Parisi e lasciare campo libero a Salvini ad appena 20 giorni dal voto referendario non restituisce più a Berlusconi la centralità nel centrodestra, sempre riconquistata in passato con questo stratagemma, e lo mostra invece nelle vesti di un leader confuso e in affanno. Questa tattica offre all'opinione pubblica l'immagine di un campo politico devastato da incendi e ambizioni personali, da rancori vecchi e nuovi, insomma se ne ricava l'idea di forze politiche incapaci di andare oltre il NO al referendum confermativo. L'elettore si chiede, smarrito, come possano forze che si combattono ogni giorno presentarsi come un'alternativa al governo Renzi. La domanda del tutto legittima è: quanto di questo è deliberatamente voluto da Berlusconi, sapendo che a trarne giovamento può essere soltanto la sfida referendaria lanciata da Renzi?
     Chi strologa sulle intenzioni dell'anziano leader di Forza Italia lo fa a buon diritto. Poiché Berlusconi ci ha abituato a non sottovalutare mai il senso delle sue scelte, il congedo alle ambizioni di Parisi si carica di un significato politico ben preciso. Berlusconi ha bisogno di rassicurare i suoi ex alleati Salvini e Meloni che mai, dopo il 4 dicembre, ci sarà una riedizione del Patto del Nazareno o di qualcosa che possa sia pur vagamente rassomigliargli. Questa rassicurazione non impedisce a Berlusconi di trattare sulla legge elettorale e di riaffermare la sua preferenza per il sistema proporzionale ampiamente indigesto a Salvini ma gradito molto a Beppe Grillo e non del tutto escluso da Matteo Renzi.
     Quale che sia il convincimento di Berlusconi, il bersaglio delle sue affermazioni non è Stefano Parisi, bensì la possibilità, dopo il 4 dicembre, di ammansire il suo campo politico e trattare con Renzi o con quel che sarà una riforma elettorale capace di salvaguardare gli spazi politici di Forza Italia. Berlusconi sa, come anche Renzi sa, che dai grillini è pronto a venire semaforo verde a una riforma elettorale il già proporzionale possibile. Il che assicura una larga maggioranza parlamentare, anche se più accidentata appare la strada di un governo che ne sia in qualche misura espressione.
     

mercoledì 9 novembre 2016

LA GRANDE RISACCA


di Massimo Colaiacomo

     Il presidente della Fondazione per il premio Nobel, Carl-Henrik Heldin, è andato in depressione a causa delle vittoria di Donald Trump foriera, a suo giudizio, di un allontanamento del mondo "dal pensiero logico e dal razionalismo". Non è messa meglio la ministra tedesca della Difesa, Ursula von der Leyen, vittima di uno "shock", confermato peraltro dal seguente giudizio. "Io credo - ha detto la serafica ministra - che Trump sappia che questo voto non è per lui ma è contro Washington". Esatto: contro Washington, ma per Trump a Washington.
     Scorrere sulle agenzie le reazioni nel mondo alla vittoria inattesa ma non inaspettata di Donald Trump è un esercizio molto utile per capire come si è spostato in politica il confine fra la realtà e la sua rappresentazione. Dalla soddisfazione di Putin e dagli applausi della Duma, alle congratulazioni calorose di Mariano Rajoy e Theresa May, per non ignorare le parole di elogio dell'egiziano Al-Sisi, il ventaglio dei giudizi reca una frattura evidente: da un lato i "realisti", coloro che guardano le tabelle dei risultati, prendono atto della volontà del popolo americano, e si congratulano con il vincitore. Dall'altro lato, i "visionari", cioè i sacerdoti del pensiero pettinato, inclini alla sentenziosità moralisteggiante e con l'indice perennemente alzato per indicare la retta via sulla quale incamminare i  popoli. Questi due campi quasi esauriscono lo spazio delle reazioni, lasciando uno spazio residuale alle posizioni "terze", quale è ad esempio il "rispetto" del voto annunciato da Renzi. Il quale ha tentato, con una certa ingenuità, di cavalcare il voto americano per spiegare che chi vota NO alla riforma costituzionale vota per la casta (Renzi-Zelig è pronto a diventare anche un supporter di Trump?)
     La vittoria di Donald Trump, eletto 45° presidente degli Stati Uniti, giunge come un grande reset negli equilibri mondiali, un po' meno in quelli americani. I timori di un America votata al neo-isolazionismo affiorati nei primi commenti, sono forse esagerati e comunque non infondati se Trump dovesse anche solo in parte continuare la politica estera di Obama, vero apripista dell'isolazionismo americano (vedi alle voce Medio Oriente, Siria, Israele, Isis). Le prime parole di Trump sono significative: cercherò alleanze e non conflitti. Vladimir Putin trattiene la soddisfazione, ma a Bruxelles, a Berlino, a Parigi dovrà iniziare molto presto una riflessione "strategica" sull'Europa rimasta, dopo la notte di ieri, un'idea in cerca d'autore. La riduzione del conflitto con la Russia e l'invito, più volte indirizzato all'Europa a un maggior impegno finanziario per la propria difesa,  sono il segnale di un mutamento importante nelle relazioni fra le due sponde dell'Atlantico. Che cosa è l'Europa senza lo scudo americano e la Nato nei confronti della Russia? Un interlocutore debole, un territorio dove costruire una vasta zona d'influenza russa?
     Trump non darà risposte immediate agli interrogativi che corrono nelle diverse cancellerie. Chi dice che non ha un programma ma solo vaghe idee sulle grandi questioni internazionali, evidentemente non ha seguito la campagna elettorale. Forse non ha chiaro il punto di approdo, ma sicuramente Trump ha già tracciato i sentieri da battere in politica estera. L'America penserà di più a se stessa, anche se questo non significa che abbandona la sua strategia di alleanze. Può invece voler dire che l'Europa si trova davanti al bivio: uscire dal limbo in cui si è cacciata dopo la nascita dell'Euro, e quindi riprendere la via maestra dell'integrazione su tutti i piani, a cominciare dalla difesa e dalla sicurezza; oppure proseguire nella deriva attuale e diventare un'area cuscinetto sotto l'occhio vigile di Mosca. L'ipotesi di un'Europa mediatrice e "terza forza", ora che si profila la ripresa di un dialogo Usa-Russia, non ha senso alcuno sul piano politico. Se l'Europa vuole sopravvivere e ritrovare un senso in un mondo che si prepara a ricostruire i propri equilibri, deve coltivare l'ambizione di una unità politica e militare. Diversamente la grande risacca, esito imprevisto di vent'anni di globalizzazione, finirà per travolgere il vecchio continente.   

domenica 6 novembre 2016

RENZI E BERLUSCONI VERSO LE COLONNE D'ERCOLE DEL 5 DICEMBRE



di Massimo Colaiacomo

     L'accordo trovato con Gianni Cuperlo sulle modifiche alla legge elettorale ha un valore simbolico decisamente superiore agli effetti pratici. Esso è utile a Renzi per mostrare all'esterno ma, soprattutto, all'interno del PD che egli nutre intenzioni serie e intende muoversi con lealtà verso i suoi avversari. Quell'accordo è servito soprattutto per rilanciare il duro attacco, rivolto oggi dalla Leopolda, contro Bersani, D'Alema e la vecchia guardia in genere accusata da Renzi di utilizzare il referendum come terreno di rivincita contro di lui. La spavalderia del premier va però assumendo un segno diverso a mano a mano che si avvicina la data del 4 dicembre. Renzi si muove senza più il conforto dei sondaggi, quasi tutti negativi per il SÌ, e fischietta come il tale che si muove al buio e deve darsi coraggio per affrontare l'ignoto.
     Il 5 dicembre rappresenta in qualche misura le colonne d'Ercole che il premier spera di varcare per guadagnare il largo della legislatura. Hic sunt leones, recitavano le antiche carte geografiche per indicare al viaggiatore che stava per inoltrarsi in territori inesplorati e infidi. Renzi sa che un esito negativo del referendum aprirebbe scenari inesplorati per affrontare i quali dovrà affidarsi alla bussola come sempre in questi fornita dal Quirinale. A questo scopo risulta per lui fondamentale aver trovato una mezza apertura nella minoranza del PD sulla legge elettorale perché questo significa aver imbastito un mezzo canovaccio per il dopo referendum.
     L'altra metà è nelle mani di Silvio Berlusconi. Il vecchio leader di Forza Italia sta giocando, come di consuetudine, su diversi tavoli. Si è schierato decisamente nel campo del NO, avendo chiaro che la bocciatura del referendum potrebbe chiudere una partita politica, azzoppando Renzi, ma ne aprirebbe un'altra ancora più complessa nel centrodestra temporaneamente riunito nell'assalto al governo. Non è un caso se Berlusconi continua a martellare sulla necessità, all'indomani di una vittoria al referendum, di riscrivere almeno una legge elettorale se non addirittura rimetter mano alla riforma costituzionale appena bocciata. Gli alleati appena ritrovati su questo punto sono irremovibili: Salvini e Meloni si muovo all'unisono contro ogni ipotesi di sostegno esterno o di astensione rispetto a un nuovo governo imperniato sul PD. Né appare plausibile la soluzione di un esecutivo tecnico o istituzionale incaricato di trattare una materia per eccellenza "politica" come la legge elettorale: su questo punto anche Renzi si è espresso con forza escludendo anche solo la possibilità di un "governicchio tecnichicchio".
     Molti indizi lasciano intravvedere, nel caso di un'affermazione del fronte del NO, che sarà ancora una volta il principio dell'eterogenesi dei fini a prevalere sui calcoli delle forze politiche.  Renzi e Berlusconi saranno costretti a trovare un accordo che sarebbe, forse ancora più del Nazareno, di mutuo interesse e, proprio per questo, ancora più ostacolato dai rispettivi alleati, almeno in una fase iniziale. Salvo rendersi conto tutti, da Salvini a Meloni a Grillo, che riscrivere la legge elettorale è un po' sottoscrivere la polizza assicurativa per la prossima legislatura. Se mai qualcuno degli attuali leader ne avesse voglia, potrebbe sfogliare qualche pagina di un vecchio libro di Giuseppe Maranini "Storia del potere in Italia" e scoprire che è un volume sulla storia dei meccanismi elettorali sperimentati nell'Italia post-unitaria. La legge elettorale come distributore di potere legittimo. Difficile sottrarsi alla sua scrittura.

venerdì 4 novembre 2016

4 NOVEMBRE 2016


di Massimo Colaiacomo


     È una giornata qualsiasi, e lo è diventata ormai dal lontano 1977 quando, a seguito della crisi petrolifera, così allora venne spiegata la decisione, la Festa del 4 novembre venne depennata, con altre festività, dal calendario. Non conosco, ammesso che esistano, sondaggi specifici sul significato che l'opinione pubblica accorda a questa data. Ma dalle dichiarazioni rese dai vertici istituzionali e di governo, emerge una idea precisa: è la Festa della Patria, e tutti esprimono gratitudine e riconoscenza alle Forze armate. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha deposto una corona d'alloro al Sacrario dei caduti, a Redipuglia, più esattamente sulla tomba del duca Amedeo di Savoia-Aosta.
     La rimozione della festività dal calendario non ha intaccato il sentimento già flebile che circonda questa data e il suo significato. Festeggiare la fine della Prima guerra mondiale, grazie alla quale l'Italia coronò il sogno risorgimentale dell'unità nazionale, era un tabù già da alcuni decenni, ben prima della soppressione della festività. Per un complesso di cause ampiamente conosciute: il timore, ad esempio, che concetti come la Patria e la Nazione potessero rianimare le ombre del ventennio fascista la cui retorica si abbeverò a quelle fonti, come ogni regime autoritario del '900.
     Per alcuni aspetti, la Germania si è trovata ad affrontare problemi simili anche se la riunificazione tedesca, il 9 novembre 1989, conseguita senza sparare un solo colpo ma solo grazie alla dissoluzione dei regimi  comunisti, è oggi motivo di festeggiamenti senza troppi retropensieri o pregiudizi. Essa, si può dire, appartiene a un'altra categoria del concetto di Nazione. Il basso profilo scelto dalla politica e dalle istituzioni italiane per la festa del 4 novembre affonda le sue radici in un humus culturale e politico tutto interno alla storia italiana. La debolezza del sentimento nazionale, mai coltivato fino in fondo da nessun governo e tenuto rigorosamente fuori dall'uscio della scuola, luogo dove si forma la coscienza civile e si allena il giudizio critico delle generazioni, non è stata mai avvertita come un problema da chi ha governato l'Italia.
     L'idea che una Nazione sia diventata tale grazie a una guerra sanguinosa, e vinta lasciando centinaia di miglia di morti sul terreno, non è mai stata accettata dalle ruling class italiane e, di riflesso, non è mai stata ritenuta parte del patrimonio fondativo della coscienza nazionale da trasmettere, come ogni patrimonio, alle generazioni che arrivano. I francesi festeggiano uno dei più grandi massacri della storia, la presa della Bastiglia, e ne hanno fatto il simbolo dell'unità della Nazione nata così all'insegna della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità. I coloni americani si sono rivoltati contro la madrepatria Inghilterra per conquistare la loro indipendenza e festeggiano il 4 luglio, come a Parigi si festeggia il 14 dello stesso mese. La Francia non festeggia la fine della Seconda guerra mondiale o la caduta del regime di Vichy, circostanze che restituirono la libertà ai francesi né più né meno come il 25 aprile restituì la libertà agli italiani. Ma sono vicende troppo diverse: se non fosse mai esistita una Nazione italiana, non si sarebbe mai posto il problema della libertà degli italiani.  Il 4 novembre 1918, quando le campane delle Chiese si sciolgono per annunciare la fine della guerra, è il certificato di nascita di una Nazione e onorare la memoria di chi ha combattuto per costruirla e trasmetterla a noi è un atto di appartenenza alla comunità nazionale che ogni cittadino dovrebbe fare, per consapevolezza personale oppure perché indotto da chi quella consapevolezza ha il dovere istituzionale di diffondere.
     Nulla di tutto questo è mai accaduto in Italia. Se una nazione, come ammoniva Ernest Renan all'indomani della disfatta di Sédan, è il sentimento dei sacrifici compiuti per stare insieme e di quelli che si è disposti a compiere per rimanere insieme, è facile e drammatico constatare come quel sentimento non è mai stato costruito nel nostro Paese. La fragilità dell'Italia, del suo sistema economico, come le ingiustizie quotidianamente patite dai cittadini nei loro rapporti con le istituzioni pubbliche, hanno le loro radici anche nella smemoratezza della storia nazionale.
      

giovedì 3 novembre 2016

IN ITALIA E IN EUROPA, I CONTI DI RENZI NON TORNANO PIÙ


di Massimo Colaiacomo


     La marcia controvento sta portando Matteo Renzi su un sentiero che si fa ogni giorno più stretto e più ripido. La polemica martellante contro l'Europa e la burocrazia di Bruxelles è un refrain quotidiano nei tour del presidente del Consiglio. Abilissimo nella comunicazione, Renzi sa trovare immagini di grande efficacia. Come ha fatto oggi, al Politecnico di Milano, quando ha osservato che "Norcia è la sede dell'Europa". Oppure, per ricordare, ai funzionari italiani a Bruxelles e ai governi che l'hanno preceduto, che l'Italia non è più la Bella Addormentata nella Ue dove troppo spesso le regole sono state scritte mentre i rappresentanti di Roma si limitavano a prendere appunti e mai a muovere obiezioni.
     Non mancano certo le ragioni perché Renzi mantenga il tiro alto sulla UE. La Legge di stabilità ha fatto storcere la bocca al commissario Pierre Moscovici e il silenzio impenetrabile della cancelleria tedesca è eloquente più di qualsiasi comunicato. Il presidente del Consiglio protesta, non certo a torto, per il diverso trattamento riservato alle banche italiane a causa di regole subir dai nostri governi e scritte forse a vantaggio e a beneficio di altri. Non meno legittima è la protesta vibrante di Renzi contro quei Paesi che sulla questione dell'immigrazione preferiscono girarsi dall'altra e continuano a maramaldeggiare sulle regole volute dai governi europei e da tutti accettate.
     Sono dossier spinosi, per i quali il governo italiano sta giocando una partita dura con la Commissione europea. La guerra combattuta sui decimali del deficit, incomprensibile forse all'opinione pubblica, è qualcosa che va oltre la semplice contabilità di bilancio. Essa è il tentativo disperato di Renzi di forzare quelle regole che non è riuscito a cambiare, nella convinzione, forse, che una volta aperto il varco l'Unione tutta dovrà ridiscutere quel capestro che è il "fiscal compact". È un obiettivo ambizioso ma, va anche detto, impossibile da raggiungere seguendo una strategia tipica della guerriglia come fin qui ha fatto il governo italiano.
     È pur vero, come sostengono le opposizioni, che incassare il placet dell'Europa per allargare la flessibilità dei conti significa accumulare nuovo debito da mettere sulle spalle delle future generazioni. Su questo sentiero sempre più ripido, però, Renzi rischia di finire ribaltato: la montagna del debito pubblico non è più affare delle future generazioni ma diventerà presto, una volta che la curva dei tassi riprenderà a salire, un affare di questa generazione, con tutte le conseguenze immaginabili sul piano sociale e del consenso politico.
     La Federal Reserve si prepara a ritoccare di uno 0,25% i tassi lunghi, lasciando invariato lo short-term per via di alcuni dati insoddisfacenti (il calo degli occupati a ottobre e il pay roll piatto dei lavoratori non agricoli). Tanto basta perché si avvii  un progressivo disallineamento fra le politiche monetarie delle Banche centrali, con quella americana che farà da apripista per una nuova stagione di rialzi dei tassi. La BCE ha garantito, almeno fino a marzo 2017, il proseguimento di una politica monetaria accomodante. Quello che accadrà dopo è al momento difficile da prevedere perché troppe sono le incognite, a cominciare dall'esito elettorale negli USA.
     Quello che sarebbe invece ragionevole fare, e che finora Renzi non ha fatto, è di mettere, come dicevano un tempo i contadini in previsione dell'inverno, del fieno in cascina, cioè mettere mano alla spesa pubblica con tagli incisivi e, dunque, dolorosi sul piano sociale e del consenso politico. L'opposto esatto di quanto finora fatto dal governo in carica. Assumere 10 mila dipendenti tra forze di polizia, medici e infermieri è un annuncio troppo ghiotto per tralasciarlo alla vigilia del referendum. E nessuna delle forze di opposizione ha alzato il dito per dire che no, così non va e i conti pubblici finiscono a ramengo. La spirale populista in cui è entrata l'Italia non ha eguali in Europa: Grillo, Salvini, Berlusconi e, in testa a tutti Renzi, sono troppo impegnati a cercare l'applauso facile e i voti, si tratti del referendum o delle prossime amministrative. Con il rischio per tutti, e per fortuna dell'Italia, che giunto Renzi al capolinea rifiorirà da qualche parte un nuovo Mario Monti. 
      

martedì 1 novembre 2016

SISMA, IL RISCHIO DI UN'UNITÀ NAZIONALE IN FUNZIONE ANTI-EUROPA



di Massimo Colaiacomo


     Sotto le macerie ancora fumanti dell'ultima scossa sismica che ha devastato un'ampia area dell'Italia centrale, la politica mostra e, se possibile, amplifica tutti i propri limiti. Da nessuno dei protagonisti, si tratti del presidente del Consiglio o dei leader di opposizione, è fin qui venuto un solo gesto capace di tradurre in atti concreti quel sentimento di unità nazionale che tutti invocano ma che nessuno manifesta se non con riserve mentali e calcoli politici. Sotto i riflettori il premier si muove a suo agio e il suo appello all'unità nazionale, giusto e perfino scontato di fronte a un dramma senza fine, ha lasciato intravvedere per un istante la possibilità di un rasserenamento del clima politico.
     Questa sensazione è durata lo spazio d'un mattino. Perché la mobilità, non solo fisica, del presidente del Consiglio ha occupato tutta la scena. Dopo un Consiglio dei ministri straordinario, con lo stanziamento di 40 milioni per la prima emergenza e il conferimento di nuovi poteri al capo della Protezione civile, Renzi si è recato a Norcia, ha rassicurato tutti che entro la primavera saranno pronti i moduli abitativi, nessuno sarà "deportato" e nel giro di poche settimane saranno pronti i container per ospitare quelli che scelgono di restare vicino alla propria. Nessun contatto ufficiale c'è finora stato con le opposizioni. C'è però un punto di convergenza molto forte e, in prospettiva, molto insidioso: Renzi, Grillo, Salvini e tutti, senza eccezione alcuna, sono pronti a ignorare qualsiasi osservazione dovesse arrivare dalla Commissione europea e dal Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, sulla legge di stabilità.
     Grillo si è portato avanti a tutti: pronti a sostenere il governo se davvero il suo obiettivo è infischiarsene di eventuali richiami della UE. Dal centrodestra non si sono levate, almeno fino a questo momento, critiche particolari: Brunetta e Gasparri si sono limitati a rimproverare Renzi per non aver convocato il tavolo di coesione nazionale e per aver fatto nomine senza interpellare le opposizioni. Per il resto, Salvini in testa, applausi al premier se intende procedere nella sfida all'Europa sulla legge di stabilità.
     Riaffiora, qui, ancora una volta, la debolezza strutturale e la povertà etica del nostro ceto politico, la sua istintiva e secolare vocazione a cogliere l'attimo per sottrarsi a obblighi e impegni. L'idea che i danni gravissimi provocati dal sisma, con la necessaria e doverosa opera di ricostruzione, siano il campanello che annuncia la ricreazione contro la politica di austerità si è fatta strada in un baleno e accomuna tutti, maggioranza e opposizione, in un afflato anti-europeista quale mai si era visto in Italia. Nessuno, soprattutto dall'opposizione, si è alzato per invocare un profilo più cauto nel rapporto con la Commissione; da nessuno è venuto il suggerimento di cambiare alcune delle poste di bilancio della Legge di stabilità - sgravi fiscali alle imprese e quattordicesime alle pensioni - per dirottare quelle risorse alla ricostruzione.
     Quanto la notte del 9 novembre 1989 il Muro di Berlino venne buttato giù, Helmut Kohl sapeva che si stava chiudendo una lunga stagione del '900 ma quella che si apriva era una pagina piena di incognite e andava scritta con un coraggio al limite della temerarietà. Fu, a suo modo, un terremoto della storia. La Repubblica Federale tedesca doveva accogliere 40 milioni di tedeschi della Germania dell'Est, ricostruire stazioni, ponti, strade, scuole, edifici pubblici e privati la cui manutenzione era ferma agli anni del dopoguerra. La Germania investì qualcosa come 1500 miliardi di euro (allora non c'era l'euro, ma la spesa fu stimata in circa 3 mila miliardi di marchi) e ancora oggi, a distanza di 27 anni, sullo statino di fine mese dei lavoratori tedeschi figura una trattenuta del 5% come finanziamento dell'immane opera di riunificazione della Germania.
     Una pagine della storia europea sulla quale poco hanno riflettuto gli europei. Quando ci si interroga sull'egoismo tedesco e sulla rigidità che appare eccessiva nella gestione delle regole di Maastricht, bisognerebbe ricordare quel tempo. Renzi non è, né mai diventerà Helmut Kohl, ma pensare che si ricostruiscono le zone terremotate solo prendendo a calci negli stinchi l'Europa significa non solo non avere una visione dei problemi, ma soprattutto di non aver mai coltivato nessun sentimento di orgoglio nazionale.