lunedì 29 luglio 2019

LA MOZIONE ANTI-TAV INSIDIA PER SALVINI
E CANTO DEL CIGNO PER M5S

Le strategie parlamentari utilizzate dalla maggioranza giallo-verde per non soccombere sotto il peso delle proprie contraddizioni sono in via di esaurimento. All’orizzonte, però, non si intravvede nessuna alternativa capace di ridare slancio alla legislatura o quanto meno di contenere gli effetti dirompenti generati dalla dialettica esasperata dentro la maggioranza. La mozione presentata al Senato dal M5s contro il Tav minaccia, a questo punto, se non di risolvere il prolungato braccio di ferro con la Lega quanto meno di incanalarlo su binario nuovo e diverso rispetto a quello visto dal 2 giugno 2018.
I boatos parlamentari raccontano infatti di un Salvini attivissimo sul piano della diplomazia parlamentare. Il ministro dell’Interno avrebbe sondato o fatto sondare i vertici di Forza Italia e del Pd per comprenderne l’orientamento di voto sulla mozione, partendo dall’ovvio presupposto di un voto contrario essendo entrambi partiti favorevoli al Tav. che cosa avrebbe cercato Salvini? Secondo alcuni, il leader leghista avrebbe argomentato con Forza Italia e con il Pd sull’utilità di un loro voto di astensione, che, è bene ricordare, al Senato equivale a un voto contrario e, di conseguenza, darebbe via libera alla mozione pentastellata con il risultato di bloccare nuovamente il Tav.
Tralasciando l’abnormità del risultato, avendo il Mit spedito la lettera con cui il governo ha dato via libera all’opera appena cinque giorni fa, rimane abbastanza fumoso lo scenario politico che potrebbe scaturire da una simile circostanza. Una spaccatura tanto clamorosa, con il M5s che tornerebbe padrone in Parlamento, e con il presidente Conte costretto a quel punto alle dimissioni, per andare in quale direzione? E perché mai Salvini dovrebbe puntare a tale esito non avendo la certezza del voto anticipato?
Viene da chiedersi come potrebbe il Pd accettare un accordo a tal punto suicida, in caso di voto anticipato, senza essersi prima assicurata la prosecuzione della legislatura con un altro governo “tecnico“. Questo potrebbe, effettivamente, essere il nocciolo di un’intesa: un governo tecnico che faccia la finanziaria per portare al voto il prossimo febbraio. Salvini avrebbe preso molti piccioni con una fava: altri dovrebbero accollarsi l’onere politico di una legge di stabilità quanto meno problematica; metterebbe un certo arco di tempo fra la crisi e il voto così da poter attaccare il M5s è sbiadire i mesi passati insieme al governo; avrebbe il tempo necessario per assistere alle ultime contorsioni di Forza Italia e imbarcarne quei naufraghi titolari di qualche gruzzolo di voti personali.
Un piano, insomma, troppo perfetto e tutto in discesa perché gli avversari si prestino docilmente alla sua realizzazione. Più verosimile appare invece l’intenzione di PD e Forza Italia di sminare il terreno parlamentare sul Tav, bocciando la mozione grillina e lasciando così al governo attuale peso di scrivere la legge di stabilità. Con il che lasciando a Salvini la decisione non facile di affossare il bilancio, il ministro Tria e il governo. A quel punto, per, il governo tecnico per la stesura del Bilancio diverrebbe una scelta obbligata, che Salvini dovrebbe subire e senza più la capacità di incidere. Una campagna elettorale urlata contro l’Europa sarebbe anche l’ultima spiaggia per il leader che volle incoronarsi re contro tutti.

lunedì 22 luglio 2019

I TORMENTI DEL PD, IL DILEMMA DI SALVINI E L'ARBITRO MATTARELLA


di Massimo Colaiacomo


     Può essere una riflessione ad alta voce, senza per questo anticipare un disegno politico, ma le parole al Corriere della Sera di Dario Franceschini, ministro nel governo di Matteo Renzi e oggi ben distante dall'ex leader, hanno cosparso quest'afosa mattinata di luglio di ipotesi politiche a una prima occhiata strampalate, salvo, a guardarle più da vicino, scoprire che sono assai meno bizzarre. Il succo del ragionamento dell'ex ministro è semplice: nessun governo Pd-M5s, però non è da trascurare la ricostituzione di un arco costituzionale, come era nella prima Repubblica, per stendere un cordone sanitario, allora attorno al Movimento sociale, oggi attorno a Matteo Salvini e alla Lega.
     Viene facile da commentare: se non è zuppa è pan bagnato. Franceschini muove da una considerazione che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire lo sfarinamento inarrestabile della maggioranza al punto che il governo è un sopravvissuto rispetto a un'alleanza finita già da qualche mese. La crisi politica non è stata fino a oggi formalizzata perché i suoi protagonisti non hanno ancora scritto un canovaccio sulla possibile uscita, e non potranno scriverlo fintanto che non avranno almeno intuito un punto di caduta. Per Salvini e Meloni, ma anche per Zingaretti e Berlusconi, la via d'uscita, almeno sulla carta, è semplice e lineare: si torna alle urne. Di fronte a uno schieramento così compatto per la fine della legislatura, che cosa è che frena Salvini dal provocarla?
     Come spesso succede in politica, le variabili finiscono per prevalere sul disegno dei leader e, di conseguenza, possono cambiare a tal punto il traguardo da tramutare un'agognata vittoria in una cocente sconfitta. Salvini e Meloni sono i due protagonisti che tutti i sondaggi danno con il vento in poppa, dunque sono loro più degli altri a poter trarre vantaggio dal voto anticipato. Però, Salvini ha assaporato il gusto amaro della vittoria alle europee, una vittoria dannunziamente "mutilata" perché se è vero che gli ha portato una dote elettorale cospicua, ha scoperto poi a sue spese che quei voti sono stati congelati nel capiente freezer dell'Unione europea. Inservibili a lui, inservibili a Ursula Von der Leyen, eletta invece con i voti decisivi dei grillini. Sconfitti sul piano elettorale, ma vincitori sul piano politico. Grazie alla regia di Giuseppe Conte e, forse, da remoto, di David Casaleggio.
     Perché sulle ambizioni e i progetti dei protagonisti, oggi dei litigi quotidiani domani, forse, di una crisi politica formalizzata, incombe il silenzio dell'arbitro istituzionale. Sergio Mattarella, si sa, non ama uscire dai solchi ben delimitati della Costituzione né ha mai tentato, almeno fino a oggi, di farsene un interprete creativo. Il suo scrupolo istituzionale ne ha fatto un custode fermo e determinato, limitandosi ogni volta a registrare la volontà politica dei singoli leader e a comporre il conseguente quadro di sintesi. Così è nato il governo giallo-verde, risultato di un "contratto" fra il partito vincitore, il M5s, e il terzo partito per numero di consensi. Un'alleanza, come Mattarella non si stancherà di ripetere ai suoi interlocutori, nata in Parlamento e grazie alla trattativa fra due partiti. L'unica in grado di esprimere una maggioranza in Parlamento, poiché il centrodestra, primo nei consensi elettorali, non disponeva della maggioranza alla Camera e al Senato. Né Salvini né Di Maio si erano presentati uniti agli elettori. Questo aspetto ha pesato e peserà naturalmente nelle valutazioni che farà il Quirinale il giorno in cui Salvini dovesse decidersi a far calare il sipario.
     Zingaretti ha ragione di dire che il PD è indisponibile a entrare in una nuova maggioranza, senza prima passare dalle urne. Non essendo chiaro il punto di caduta di un'eventuale crisi, come sbilanciarsi offrendo una disponibilità politica che potrebbe ritorcersi contro il PD in caso di voto anticipato? In questo caso, Zingaretti deve fronteggiare la fronda dei renziani, irriducibili nel rifiuto a qualsiasi intesa con il M5s. Un'opposizione tautologica, dal momento che lo stesso Zingaretti chiede le urne in caso di scioglimento. Evidentemente, sotto la chiarezza di ciò che brilla in superficie si muovono disegni più articolati, ancora inespressi. Di fronte ai tormenti del PD e al dilemma di Salvini se convenga una corsa elettorale, con tutte le incognite del Russigate, o un aggiornamento del "contratto" di governo, l'arbitro istituzionale non può che osservare. E registrare, quando si manifestano con chiarezza, le volontà dei singoli protagonisti. Come ha fatto, qualche giorno fa, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti recandosi al Quirinale per esprimere la sua indisponibilità a fare il Commissario europeo. Una scelta, a dire il vero, un po' singolare poiché Giorgetti avrebbe dovuto manifestare la sua volontà al presidente del Consiglio, unico titolare del potere di indicazione presso la UE. Ma Giorgetti ha preferito rivolgersi a Mattarella, considerato evidentemente un arbitro più vigile e distaccato rispetto alle sorti del governo.




lunedì 15 luglio 2019

DIETRO IL "CASO SAVOINI" C'È UNA POLITICA ESTERA SENZA DIREZIONE


di Massimo Colaiacomo

     Le indagini avviate dalla procura di Milano faranno il loro corso, fra colpi di scena più o meno risolutivi, e tutta l'attenzione mediatica sarà focalizzata sulla dimensione giudiziaria del "caso Savoini". Più indietro, e ancora parzialmente in ombra, rimane una questione forse più grave anche se di minore impatto sul piano della cronaca. Si sta parlando della politica estera del governo giallo-verde, dell'improvvisazione e delle acrobazie con cui si muove sulla scena europea e internazionale privo come è di una direzione. Prima l'accordo con la Cina, voluto e perseguito con abnegazione dal vice premier grillino Luigi Di Maio, poi la visita di Salvini a Washington e il semaforo verde dato ai principali dossier cari alla Casa Bianca (Tap in cima a tutti). Quindi l'incontro con Vladimir Putin, a Roma, lo scorso 4 luglio (en passant, è l'Independence Day, festa nazionale americana) con la rinnovata promessa di Salvini al leader russo di impegnarsi per rimuovere le sanzioni occidentali a Mosca. Frammezzo a questi "giri di valzer", l'unica direzione presa con una qualche determinazione è l'allentamento dell'ancoraggio dell'Italia all'Unione europea.
     Ai tempi della Triplice Alleanza (siamo nel 1880-1882) i governi italiani, nella fattispecie il governo Rudinì, strinsero accordi con Germania e l'Impero austro-ungarico in chiave difensiva rispetto alla Triplice Intesa (Russia, Francia, Inghilterra). Mentre l'Italia siglava la Triplice Alleanza, lo stesso governo firmava un protocollo segreto con il governo francese per la spartizione della Tunisia. Fu da comportamenti come questo che il cancelliere von Bulow potè definire la politica estera italiana come la politica di un Paese che amava fare "giri di valzer" con chiunque potesse tornare utile. Quell'Italia aveva ancora qualche giustificazione per tanta incoerenza: il Risorgimento si era concluso ma le terre irredente erano rimaste tali e dunque i governi italiani si ritenevano autorizzati a sposare i comportamenti più obliqui per raggiungere lo scopo.
     Più difficile, onestamente, trovare una qualche spiegazione alla politica estera del governo Conte. È vero che la politica estera italiana è stata spesso il terreno di scontro della politica interna (il caso più clamoroso fu Sigonella, con Spadolini e Craxi schierati su posizioni contrapposte pur essendo nello stesso governo), ma mai era successo che si mettesse in discussione l'appartenenza del Paese al sistema di alleanze internazionali che si identifica in qualche modo con la stessa nascita della Repubblica. Il lento e graduale disancoraggio dall'Europa (anche se è più retorico che concreto) sta spingendo l'Italia verso il largo ed espone il Paese alla mutevolezza dei rapporti fra le grandi potenze (Russia, Stati Uniti e Cina) senza peraltro avere gli strumenti diplomatici e la forza politica ed economica per reggere l'urto di interessi troppo sovrastanti.
     Se il "caso Savoini" può essere ragionevolmente riassorbito nella sua dimensione giudiziaria, sarà opportuno non sottovalutarne il suo significato sul piano della politica estera. Come ha scritto autorevolmente Stefano Folli (la Repubblica, lunedì 15 luglio) Salvini dovrà mostrare un sussulto di realismo e votare per l'elezione di Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione europea, senza curarsi troppo se i voti della Lega saranno aggiuntivi e non decisivi. È la sola carta di cui dispone il leader leghista per sottrarsi ai marosi delle tempeste internazionali. È evidente che un voto del genere costringe Salvini a una doppia capriola, perché si ritroverebbe a votare una candidata scelta da Macron e Merkel, cioè dai suoi nemici giurati. Questo è il prezzo necessario da pagare per essersi esposto in politica estera senza avere uno straccio di strategia, un canovaccio da seguire con il risultato di aver minato gravemente la credibilità residua dell'Italia.
     

sabato 29 giugno 2019

L'ITALIA BRANCOLA NEL BUIO SENZA UNA POLITICA "CENTRISTA"

Da Calenda a Carfagna e Toti, la confusione è grande: non si costruisce un partito "di centro" per concessione di qualcuno, neppure avrebbe senso un partito che nasce per allearsi a uno schieramento escludendo a priori ogni altra alleanza. La nascita di un partito moderato, liberale, di ispirazione cristiana costa fatica e tempo. E presuppone la ricostituzione di una tavola di valori e di un programma chiaramente riconoscibili e nettamente distinti da destra e sinistra


di Massimo Colaiacomo


     Angelo Panebianco ha spesso affrontato il tema del "grande vuoto" nella politica italiana, per riferirsi all'assenza ormai decennale di una politica "centrista" in grado di rappresentare e declinare sul piano legislativo gli interessi di quel vasto spettro sociale un tempo noto come "classe media", un ceto via via marginalizzato sul mercato del consenso politico. Non c'è molto da aggiungere alle analisi fin qui fatte e che individuano nella caduta delle protezioni sociali, conseguente a una globalizzazione ridotta a pura dimensione finanziaria, e nella relativizzazione dei valori sociali e dell'etica pubblica le cause principali della deriva politica e sociale che ha colpito l'Italia.
     È evidente come rispetto all'Europa, gli esiti della crisi finanziaria del 2008-2009 hanno avuto in Italia conseguenze molto peculiari o più radicali rispetto ad altri Paesi. È vero, il populismo sovranista si è affermato nei Paesi un tempo comunisti dell'Est Europa, ma le caratteristiche dei governi di Viktor Orban in Ungheria o di Andrej Babis nella Repubblica Ceca solo in minima parte sono sovrapponibili con quelle del governo Salvini-Di Maio. Diverse sono le storie nazionali e il rigurgito nazionalista in quella parte d'Europa dopo mezzo secolo di dominio comunista sovietico sono una reazione quasi naturale. Nessuno di loro è sfiorato dall'idea di uscire dall'Europa da cui lucrano rigogliosi aiuti finanziari. Le politiche di bilancio a Budapest o a Praga sono naturalmente rigoriste, così come sono rigide e ingenerose le loro politiche sociali.
     Il nazional-populismo italiano ha un retroterra del tutto diverso. Esso si è affermato come reazione alla predicazione decennale, ieri di Matteo Renzi, l'altro ieri di Silvio Berlusconi, che denunciava nell'Europa e nei parametri "stupidi" di Maastricht (copyright Romano Prodi) la causa unica ed esclusiva delle difficoltà italiane. Con l'aggiunta, tutta grillina, della corruzione endemica degli apparati pubblici italiani. Come dovrebbe orientarsi una forza "centrista", e quindi storicamente e culturalmente europeista, in un panorama dove dell'Europa restano soltanto le macerie?
     Come, per stare a fatti concreti, una forza di centro e cristianamente ispirata può rielaborare politiche di solidarietà sociale senza utilizzare solo la leva fiscale, ormai inutilizzabile? Attraverso la riaffermazione del principio di sussidiarietà, si diceva fino a qualche tempo fa. Ma questo principio, che vede nella responsabilità della persona il primo motore della vita sociale, non può davvero agire e fermentare senza un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale. Meno tasse e dunque un uso piò oculato dei servizi sociali, collettivi o individuali, che vanno erogati gratuitamente a tutti i cittadini disoccupati. Dove non riesce con le proprie forze il cittadino, arriva il Comune e via via fino all'inter vento dello Stato. Ma perché questa "catena della solidarietà" funzioni davvero e non sia inutilmente onerosa per il contribuente è altresì necessario immaginarla dotata di una burocrazia ridotta al minimo e priva di ogni potere di controllo ex ante.
     Una forza genuinamente centrista ed europeista guarda al futuro europeo dell'Italia ma volge anche lo sguardo indietro per indagare sulle radici di un debito pubblico che ha ipotecato la vita delle prossime generazioni. Quelle radici sono tutte ed esclusivamente italiane, e nulla hanno a che vedere con l'Europa o con il Trattato di Maastricht. La vocazione populista del ceto politico italiani è molto più antica della stagione berlusconiana e di quella più recente di Renzi. Essa affonda nella DC post-degasperiana perché quello di De Gasperi era un partito saldamente ancorato alla visione liberale dominante nei Partiti popolari europei, e in quello tedesco in particolare.
     Lo spazio per una simile forza politica è oggi occupato abusivamente da chi si è appropriato di un'identità non sua, magari sfruttando abilmente slogan e parole d'ordine che evocano una visione semplificata della realtà. Il successo di Salvini e anche di Di Maio è stato reso possibile dall'abilità mostrata nel semplificare la complessità della realtà. I problemi esplodono però quando con la stessa semplificazione si vorrebbe legiferare. In tal caso, la realtà complessa non entra nella camicia di forza del populismo.  






venerdì 7 giugno 2019

impazientimasenzafretta: INSIEME PER SFIDARE L'EUROPA, SALVINI E DI MAIO SI...

impazientimasenzafretta: INSIEME PER SFIDARE L'EUROPA, SALVINI E DI MAIO SI...: di Massimo Colaiacomo       C ontro le richieste della Commissione europea e contro i parametri di Maastricht Salvini e Di Maio han...

INSIEME PER SFIDARE L'EUROPA, SALVINI E DI MAIO SIGLANO LA TREGUA


di Massimo Colaiacomo


     Contro le richieste della Commissione europea e contro i parametri di Maastricht Salvini e Di Maio hanno trovato il terreno giusto per siglare una tregua in attesa del prossimo scontro. In assenza del presidente del Consiglio, i due vice si sono incontrati per discutere probabilmente la linea comune da tenere nei confronti delle richieste avanzate dai commissari europei, richieste sulle quali il presidente Conte si è detto disponibile ad aprire un confronto con Bruxelles. È probabile, come già è accaduto a ottobre, che nel gioco delle parti si ripetano gli stessi ruoli: i due vice liberi, per ragioni politiche, di fare la faccia feroce come piace ai rispettivi elettorati (a quello leghista più di quello grillino, al Nord meno che al Sud), mentre il premier si impegnerà a trovare un accordo non troppo oneroso per il governo.
     Si può ragionevolmente ritenere che Salvini e Di Maio abbiano siglato una tregua momentanea, utile per scavallare l'estate e arrivare al "fatale" settembre, quando dovranno mettere mano alla legge di Bilancio. È vero, il prossimo luglio il Consiglio Ecofin si riunirà e potrebbe decidere di dare semaforo verde alla "procedura di infrazione" in assenza di correttivi importanti all'andamento della finanza pubblica. Si tratterà probabilmente di reperire 3-3,5 miliardi per sistemare i conti del 2018 e, in prospettiva, mettere su basi meno precarie i già difficili conti per il 2020. In tal caso si può ipotizzare una serie di interventi catalogabili come spending review o qualche ritocco alle accise, senza troppi riflessi. Il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti è convinto, per esempio, che ci siano le basi per opporsi alla procedura di infrazione dal momento che l'andamento di finanza pubblica per il 2019 si vai delineando meglio del previsto.
     Decisamente più impegnativa per il governo è la partita autunnale sul bilancio. Quella scadenza andrà a incrociare una serie di altri eventi. Per l'autunno si sarà insediata la nuova Commissione europea, per fine ottobre o forse prima si conoscerà il successore di Mario Draghi alla BCE e il nuovo Parlamento europeo sarà pienamente operativo. Da qui ad allora, il governo italiano dovrà impegnarsi  per designare un commissario europeo in un ruolo che, ovviamente, si vorrebbe di rilievo visto il peso del Paese, ma per ottenere il quale Conte e Tria dovranno negoziare duramente con i partner europei resi sempre più scettici dall'aggressività gialloverde. Senza una rete di relazioni con i Paesi che contano in Europa e dopo mesi di attacchi a testa bassa ora verso la Francia (Di Maio) ora verso la Germania (Salvini), conquistare un commissario "di peso" appare un'impresa piuttosto complicata.
     La questione, come spesso capita nell'Unione, riguarda prima di tutto il miglioramento delle relazioni con i partner europei. L'ambizione di Salvini di essere il "mattatore" nei nuovi equilibri a Bruxelles viene avvertita dagli altri governi come una pretesa velleitaria, non sorretta dai numeri di una compagine sovranista che si è dissolta ancora prima che si insedi il nuovo Parlamento. L'idea che l'Italia possa rinunciare a un commissario di prestigio in cambio di qualche decimale aggiuntivo di flessibilità sui conti non sarebbe nuova. La sperimentò a suo tempo Matteo Renzi quando, in cambio dei 10 miliardi per distribuire gli 80 euro ai lavoratori dipendenti diede semaforo verde all'accoglienza di immigrati. Il profilo dell'Italia nella nuova Europa uscirà decisamente ridimensionato. L'allineamento astrale che portò ad avere insieme la presidenza della Bce, del Parlamento europeo e del ministro degli Esteri non potrà ripetersi. Per fine ottobre Mario Draghi lascerà la BCE. L'Italia rischia di trovarsi un disoccupato in più, un disoccupato, c'è da scommettere, che non si accontenterà del reddito di cittadinanza.
     

     

venerdì 22 marzo 2019

ZINGARETTI SULLA RUOTA DI M5S, MA LA GRANDE SFIDA È A ROMA


di Massimo Colaiacomo

     Il caos in cui si trova l'amministrazione Cinquestelle in Campidoglio viene da lontano, anche se esso ci appare nella sua dimensione più drammatica solo oggi, dopo l'arresto del presidente dell'Assemblea capitolina, Marcello De Vito, e le dimissioni dell'assessore allo Sport, Daniele Frongia, coinvolto in una vicenda minore. Stiamo parlando, però, solo degli ultimi capitoli di una Via Crucis che va avanti, senza interruzioni apprezzabili, dal giorno dell'insediamento di Virginia Raggi. La girandola di assessori sostituiti, alcuni allontanati, altri in fuga (sono i casi di Massimo Colomban o dell'assessore all'urbanistica, Paolo Berdini) solo in parte poteva essere spiegata con l'inesperienza di amministratori nuovi e poco avvezzi alla grande ribalta mediatica della Capitale.
     L'inesperienza ha avuto senz'altro il suo peso, anche se è difficile considerarla il fattore decisivo del collasso verso cui si sta avviando la giunta pentastellata. Non si può considerare trascurabile, per esempio, il metodo un po' primitivo e sicuramente abborracciato per la selezione del personale politico. Se dopo le elezioni politiche del 2013 quello del M5s veniva considerato il carro vincente, è naturale che attorno ad esso si è radunata una folla di plauditores di provenienza incerta, talvolta pittoresca sul piano del costume (si pensi alle scie chimiche) talaltra più inquietante per certe opacità dei comportamenti. Pensare che un'umanità così ampia e assortita potesse essere selezionata con criteri adeguati facendo votare alcune centinaia di persone sulla piattaforma Rousseau era qualcosa di più di un'illusione: un abbaglio, oltre che una temeraria e colpevole sottovalutazione delle regole che presiedono alla lotta politica, mutate e mutevoli quanto si vuole, ma sempre generate da quell'impasto in cui si incontrano razionalità e malizia tattica, lucidità e visione strategica. Qualità, si è visto, drammaticamente assenti nei dirigenti del M5s, a cominciare dal leader politico Luigi Di Maio.
     Era una nebulosa il Movimento conosciuto appena cinque anni fa. Una legislatura non è stata sufficiente per dare una qualche concretezza a programmi politici solo in parte ambizioni e più sicuramente irrealistici. È stato così sul piano locale e sul piano nazionale. Con un'eccezione che i dirigenti grillini non hanno mai colto: considerare l'amministrazione di Roma alla stregua di una vicenda locale e non invece come il biglietto da visita sul piano nazionale e internazionale. Inesperti e incapaci quanto si vuole, a Roma non sono consentiti errori madornali perché il prezzo da pagare è sul piano nazionale. È sufficiente ripercorrere gli ultimi 20 anni di amministrazione per rendersi conto del peso che la "prova" del governo capitolino ha avuto sulla sorte elettorale dei partiti e dei sindaci: Rutelli e Veltroni, buoni amministratori, hanno lasciato Roma per diventare candidati a palazzo Chigi di coalizioni di centrosinistra. Marino e Alemanno, in misura e per ragioni molto diverse, sono stati "bruciati" dall'esperienza capitolina.
     I Cinquestelle si trovano oggi davanti allo stesso bivio. Ne sa qualcosa Zingaretti, navigatore esperto delle acque politiche romane, mai tentato dall'ascesa in Campidoglio ben sapendo a quali rischi andava incontro per un guadagno assai incerto. Il segretario del PD vede perciò nell'affanno della giunta capitolina la chiave di volta per dare concretezza e vigore alla sua campagna elettorale. Si tratta, come sempre in politica, di mettere sulla bilancia le convenienze e i rischi di una scelta. Di Maio non può permettersi di perdere Roma alla vigilia delle elezioni europee. Il tonfo elettorale previsto già da qualche sondaggio potrebbe assumere proporzioni tali da spazzare via il M5s con la stessa rapidità con cui si dissolse l'Uomo Qualunque. Quale utile elettorale potrebbe venire al PD da un collasso della giunta Raggi? È un calcolo difficile e complicato da fare. Il vento dei consensi gonfia le vele di Matteo Salvini e un centrodestra arrembante, saldamente in pugno alla Lega, potrebbe avere partita facile per la conquista del Campidoglio. Per il PD sarebbe uno smacco sulla via della lenta e incerta ripresa dei consensi. Per quanto paradossale, "congelare" il caos amministrativo in Campidoglio è la prospettiva meno onerosa e forse più redditizia per il PD in vista delle europee. In fondo, la periclitante stagione grillina a Roma può essere il miglior viatico per rinsanguare le fortune elettorali del PD e portare consensi crescenti a Salvini. A bruciarsi le mani è il solo Luigi Di Maio e il manipolo di sognatori che lo circonda