mercoledì 30 dicembre 2015

L'ITALIA FUORI DALLE SECCHE MA IL MARE APERTO È ANCORA LONTANO


di Massimo Colaiacomo

     Fuori dalle secche, per una nave o una balena, significa la speranza di riguadagnare il mare aperto, recuperare la rotta per la nave e ricongiungersi al branco per la balena. L'immagine così spesso usata dal premier negli ultimi giorni rende l'idea, ma solo fino a un certo punto, di un Paese desideroso di ritrovare coraggio in se stesso, di scrollarsi di dosso le troppe incertezze e non poche paure accumulate negli ultimi anni.
     Il bilancio tracciato da Renzi nella conferenza stampa di fine anno è in chiaroscuro per ammissione dello stesso premier. Le parole rassicuranti, si trattasse delle banche o del terrorismo, dell'occupazione o delle riforme istituzionali, sono state insolitamente prudenti. Messi da parte i toni trionfalistici che sempre gli vengono rinfacciati dalle opposizioni, Renzi ha scelto quasi un low profile, insolito per il suo carattere esuberante. Non si spiegherebbero altrimenti le dure parole di critica all'Europa e alle politiche economiche imposte da Bruxelles e definite da Renzi "recessive" per essere contrapposte a quelle espansive e lungimiranti di Barak Obama. Un premier in versione anti-europeista è la conferma delle difficoltà nella politica economica di bilancio, maggiori in Italia che nel resto d'Europa, a causa delle quali - nella versione di Renzi - la ripresa è in Italia più stentata che altrove.
     L'impostazione di Renzi risulta perciò difensiva in chiave di politica interna, mentre cerca nelle norme e nel rigorismo europeo l'alibi per la parzialità dei successi in campo economico. Come a dire: io ho fatto quello che potevo, con questa maggioranza e in questo quadro politico. Il resto (e non è poco!) dipende dall'Europa. C'è, in questa impostazione, una calcolata strategia di contenimento verso l'anti-europeismo dei populismi di destra (Salvini) e di sinistra (Grillo). Come il ciclista in difficoltà cerca di mettersi nella scia di chi lo precede, così Renzi cerca di "succhiare" la ruota ai suoi avversari anche a rischio di una eccessiva esposizione in Europa.
     Un passaggio, in particolare,  ha reso meglio di altri l'idea della strategia renziana: la piena e totale sintonia con l'America di Barack Obama. Sintonia in politica estera, nel contrasto al terrorismo islamista e, non trascurabile, sintonia nelle politiche espansive di bilancio per acciuffare il treno della crescita. Come può essere letta, in termini più generali, questa completa identità di vedute con Obama, un presidente ormai alla fine del suo mandato? Renzi ha voluto rimarcare, attraverso la sponda obamiana, il suo disaccordo con l'impostazione delle politiche economiche prevalenti oggi in Europa. Da un altro lato, ha ancorato la politica estera alla sponda più di altre decisiva per garantire all'Italia un ruolo da protagonista negli sviluppi della situazione libica.
     Quali sono i possibili limiti di questa impostazione? Il racconto renziano si arena quando la rappresentazione della realtà viene messa a confronto con la realtà europea. Sul tema della crescita, per esempio, la tesi "recessiva" sparisce quando si guarda ai livelli di crescita degli altri Paesi europei. Colpisce, in particolare, la forza della crescita in quei Paesi che hanno accettato di sottoporsi alle cure della trojka (Spagna, Portogallo, Irlanda, con l'eccezione della Grecia). Sono cresciuti più degli altri 25 Paesi dell'UE. Non è forse una smentita alla tesi renziana, che è poi anche della destra italiana, secondo cui l'austerità imposta da Berlino ha impedito la crescita? Perché Renzi, come prima di lui Letta, Monti e Berlusconi, non ha trovato il coraggio di intervenire sulla spesa pubblica con tagli radicali e, almeno nel breve termine, socialmente dolorosi, sapendo che nel medio periodo avrebbero impresso una spinta considerevole alla crescita del PIL?
     Renzi non lo ha fatto esattamente per gli stessi motivi di Berlusconi, Monti e Letta: la spesa pubblica è una potente leva per raccogliere consenso elettorale, lo è in ogni democrazia ma in Italia lo è più che altrove. Per questa ragione, Renzi ha deciso di giocare la partita della vita sul referendum istituzionale che si terrà il 15 ottobre 2016: solo se sconfitto in quella circostanza sarà pronto a farsi da parte. Tutti gli altri dossier (politica economica, elezioni amministrative) finiscono sullo sfondo della strategia renziana: quelle sfide vengono messe in stand by in attesa di tempi migliori. Anche per Renzi, come lo fu per Andreotti, "tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia". 

lunedì 14 dicembre 2015

IL FRONT RÉPUBLICAIN RISCHIA LA FINE DELLA LINEA MAGINOT

Che cosa dice all'Italia il voto per le regionali in Francia


di Massimo Colaiacomo

     La logica del Front républicain ha prevalso ancora alle elezioni regionali francesi. Hollande e Sarkozy si sono dato reciproco sostegno, grazie alla desistenza, e sono riusciti nell'operazione, fin troppo scontata, di imbrigliare le velleità del Front National di Marine Le Pen. Nessuno dei vincitori ha gridato alla vittoria ma, paradossalmente, è stata l'agguerrita Le Pen a issare la bandiera se non della vittoria certamente di leader della principale opposizione nelle dodici regioni governate da socialisti e repubblicani.
     È stato già osservato che il Front républicain ha avuto il suo battesimo nel lontano 2002, allorché Chirac, vincitore al primo turno delle presidenziali, si trovò a sorpresa al ballottaggio con Jean Marie Le Pen, che al primo turno aveva prevalso sul candidato socialista Lionel Jospin. In quell'occasione, il voto degli elettori socialisti si riversò senza problemi sul candidato del Rassemblement pour la République. Fra le due circostanze esistono però differenze notevoli: nel 2002, c'era un vincitore e uno sconfitto, con una rappresentanza parlamentare esigua per il Front e nell'impossibilità di incidere purchessia sulle scelte del presidente. Le elezioni regionali di ieri, consegnando al FN oltre il 30% dei suffragi, hanno dato a Marine Le Pen una forza elettorale e un numero di parlamentari regionali quale mai prima aveva avuto l'estrema destra francese. Un risultato simile significa per il FN avere il monopolio dell'opposizione, tanto nelle regioni controllate dai repubblicani quanto in quelle controllate dai socialisti. Non sarà ancora quel solido trampolino di lancio per le presidenziali del 2017 come immaginava, e sperava, Le Pen ma tanto basta per complicare i rapporti fra socialisti e repubblicani sempre più destinati ad apparire una cosa sola agli occhi dei francesi. Rischiano di apparire la linea Maginot di un sistema politico al capolinea, consegnandosi alla fine ingloriosa della Maginot.
     Chi si trova nel campo degli sconfitti e chi in quello dei vincitori? Nicolas Sarkozy è sicuramente uno sconfitto di lusso. I Républicains hanno conquistato 5 Regioni, per di più il Pas-de-Calais dove più forte era il FN. Ma l'idea dello sfondamento a destra e il conseguente ridimensionamento del FN è stata seccamente respinta dagli elettori. Sarkozy si ritrova ingabbiato nella melassa della desistenza che funziona, nel doppio turno francese, per le presidenziali ma diventa un terreno viscido nel voto locale. Come potranno i socialisti essere un'opposizione intransigente alla destra moderata dopo averla votata contro Le Pen? Discorso analogo riguarda Sarkozy. È forse vero allora che scambiandosi un sostegno reciproco contro l'avversario comune, Sarkozy e Hollande si sono imprigionati a vicenda, consegnandosi all'immobilismo politico e, in prospettiva, a un ridimensionamento del fronte repubblicano.
     L'idea di svuotare il FN mutuandone temi e battaglie per declinarli secondo un alfabeto vigorosamente moderato è uscita sconfitta dalle urne. Vero è, al contrario, che una patina di moderazione messa da Marine Le Pen al suo programma le ha consentito di fare breccia in settori dell'elettorato fino a ieri ostili o comunque lontani dal sentimento lepenista.
     Quale lezione, se una lezione c'è, si può ricavare dal voto di ieri guardandolo dalla visuale italiana? Due o tre cose in rapida successione: a) un diverso meccanismo elettorale in Italia, impone alle forze, di centrodestra come di centrosinistra, di costruire alleanze le più ampie possibili per puntare al 40% o, in mancanza, raggiungere il risultato più ampio possibile per andare al ballottaggio. Quest'obiettivo è di vitale importanza soprattutto per la destra dove, con il crollo di Forza Italia, è venuto meno il perno dello schieramento b) la corsa solitaria è l'unica opzione nella strategia del M5s, ma anche l'unica realisticamente a portata di mano per una forza politica che ha come prima, e, forse, unica ambizione di andare al ballottaggio per una sfida diretta con il Pd conservando il monopolio di partito anti-sistema. c) le difficoltà maggiori sono tutte del centrodestra costretto a una strategia ambivalente: anti-sistema, per competere con il grillismo, e di forza moderata per competere con Renzi.
     Dal voto regionale in Francia arriva però uno scossone di più ampia portata. Si tratta del perimetro ormai asfittico al cui interno si gioca la contesa democratica fra i partiti di sistema. FN, in Francia, e i grillini, in Italia, crescono più di altri partiti proprio perché percepiti dagli elettori come forze di alternativa radicale. Come possono reagire i partiti tradizionali? Non nel modo un superficiale di Manuel Valls, che ha evocato il rischio di una guerra civile in caso di vittoria della Le Pen. La stessa divisione fra partiti stabilizzatori e partiti anti-sistema è destinata a saltare in senso inclusivo, per convenienza delle forze tradizionali: FN e grillini devono essere messi alla prova del governo prima che il monopolio esclusivo dell'anti-politica ne faccia le uniche forze capaci di rinnovare la politica. Si tratta di obiettivi ambiziosi ma anche decisivi e per raggiungerli si rende necessario un ricambio radicale del ceto politico delle forze tradizionali. Questo è un punto a vantaggio di Matteo Renzi nella sfida aperta con Grillo. È invece l'handicap maggiore per il centrodestra che si presenta vecchio nei programmi e nel personale politico, a dispetto dell'anagrafe.








giovedì 3 dicembre 2015

NOI, L'EUROPA E IL TERRORE


di Massimo Colaiacomo


     Per combattere il terrorismo è utile, efficace e sufficiente rafforzare l'azione di intelligence sul fronte "domestico" oppure è inevitabile portargli la guerra nei suoi territori, oggi in Siria e Iraq e presto anche in Libia e nella vasta area del Sahel? Oppure le due opzioni sono fra loro collegate e dunque entrambe indispensabili per dare efficacia a una seria azione di contrasto? Non sono i soli interrogativi, ma sicuramente fra i tanti sono i due più urgenti in attesa di una risposta. È intorno a queste domande che l'Europa sta consumando tempo ed energie e le risposte fin qui arrivate hanno mostrato divisioni molto profonde, superiori alla solidarietà di superficie mostrata dopo gli attentati a Parigi dello scorso 13 novembre. L'Europa è divisa perché è fragile la sua identità e un'Unione priva di una chiara politica estera e di difesa presta facilmente il fianco alle minacce di chiunque voglia aggredirla.
     La deriva dell'Europa come soggetto politico largamente incompiuto costituisce, di fatto, un incentivo potente per il terrorismo jihadista. Non a caso è il teatro europeo quello scelto dalle varie affiliazioni terroristiche per misurare la loro potenza e la loro forza nei rispettivi Paesi d'origine e così legittimare il diritto a governare porzioni di territorio e fonti energetiche. È sotto i nostri occhi e alimenta la nostra inquietudine una pericolosa asimmetria; da un parte, gli aggressori guidati da una sola cabina di regia che coordina le cellule di un terrorismo in franchising; da questa parte, gli aggrediti che si difendono con 28 cabine di regia, tante quanti sono gli Stati membri dell'Unione europea e i servizi di intelligence
     La risposta agli interrogativi iniziali sarà inevitabilmente lenta ed è verosimile che l'attesa costerà altri lutti alla popolazione europea. Divisi sulla guerra, divisi nella difesa, i governi europei stentano a  definire una linea comune di risposta all'aggressione del terrorismo. Una spia di queste difficoltà si trova perfino nell'adeguatezza del lessico: il terrorismo è una sfida o anche una minaccia e un'aggressione? e se invece fosse una guerra non convenzionale? La sfida è sicuramente fra le diverse bande di terroristi, ciascuna impegnata a dimostrarsi più efficiente delle altre nell'uccidente un gran numero di persone. La minaccia e l'aggressione è verso gli europei. Londra, Parigi e Bonn hanno scelto, ma senza intesa alcune con la Russia e solo parziale con gli Stati Uniti, di rispondere con i bombardamenti senza escludere l'invio di truppe.
     Non ha tutti i torti il presidente Renzi quando invoca una strategia per il "dopo" Assad onde evitare che si ripeta in Siria quello che si è visto in Libia. Se fra gli oppositori dell'attuale regime dovesse infatti prevalere la corrente più vicina al terrorismo islamico la diplomazia occidentale si troverebbe a gestire qualcosa di molto paragonabile a una guerra totale. C'è però, taciuta da Renzi e da molti osservatori, una differenza fondamentale: l'intervento in Libia fu un errore, col senno di poi, e in conseguenza di quell'errore il Paese è stato consegnato ai terroristi e alla violenza. In Siria siamo in una situazione opposta: il terrore c'è già, e un'eventuale guerra potrà solo estirparlo o, male che vada, lasciare lo stato di cose.
     Lo schema logico-diplomatico seguito dal governo italiano - accordiamoci sul dopo Assad e a quel punto l'Italia è pronta a intervenire - nasconde un non detto: senza un accordo, l'Italia è pronta a subire le conseguenze della guerra che fanno gli altri Paesi europei. Si tratta, in tutta evidenza, di una posizione insostenibile di fronte a sviluppi imprevisti ma non imprevedibili. Non si può entrare in guerra solo in conseguenza di un attentato. Bonn e Londra hanno risposto alla richiesta di solidarietà venuta da Hollande non perché hanno subito attentati (e Londra non interverrebbe 10 anni dopo l'attentato alla Tube) ma perché si sono assunta la responsabilità che compete a Paesi di riferimento come è una potenza vincitrice (Gran Bretagna)  e come deve essere per il Paese guida dell'economia europea.
     L'Italia naviga nel mezzo, facendo leva su qualche astuzia levantina di troppo. È vero che la Libia è la polveriera sulla soglia di casa ed è vero che il trasferimento fra Sirte e Misurata di uomini e armi del Califfo non potrà più lasciarci indifferenti. A quel punto, però, toccherà all'Italia chiedere la solidarietà degli altri Paesi europei. Ma potrà farlo soltanto con un debito morale verso gli alleati.

mercoledì 18 novembre 2015

NOI E LORO


di Massimo Colaiacomo

     Non è una guerra, come ha sentenziato François Hollande, ma come, molto opportunamente, ha negato il premier Renzi, perché a combattere sul campo non ci sono gli eserciti di due o più Stati. Meno che mai è una guerra di religione, perché in questo caso i terroristi che invocano Allah prima di farsi saltare in aria o sventagliare raffiche di mitra contro le persone non sparano mai, o quasi, contro fedeli cristiani. Sotto questo aspetto, i terroristi sbagliano indirizzo perché combattono contro il vuoto spirituale e religioso di un'Europa definitivamente secolarizzata.
     È in atto, però, qualcosa di più terribile e più  difficile da combattere di una guerra. È un conflitto, nel senso etimologico del termine, cioè uno scontro che va oltre la conquista di un territorio o di fonti energetiche o di corsi d'acqua nella Mesopotamia. Il conflitto contiene aspetti che travalicano le ambizioni giuste o sbagliate del potere politico e investe, invece, la quotidianità di milioni di persone, mette in discussione i loro punti fermi - la spesa, la scuola, il teatro, la metro - e punta a scassare la certezza che l'uso di queste "cose" è acquisito una volta per sempre. Queste "cose" sono anche l'orizzonte civile confortante in cui si muove la civiltà occidentale. 
     La guerra evocata da Hollande è soltanto un capitolo, importante quanto si vuole, del conflitto più generale lanciato contro l'occidente. Esso, certo, è anche guerra di religione contro i cristiani, ma limitatamente ai Paesi islamici e contro le Chiese cattoliche lì costruite. In quel caso, i terroristi ricordano al mondo islamico chi sono i suoi nemici e perché non si deve accettare la loro presenza sulle terre di Maometto. Si spiegano così le stragi nella Basilica cattolica di Alessandria d'Egitto o nelle chiese cristiane in Nigeria, in Pakistan, in Indonesia. Ma in Europa, a chi e per quale ragione dovrebbe essere utile distruggere una Chiesa se essa ha perso ogni valore simbolico agli occhi degli stessi europei?
     Non è una guerra di religione, si deve concludere. È invece un conflitto fra modelli di civiltà, per ammissione degli stessi terroristi. Il dramma di questo come di tutti i conflitti che lo hanno preceduto nella storia, è lo stesso di sempre: per combattere una guerra è sufficiente la volontà di un solo soggetto o di una sola parte, per trovare la pace bisogna che si incontrino almeno due volontà comuni. L'Europa non potrà mai sconfiggere il terrorismo che si richiama all'Islam se non sarà in grado di far emergere fino in fondo le contraddizioni della comunità islamica insediata nel Vecchio continente e fino a oggi, vuoi per incapacità dei governi di mettere in campo politiche di integrazione, vuoi per la libera determinazione degli stessi musulmani, mai veramente integrata nella società europea.
     C'è un confine invisibile all'interno dell'islamismo europeo e da esso transitano comportamenti e pulsioni incontrollate e trascurate dai Paesi ospitanti. È difficile per chi proviene da Paesi dove non esiste né il Codice civile né quello penale perché l'unica forma di legge è quella coranica, accettare di vivere e integrarsi in società dove la norma morale e quella civile appartengono a soggetti diversi e spesso estranei quando non confliggenti fra loro come sono la Chiesa e lo Stato.
     È lecito sperare in una laicizzazione degli islamici? È possibile che ciò avvenga, anche se la stupidità di chi li ospita non è d'aiuto. Se gli insegnanti fiorentini ritengono di cassare la visita alla mostra "Divina bellezza" temendo di ferire la sensibilità degli islamici, non sono essi la conferma che la legge coranica è più forte del diritto laico alla libertà di istruzione e di conoscenza? Se altrettanto stupidi insegnanti ritengono di non fare il presepe, espressione di una tradizione religiosa all'inizio prima di diventare un tratto di semplice civiltà, non sono da ritenere anche loro fra i colpevoli dei processi di radicalizzazione dell'islamismo? L'identità opaca della società europea è il terreno più fertile per l'attecchimento dell'islamismo estremista. Non c'è contrasto culturale, e contrasto significa confronto fra identità precise e definite, in grado di conoscersi e di accettarsi senza la pretesa di cambiare l'un l'altra. Il problema islamico non sta dentro l'Islam ma sta dentro il vuoto dell'Europa.
       

sabato 7 novembre 2015

PIÙ POVERI, PIÙ CRISTIANI? L'EQUAZIONE DIFFICILE DI BERGOGLIO


di Massimo Colaiacomo

     L'ultimo scandalo che sta scuotendo la Chiesa di Roma è motivo di stupita soddisfazione soltanto per coloro (e sono molti e molto influenti) che, in perfetta malafede, additano da sempre la Chiesa quale "sentina di ogni vizio" o "novella Babilonia", come la definì Francesco Petrarca in una sua epistola. Per i cattolici, invece, è un altro motivo di profonda amarezza non tanto "sapere" quello che il semplice buon senso intuisce quanto piuttosto vedere e constatare il disinvolto accanimento con cui personaggi, laici o religiosi, hanno deciso di trasformare in occasioni di arricchimento qualsiasi cosa riguardi il governo materiale e "umano" della Chiesa cattolica.
     Quanti dei giornalisti, opinionisti e commentatori che scrivono scandalizzati della fuga di notizie dal Vaticano, che puntano il dito contro il tenore di vita sardanapalesco di cardinali e monsignori sono cattolici? Per dirla con Papa Francesco "chi sono loro per giudicare" i comportamenti di persone estranee alla loro vita e giudicare la distanza ben visibile fra la predicazione evangelica della Chiesa e gli stili di vita di chi predica?
     Si arriva a un primo punto della questione: la Chiesa cattolica deve farsi "povera fra i poveri", come sostiene il Papa, per condividere e vivere la povertà, oppure deve combattere la povertà, con le armi previste dal Vangelo e dunque nei modi propri di un grande organismo religioso che vive e opera in questo mondo? Detto altrimenti: è possibile che la Chiesa di Bergoglio ami a tal punto i poveri da volerne sempre di più? E un numero crescente di poveri coinciderà necessariamente con un numero crescente di cristiani?
     Una  seconda questione è proprio questa: la predicazione della Chiesa si è fatta, con Papa Bergoglio, ancora più universale e la dimensione mediatica del suo messaggio è tale da travalicare i paradigmi e i valori dell'Occidente liberale e capitalista. Se la ricchezza era per Calvino "il segno della grazia divina" il cui beneficiario, titolare del libero arbitrio, avrebbe "cristianamente" condiviso con gli indigenti e gli ultimi, per la Chiesa cattolica di Bergoglio essa torna ad essere lo "sterco del diavolo", una presenza comunque peccaminosa, che prescinde dai mezzi più o meno leciti usati per accumularla.
     Quello fin qui intravisto come un Papa "rivoluzionario" o addirittura "comunista", si rivela, sotto questo aspetto, un pontefice straordinariamente conservatore, per certi versi riporta la Chiesa indietro perfino rispetto alla Rerum Novarum di quel Papa straordinario e lungimirante che fu Leone XIII. Il mondo è il luogo del male - ci dice la chiesa del Papa argentino - e gli uomini si fanno volentieri, per l'egoismo smodato o per la brama di profitto - strumento del male. Se davvero le cose sono messe in questo modo, come spiegare allora, sul piano della logica umana, un Giubileo della misericordia per esaltare Gesù misericordioso e non più giudice? Se gli scandali nella Chiesa o il profitto irragionevole come lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono da condannare  secondo la logica umana, non sono forse ugualmente da giudicare, e da condannare, sul piano teologico?
     Tenere insieme, sullo stesso piano, la logica della giustizia umana e la misericordia senza limiti di Dio verso le debolezze umane, sta generando un corto circuito all'interno del mondo cattolico. Il peccato ha una sua logica tutta interna alla fede, ma le cause del peccato risiedono "in" questo mondo e negli uomini che lo popolano. Può la Chiesa condannare le cause del peccato e scegliere una sorta di "epochè" sul peccatore, con ciò recidendo ogni nesso fra le radici del male e la sua manifestazione? Papa Bergoglio ha impostato un'equazione difficile da risolvere. L'equazione è stata impostata secondo la logica di un uomo che viene "dalla fine del mondo" mentre la soluzione è da cercare nel cuore del mondo e della cristianità. Se Papa Benedetto XVI aveva intuito la grave crisi della fede nell'Occidente secolarizzato, al punto da nominare mons.Rino Fisichella a capo di un dipartimento ad hoc, per Papa Francesco la questione non si pone: l'occidente non solo è perduto, ma è una terra contaminata da cui la Chiesa deve guardarsi. Sono due punti di vista irriducibili e inconciliabili. "In questo mondo ma non di questo mondo", è scritto nei Vangeli. Bergoglio vuole la Chiesa in questo mondo e, dal suo punto di vista, la vuole anche "di questo mondo". Esattamente come quei monsignori diventati simbolo di lusso e di mondanità.

venerdì 6 novembre 2015

IL SSN ALLO STATO È LA VERA SVOLTA NELLA SPESA


di Massimo Colaiacomo


     La politica gira attorno a un problema che si trascina da 37 anni. La riforma della sanità, fortemente voluta dalla Dc, dal Pci, dal Psi e dai sindacati, è entrata in vigore il primo gennaio 1978 e ha portato alla regionalizzazione dell'assistenza con il duplice risultato, da un lato, di snaturare le Regioni, nate come Enti di programmazione territoriale senza compiti di gestione diretta,  e, dall'altro lato, di trasformare in un carrozzone pubblico, e nelle greppia dove la politica si è finanziata a larghe mani, le vecchie casse mutue gestite con criteri di efficienza e trasparenza sicuramente maggiori.
     Si disse, nel clima populista già allora diffuso, che con la riforma si affermava il diritto universalistico alla salute. Come per dire che fino a quel momento quel diritto sarebbe stato negato o precluso a una parte della popolazione il che, come sa chi conosce la materia, era un falso assoluto. Mai prima di allora nessun italiano era stato abbandonato dall'assistenza pubblica. Essa veniva erogata dalle casse mutue alle quali era obbligato ad assicurarsi ogni lavoratore. Per chi, senza lavoro o indigente, l'assistenza veniva erogata attraverso gli Enti di beneficenza che godevano di un parziale finanziamento dello Stato. Era esattamente il modello sociale di assistenza ancora oggi valido in Germania: cassa mutua più una quota di solidarietà per chi era escluso.
     In quel modello organizzativo non c'era spazio per i partiti politici. Le Asl, poi diventate Ussl, erano, fin dall'acronimo, il riflesso di quelle "democrazie popolari" in cui attorno al partito si formava una casta di privilegiati. Il passaggio della sanità alle Regioni, perfezionato con l'Accordo dell'agosto 2001, ha realizzato la più grande fonte di corruzione per la politica locale, come dimostrano le cronache giudiziarie locali i cui protagonisti sono quasi sempre assessori alla Sanità, primari ospedalieri, aziende, ditte e appaltatori sorpresi dalla magistratura a spartirsi il bottino di tangenti su qualsiasi foglia si muova nella sanità.
     Il premier Matteo Renzi non ha torto quando, ai governatori che si lamentano per il mancato incremento del Fondo sanitario nazionale, dice di darsi una regolata nelle spese e di tagliare qualche privilegio. Renzi sostiene una mezza verità che è sotto gli occhi di tutti. L'altra metà non ha il coraggio di dirla: e cioè che è semplicemente folle un Paese con 60 milioni di abitanti e 20 sistemi sanitari autonomi, cioè con venti apparati burocratici, con centinaia di direttori generali e Consigli di amministrazione. Renzi non ha la forza politica per affermare quello che tutti gli italiani vedono. Ma, soprattutto, non ha le carte in regola per simili affermazioni dal momento che di quella selva burocratica che nasconde e tutela grovigli di interessi vicini alla politica lui ne è in qualche modo l'espressione.
     Se ci fosse un'opposizione liberale, ma soprattutto libera dagli stessi vincoli di potere che frenano Renzi, per il premier la vita sarebbe difficile. Per sua fortuna, ma per disgrazie degli italiani, non è così. Il campo del centrodestra è stato colto di sorpresa, e in qualche modo sbaragliato dal movimentismo renziano anche se, a ben vedere, si tratta di un dinamismo che corre sulla superficie dei problemi senza mai prenderli di petto. Qualcuno ha sentito Maroni o Zaia o Toti lamentarsi di dover gestire la sanità e che preferirebbero restituirne la competenza allo Stato? Come potrebbero dirlo se proprio la Sanità, che rappresenta circa il 70% dei bilanci delle Regioni, è diventata uno delle fonti di legittimazione dell'esistenza delle Regioni medesime?
     Pochi lo ammettono, anche se tutti lo sanno, che il ritorno della Sanità in capo alle competenze statali consentirebbe di tagliare la spesa pubblica di 35, forse 40 miliardi di euro all'anno. In conto sarebbero da mettere quelli che Grillo chiama "effetti collaterali", cioè il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti amministrativi assunti nella interminabile stagione del clientelismo politico, come pure qualcuno delle migliaia di primari nominati per "meriti politici" e nient'affatto professionali. I partiti preferiscono guardare altrove ma è significativo che il solo Beppe Grillo, sia pure riferito al Comune di Roma, ha trovato il coraggio di parlare di licenziamento di pubblici dipendenti. È autolesionista Grillo oppure ha fiutato meglio e prima di altri l'aria che tira in Italia?

lunedì 2 novembre 2015

LA "QUESTIONE ROMANA" CAMBIA IL CENTRODESTRA E AIUTA MARCHINI



di Massimo Colaiacomo

     La "questione romana" nel 2016 si pone come l'occasione, non si sa quanto casuale o quanto cercata da Silvio Berlusconi, per cambiare in profondità il centrodestra e fare quel passo indietro da molti sollecitato e mai continuamente accettato dal leader di Forza Italia. La "questione romana" venne brillantemente risolta, nel 1929, dal cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato vaticano, che firmò i Patti lateranensi con Benito Mussolini. Oggi un altro Gasparri, Maurizio, non potrà alzare ostacoli per risolvere una questione romana meno significativa per i rapporti con l'altra sponda del Tevere ma sicuramente rilevante per il profilo del centrodestra che verrà.
     Berlusconi ha giocato d'anticipo sugli alleati, e ha recitato anche la parte, così riferiscono le cronache, di chi teme di aver commesso un errore con l'endorsement ad Alfio Marchini. La verità è forse più semplice: in attesa di costruire un nuovo contenitore, che dovrebbe essere "l'Altra Italia" (un'espressione spadoliniana che suona un po' cacofonica pronunciata da Berlusconi), il leader di Forza Italia ha capito che deve cominciare con "l'Altra Roma" e continuare con "l'Altra Milano", poi "l'Altra Napoli" e via di questo passo.
     Non c'è un modo diverso o più semplice per ridisegnare il centrodestra e affrancarlo dalle pulsioni radicaleggianti di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. La candidatura di Alfio Marchini si presta perfettamente al progetto berlusconiano, vero o immaginario che sia, di non lasciare il centrodestra in balìa delle correnti estremiste. Tale progetto ha una qualche consistenza se nel tempo Berlusconi confermerà l'intenzione, ribadita in un'intervista a Bruno Vespa, di uscire di scena o almeno mettersi ai margini.
     Problemi dunque risolti? Tutt'altro. Le scelte di Berlusconi, a Roma come a Milano e altrove, mettono sul piede di guerra il vecchio ceto dirigente di Forza Italia ma anche chi in quel circolo è entrato in tempi recenti. Non a caso un ampio fronte, da Maurizio Gasparri  a Giovanni Toti, ha espresso il proprio malumore nei confronti del leader e contestato apertamente il suo endorsement per Marchini. Loro, e non solo, sarebbe i primi a pagare un prezzo in termini di potere personale a causa di un corso politico molto simile a un trasferimento di potere dalle mani di Berlusconi in quelle nuove e non compromesse di un personale politico già rodato sul piano amministrativo.
     È una partita temibile quella che il centrodestra si trova ad affrontare alle prossime amministrative. Anche se la affronta da condizioni meno disagiate rispetto al premier. Matteo Renzi, infatti, deve affrontare la battaglia di Roma mimetizzando il PD dietro figure tecniche, prefetti o commissari poco importa, azzerando di fatto la classe politica locale. Per Renzi è oggettivamente più complicato affidarsi a personalità, come si dice con tanta ipocrisia, della "società civile". Egli ha bisogno di personaggi autorevoli e quelli fin qui lasciati intravvedere provengono tutti o quasi da incarichi pubblici. A Roma è un tripudio di prefetti e di commissari, a Milano è il commissario di Expo, Sala, il candidato al momento più accreditato. La differenza non è coì irrilevante come sembra: Renzi deve militarizzare un partito locale che lui, ricambiato, non ama; Berlusconi deve invece mettere vino nuovo ma non in otri vecchi, come sarebbe Forza Italia.   

sabato 17 ottobre 2015

DA BERLUSCONI A RENZI, IL POPULISMO NON CAMBIA VERSO

di Massimo Colaiacomo


     Si assiste con qualche sgomento alle rivendicazioni di Renzi e Berlusconi su chi veramente abbia i titoli giusti per intestarsi il primato dei tagli fiscali. Con la Legge di stabilità appena varata, il premier sostiene di aver operato la prima, grande riduzione delle tasse sulla casa, senza distinzione per fasce di reddito o per categoria catastale. Una decisione in qualche misura storica se si considera che è stata presa da un leader espresso da una maggioranza pregiudizialmente ostile a ogni riduzione fiscale. Senonché questa misura, come era in parte prevedibile, non ha suscitato una salva di applausi e cori di approvazione in una parte del PD e nel resto della sinistra. Tant'è: le elezioni amministrative sono meno lontane di quanto non dica il calendario e Renzi, da politico consumato, non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione.
     Con il consueto autocompiacimento, l'ex premier Berlusconi ha accusato Renzi di averlo copiato nella strategia fiscale. Non c'è che dire: nella rincorsa a chi è più bravo nel taglio delle tasse la sfida fra Renzi e Berlusconi è più che mai aperta. Fra i due non si è mai aperta, né mai si aprirà, invece, la sfida a chi è stato o è più bravo nel trovare le coperture strutturali ai tagli fiscali. In una parola, come e dove tagliare la spesa pubblica in modo permanente e crescente: cioè dell'unico vero modo per rendere stabile nel tempo, e senza tentennamenti o ripensamenti,  la progressiva riduzione delle aliquote fiscali sui redditi da lavoro e di impresa.
     Questa competizione fra Renzi e Berlusconi non c'è stata né mai potrà esserci per molte ragioni. Una, forse la più importante ma non la sola, è l'attitudine di entrambi a esercitare il potere "a trazione anteriore" e non su quattro ruote motrici. Ogni decisione di politica economica viene presa da Renzi, come ieri da Berlusconi, avendo in una mano i sondaggi e nell'altra il calendario delle scadenze elettorali. Entrambi, Renzi e Berlusconi, sono uguali nella loro istintiva capacità di cogliere gli umori del momento e sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda dell'opinione pubblica. Una caratteristica che Berlusconi ha lodato in Salvini quando, qualche giorno fa, ha riconosciuto nel leader leghista l'abilità "di dire alla gente quello che la gente vuole sentirsi dire". Che è, poi, la definizione, perfetta e sintetica, della logica populista: non guidare il popolo verso un traguardo, ma seguirlo nelle sue pulsioni e nei suoi desideri. Sotto questo aspetto, Renzi è la prosecuzione del berlusconismo con una maggioranza parlamentare che in parte recalcitra all'idea di berlusconizzarsi.
     La legge di Stabilità varata dal governo reca il brand di Matteo Renzi in ogni paragrafo, in ogni codicillo. Ogni misura parte da un certo giorno di un certo anno. Ogni spesa si copre spostando poste di bilancio da un capitolo all'altro e si tratta di coperture una tantum. Un esempio: Renzi ha assicurato ai sindaci che il governo li compenserà nel 2016 per i mancati introiti dovuti al taglio di Imu e Tasi. Bene: e per il 2017? e il 2018? La strategia di coprire tagli fiscali permanenti con misure una tantum da escogitare fra una manovra e l'altra trasmetterà ai mercati, prima o poi, l'idea di una condizione di instabilità. Il disegno di politica economica di Renzi è molto simile all'azzardo: verosimilmente il premier confida su un irrobustimento della ripresa economica, europea e quindi italiana, tale da risolvere tutto d'un colpo la precarietà delle coperture fiscali alla spesa. Se la crescita del Pil, nel 2016, sarà superiore all'1,5% così come quest'anno sarà superiore allo 0,7% ipotizzato nel Def di aprile, ecco che si aprono opportunità nuove e fino a oggi insperate per la tenuta dei conti.
     È possibile che le cose vadano nella direzione auspicata dal premier. Come pure è possibile una ripresa meno lenta dell'inflazione, che darebbe una spinta significativa al miglioramento del parametro debito/Pil. In attesa che si realizzino questi desideri, rimane il fatto che l'esecutivo in carica, come quelli che lo hanno preceduto (compreso il governo "rigorista" di Mario Monti) non ha trovato il coraggio politico di intervenire alla fonte della spesa pubblica per modificare e ridurre strutturalmente il corso di quel fiume impetuoso che è il debito.
     Dietro la disputa fra la spesa produttiva e quella improduttiva, si nasconde da sempre in Italia la mancanza del coraggio politico, tanto del centrodestra quanto del centrosinistra, di intervenire sulla spesa e, in particolare, di riscrivere il perimetro e l'accesso al welfare state così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 30 anni. Nessun premier italiano ha mai pronunciato parole come quelle di Manuel Valls allorché ha ammonito i francesi "perché negli ultimi quarant'anni abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi". Né Renzi né Berlusconi hanno il profilo politico e culturale per rivolgersi agli italiani con espressioni simili. Né Renzi né Berlusconi potranno rivolgersi al Paese e ai sindacati per sostenere che bisogna rivedere l'organico dei dipendenti pubblici per immaginare una sua progressiva riduzione. Da Renzi a Berlusconi sono cambiate molte cose nel contesto internazionale ed europeo: la crisi si è attenuata, la Bce ha immesso e continuerà a immettere liquidità nel sistema economico e il costo dell'energia rimarrà basso ancora a lungo. Una cosa è rimasta immutata: il debito pubblico italiano e la sua tendenza a crescere. Anche se Renzi, smentendo se stesso, ha usato in questo caso il verbo al futuro: nel 2016 il debito scenderà.     
      

mercoledì 14 ottobre 2015

CENTRODESTRA CERCA UN'IDENTITÀ SENZA E OLTRE BERLUSCONI

Difficile immaginare il ritorno di Quagliariello in Forza Italia, partito in disfacimento. La sua possibile uscita da Ncd è soltanto la conferma di un centrodestra senza più identità e senza più Berlusconi in grado di profilarne una. 


di Massimo Colaiacomo

     La probabile uscita di Gaetano Quagliariello dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano è soltanto un tassello, uno dei tanti e non certo l'ultimo, del mosaico in disfacimento del centrodestra. Quagliariello è stato un protagonista di primo piano nella lunga stagione berlusconiana, suggeritore di idee e di valori non sempre e non del tutto compresi in Forza Italia. La sua lineare biografia politica, di giovane repubblicano prima, poi radicale e liberale, aveva reso in qualche modo eccentrica la sua presenza nel governo di Enrico Letta. Soltanto il cantiere istituzionale che quell'esecutivo aveva in animo di aprire poteva giustificare la presenza di Quagliariello.
     Ora che i nodi arrivano al pettine e una volta svuotata di significato la presenza politica del Nuovo centrodestra nel governo Renzi, per Quagliariello si apre, come per altri ma non per tutti, una traversata in quel deserto di macerie che è il centrodestra italiano, unico schieramento conservatore in Europa in serie difficoltà. Al momento sembra difficile, se non impossibile, immaginare il ritorno di  Quagliariello nelle file in subbuglio di Forza Italia. Se il centrodestra assomiglia sempre di più al Grand Hotel di Ernst Lubitsch ("gente che viene, gente che va", dice uno dei protagonisti del film) si deve in parte proprio al vuoto di strategia politica che nessuno, e Berlusconi meno di altri, è in grado al momento di colmare. L'opinione pubblica che lancia uno sguardo distratto alle cronache politiche può provare soltanto un senso di smarrimento davanti all'andirivieni di singoli protagonisti o di piccoli gruppi. Se Denis Verdini ha lasciato Forza Italia, in compagnia di un nutrito di senatori e deputati, per sostenere Matteo Renzi, prima di lui Raffaele Fitto, per ragioni diametralmente opposte, aveva abbandonato Berlusconi accusandolo di un'opposizione ondivaga.
     Non basta certo il ritorno di Nunzia De Girolamo, una personalità sicuramente forte, per certificare che Forza Italia e il suo leader conservano una capacità attrattiva nel centrodestra. In realtà, la decisione di Quagliariello di dimettersi da coordinatore di Ncd e, in prospettiva, di uscire dal partito, appartiene alla categoria dei gesti nobili in attesa, se e quando si creeranno le circostanze, di diventare un atto politico capace di concorrere alla ricostruzione del centrodestra.
     Non deve ingannare la supponenza al limite della mala creanza con cui Brunetta ha commentato il gesto di Quagliariello salutando in lui un amico che ha avuto "un barlume di luce". Purtroppo per Brunetta le cose non stanno esattamente così. Finché Berlusconi resta in campo non ci sarà nessuna possibilità di aprire una riflessione seria sulle prospettive del centrodestra e sulla ricostruzione di un'identità che deve essere culturale prima ancora che politica. Gaetano Quagliariello ha le doti personali e politiche per essere uno dei ricostruttori di un centrodestra destinato a essere molto più merkeliano di quanto potesse renderlo Berlusconi. Bisogna sgombrare le macerie lasciate dalla lunga stagione berlusconiana e quelle provocate dall'impronta populista impressa da Salvini in epoca recente per dire che il centrodestra ha trovato un punto di ripartenza. Senza questo lavoro di ripulitura sarà difficile declinare la politica al futuro  

sabato 10 ottobre 2015

SE IL CENTRODESTRA SPARISCE ... PUÒ VINCERE A ROMA


di Massimo Colaiacomo

     Salvini e Berlusconi erano già ai ferri corti sulle alleanze per le prossime amministrative, la vicenda di Roma è diventata così altra benzina sul fuoco che sta bruciando il centrodestra. Al netto dei sondaggi (l'ultimo, della Swg, accredita la Lega di consensi oscillanti fra il 17 e il 20% mentre Forza Italia sarebbe pericolosamente intorno al 10%), Salvini e Berlusconi, e Meloni con loro, hanno esigenze tattiche troppo diverse per sintonizzarsi su una strategia comune. Proviamo a vedere un po' più da vicino.
     Berlusconi ha un bisogno disperato di vincere a Roma (ancor più a Milano, è ovvio) con un candidato che sia percepito come una sua emanazione, se non diretta almeno a lui riconducibile. Assediato da un declino lento e irreversibile, e perciò più crudele, l'ex Cavaliere punta sulla roulette della politica le fiches della sua disperazione: o Roma o morte, 80 anni dopo, torna una parola d'ordine attuale per Berlusconi (al netto del sarcasmo flaianeo, il Cav. potrebbe anche decidere: o Roma o Orte). Il leader di Forza Italia si sa come la pensa, rincorre, forse senza neppure crederci, il mito di un candidato preso dalla "società civile" (si spera che un giorno venga arrestato chiunque pronunci questa locuzione) ma battezzato da lui e quindi riconducibile a Forza Italia.
     Esattamente quello che Matteo Salvini  non può accettare. Per lui la partita di Roma è per certi versi più semplice. Salvini sa di non poter mettere un suo candidato senza scontare la sconfitta in partenza. Il suo obiettivo, di fatto, è già stato raggiunto: trasformare quelle intenzioni di voto, anche solo per il 70%, in voti veri significa per Salvini essere consacrato in un ruolo nazionale. Meglio ancora se il 14 o il 16% di voti viene raccolto dalla Lega all'interno di un centrodestra pesantemente sconfitto nella corsa per il Campidoglio.
     Si tratta, come si vede, di due obiettivi che più divergenti non potrebbero essere. La crescita leghista, con la conquista definitiva della leadership nel centrodestra, presuppone un candidato sindaco votato a una onorevole sconfitta. La resurrezione di Forza Italia, o, più correttamente, il prolungamento della sua agonia presuppone invece una vittoria del candidato di centrodestra che consenta a Berlusconi di essere l'intestatario principale.
     In entrambi i casi, Alfio Marchini potrebbe essere il candidato meno adatto tanto per Salvini quanto per Berlusconi. Dotato di una sua autonoma e spiccata personalità, con trascorsi politici nel centrosinistra prima di intestarsi una coraggiosa battaglia in solitudine contro Ignazio Marino, Marchini è il candidato meglio attrezzato per sintonizzarsi con l'elettorato romano e il meno governabile dalla nomenklatura di centrodestra. Quindi, il più insidioso, in caso di vittoria, perché meno permeabile di altri per farsi tutore di interessi più o meno legittimi ma comunque estranei agli interessi generali.
     Marchini può incarnare il ruolo di tutore degli "interessi generali" (espressione cara a Ugo La Malfa) avendo messo da parte i propri e non avendo mai fatto parte di nomenclature politiche. La sua sarebbe una candidatura "civica", a bassa intensità politica ma non per questo neutra. Ha più volte ribadito il suo orientamento liberale in economia e nella gestione della cosa pubblica, il suo conservatorismo (espressione nobile e benedetta nella cultura politica europea ed anglosassone in particolare, ma ostracizzata nel deserto politico italiano) nel campo dei valori, e la sua indisponibilità ad accomodamenti che non siano più che leciti. È vero allora che un centrodestra agonizzante (più nei suoi dirigenti che nel proprio elettorato) non può affidare a un personaggio simile la propria resurrezione. Non è meno vero, però, che un personaggio come Marchini possa affidare le proprie fortune, e quelle di Roma, a un manipolo di vecchi politici condannati dai loro fallimenti.
     La candidatura di Alfio Marchini al Campidoglio, e la sua possibile vittoria, segnerebbero la fine del centrodestra come l'abbiamo conosciuto ma, paradossalmente, segnerebbe anche la nascita di un centrodestra meno sbracato nei valori e più vicino agli standard di civiltà politica europea. 

martedì 22 settembre 2015

FROM ITALY: RENZI CARRIES ON, PD UNIFIED, OPPOSITION RIGHT PARTY BEWILDERED


by Massimo Colaiacomo

     Troy's War won't occur: to this famous pièce written by Jean Giraudoux, the brilliant French writer of the 20/th century, we have thought yesterday after conclusion leadership PD. The PM Renzi has pretended the availability to the request of his minority about change the election's way of Senate,  in exchange the left wing has pretended to have won his arm wrestling on the senator election.
     It was a matter of typical minuet of Italian policy. It has been question of moot point: the Senator have to designed or elected? How is possible to find an agreement without change the text ratified by the Chamber of Deputies? To sum up, it has been found an agreement-not-agreement that not change the text of constitutional law but permits to the both front to say having won the game.
     Explaining to the people not used to the Italian policy it's really difficult. In brief: constitutional reform have to establish the new way of election of the Senator. Renzi's opinion is sharp: stop direct election and change turn in favor indirect election, as in Germany or in Spain. Minority PD steel herself for maintain the old way election. To sum up, the compromise found consent both Renzi and left wing to claim having confirmed their own reasons.
     Actually, Italian government come from this arm wrestling more determined. Although Renzi will bargain for the news parliamentary battles, beginning from economic policy. All index turn cautiously in favor although the recovery is still weak.
     Right opposition parties have to pay steep price. Old PM Ms Silvio Berlusconi, after stepped by Putin in Crimea, goes on to be fait presence on the political scene.In the field of right, at the present, the primacy is firmly on the hand of Ms. Salvini, Lega's leader and known for his extreme behaviour. From this condition derive the confusion on the field of the Italian right. With his behaviour against Euro and European Union, Salvini can multiply his votes but will be impossibile to defeat Renzi for him.

domenica 20 settembre 2015

WITHOUT AGREEMENT WITH MINORITY PD , BUT RENZI GOES ON AND SENATE'S REFORM WILL PASS

by Massimo Colaiacomo

     It has been easy to foresee one thing: the Prime Minister Matteo Renzi could never has accepted the request of the minority PD to change the constitutional law on the Senate's reform. The opponent to the reform wasn't interested to improve it, to the contrary they were interested only to put the government in serious difficulties.
     The leadership PD is going to occur tomorrow in the afternoon. It's foresee that Renzi will say one simple thing: put up or shut up. Premier is willing to accept minimum change to the 5 clause of article 2. Renzi can't change his view on the two basic point: the indirect Senate's election; confirming untouchable article 2 of the law to avoid a new approval of him of the Chamber of Deputies. 
      Renzi is certain will find the indispensable votes to approve the reform. He takes into account many desertion from the opposition, above all on the Forza Italia. Some senator could give up at the right time allowing to the government to lock down her.
     But the Prime minister like gambling. He knows the power's temptation of his enemies and he trust on the defection of the same Forza Italia senator. Every parliamentarian prefer go on the legislature to the purpose to have a pension after two years half. They are the human weakness but are they that can decide whether majority will able to survive or not.
     

sabato 19 settembre 2015

ABOUT SENATE'S REFORM MASKED BALL AMID RENZI AND PD MINORITY



by Massimo Colaiacomo

     It's a masked ball about the Senate's reform that occur amid Presidente Renzi and minority of his party PD. In the latest days many statement from spokesperson of minority PD and eminent minister have registered a sizable reduction of disagreement. Whether the bone of contention is sample, it is less sample to explain the solution. Let's see to understand. The Senate's reform is a constitutional law and it need a double approval, with three months between Senate and Chamber of Deputies. The present reform has been approved on the first time by Senate and by Chamber. According to parliamentary custom, the text should be approved two times still, but not changed it.
     The law calls for an indirect election for the senator, so changing a long custom of the direct election. Against this view, the minority of PD and other opposition party, like Forza Italia and Grillo call for the maintain the direct election for the Senate. Premier Renzi is decisive: he mean to go on, certain that minority his party will never achieve to provoke government's crisis. Renzi's government obtained a moderate success on the economic field with a sequence of the reform: from the Job's act to fiscal decrease of job's cost.
     If Premier Renzi will able to reach the Senate's reform without serious change, it's possibile for him looking for lengthen his minister until 2018, namely until to natural due date. Beyond the premier's means, the primary difficult for him is to maintain the concord of PD. Whether his party should divide, Renzi could find on the serious difficulties. Although it could arrive the help by Berlusconi's party because the old prime minister has never resolved his own judgment on the Renzi's government.
     The leadership PD is going to call next Monday. It will be the circumstance to understand the concord's level inside but it will be to understand above all if Renzi is still able to lead his own parliamentary majority. In view of this date to increase the messages for the agreement. The possible found unity of PD could make useless the votes of Forza Italia, ratifying the Berlusconi's sunset. 

mercoledì 16 settembre 2015

RENZI NON PUÒ ACCETTARE MEDIAZIONI, MA LE RIFORME ANDRANNO IN PORTO


di Massimo Colaiacomo

     Fanno demagogia spicciola quanti rimproverano a Renzi di volere una prova di forza sulla riforma del Senato e di cercare "sulla pelle" degli italiani di risolvere la partita dentro il PD. Il premier agisce come è costretto ad agire dopo un anno e mezzo di discussioni e due votazioni parlamentari che hanno approvato, con una maggioranza molto ampia, le norme oggi contestate dagli stessi che le avevano votate.
     Renzi risponde con un atto di imperio, certo, e con una prova di forza a quelli del suo partito che hanno cercato di impaludare le riforme, e l'esecutivo la cui vita è ad esse legate, con stratagemmi e trabocchetti parlamentari. È nella logica di ogni democrazia: tu cerchi di sgambettarmi, io cerco di renderti la pariglia; tu mi sfidi in Commissione, io cambio campo di gioco e ti porto in Aula dove ognuno, a voto palese, dovrà assumersi le proprie responsabilità di fronte al Paese.
     Sia chiaro: la logica dello scontro risponde ai comportamenti tipici della lotta politica, e l'analisi qui fatta esula dal merito delle riforme. Si vuole dire in buona sostanza che se il premier ha cercato la prova di forza, i suoi oppositori interni lo hanno in qualche modo assecondato abbracciando la logica degli spaccacapello. Qualcuno cita un sondaggio surreale da cui risulta che il 73% degli italiani è favorevole all'elezione diretta dei senatori. Surreale e comico perché si sta parlando del 73% del 54% degli elettori che si sono recati alle urne. Come dire che il 35% degli italiani, a voler essere ottimisti, è desideroso di scegliersi i senatori se e quando decideranno di tornare alle urne.
     È evidente che il premier ha partita facile contro argomentazioni tanto fantasiose quanto arzigogolate. Coloro che paventano i rischi di regime, potrebbero tutt'al più notare una continuità fra il sistema elettorale dell'Italicum e il suo malfamato predecessore, il Porcellum. Coloro, invece, che temono interferenze e corto circuiti fra meccanismo elettorale e riforma costituzionale del Senato prendono lucciole per lanterne: la Camera elettiva rimane tale, con i deputati nominati dai segretari di partito, mentre i 95 senatori conservano il diritto di voto per l'elezione del presidente della Repubblica.
     Se proprio si vuole gridare al regime, allora si può trovare un argomento più valido: il regime, quello partitocratico, esiste in Italia da almeno 60 anni. Con le riforme di questi mesi, la partitocrazia sarà meno consociativa e i partiti di opposizione, per dire, non potranno più essere un simulacro di opposizione, ma dovranno farla davvero e in modo pungente, con argomenti e programmi seri per vincere alla prima occasione. Per dirla tutta, Forza Italia dovrà decidersi, con l'Italicum, se potrà continuare a essere un movimento politico che esprime una cultura di governo meno abborracciata e improvvisata di quella espressa in questi venti anni, o se deciderà di finire i suoi giorni al traino di Matteo Salvini, cioè di "un perdente di successo". L'unica speranza che hanno i moderati in Italia è che la sconfitta del centrodestra alle prossime politiche lascerà un cratere nel quadro politico. E chi avesse voglia, forza e lungimiranza politica potrà davvero costruire qualcosa di utile per l'Italia.
     Per tutte queste ragioni Renzi ha poco da temere dal voto in Aula al Senato. Gli annunci di battaglia seguiti dai rulli di tamburi sono soltanto il preludio alle trombette e ai festoni di un voto che sarà positivo per le riforme e sarà, invece, il rintocco funebre per tutti coloro che hanno lavorato per 18 mesi a sabotare. Quanto a Forza Italia, bisogna pensare e agire come San Tommaso: vedere per credere. Qualcuno riesce a immaginare Berlusconi che dà ordini di votare contro le riforme per far cadere Renzi e infilarsi nel tunnel del voto anticipato? Berlusconi per primo trema alla sola idea. Le riforme andranno in porto, ma non per l'aiuto che verrà da Berlusconi, come molti temono, ma per l'impotenza politica di Forza Italia priva come è da lungo tempo di un qualsiasi canovaccio politico. 

martedì 1 settembre 2015

RENZI NON CAMBIERÀ LE RIFORME, NEL CENTRODESTRA È NOTTE FONDA


di Massimo Colaiacomo


     Era già noto, ma fa sempre un certo effetto leggere le cronache sui giornali di stamane e trovare la conferma che Silvio Berlusconi rimane il più politicista dei nostri politici. Riuniti in Sardegna i vertici di Forza Italia, a loro Berlusconi ha rivolto un discorso che suona pressappoco così: nessun appoggio a Renzi se non accetta di cambiare l'Italicum e di tornare al Senato elettivo; i voti di Forza Italia sono indispensabili perché il governo naviga fra gli scogli di un'immigrazione incontrollata e di una ripresa sempre in fondo al tunnel. Oltretutto, considera Berlusconi, il prossimo anno ci sono le amministrative e Forza Italia non ha interesse a presentarsi nella posizione di chi ha sostenuto un governo di sinistra. Per concludere con l'invito ai suoi di usare modi meno accomodanti con Salvini al quale si deve invece contendere il terreno elettorale palmo a palmo.
     Se è questa la strategia nell'animo di Berlusconi, Renzi ha di che dormire tranquillo. Come osservavo lo scorso 12 agosto ("Se Renzi cambia le riforme perde il governo e non avrà le urne"), il premier ha davanti a se una rotta obbligata: deviare anche solo di un millimetro, significherebbe per lui inoltrarsi in una foresta parlamentare in cui finirebbe per perdersi nel tira-e-molla fra la minoranza Pd e le opposizioni di centrodestra. Per non dire dell'interesse di Renzi, speculare a quello di Berlusconi, di affrontare le prossime amministrative avendo tenuto il PD a distanza di sicurezza da Forza Italia.
     Qui non si vuole tacere delle difficoltà, enormi, che Renzi si trova già adesso ad affrontare. Si vuole piuttosto richiamare il fatto che le stesse difficoltà di strategia, ancora più grandi, le incontra Berlusconi. Il suo partito è ridotto al lumicino e deve sciogliere una matassa politica che più ingarbugliata non può essere: deve votare contro le riforme, approvate fino all'altro ieri; rinsaldare un'alleanza con la Lega di Salvini, dal quale riceve un trattamento quotidiano a metà strada fra l'insolenza e la derisione; in queste condizioni, dovrebbe poi ritrovare il voto moderato contro il quale Salvini tiene aperto un fuoco di sbarramento senza sosta. Anche il Berlusconi smagliante di qualche anno fa sarebbe stato in difficoltà a trovare la "quadra": ogni paragone con il Berlusconi di oggi sarebbe impietoso.
     Renzi, sotto questo aspetto, ha molti meno problemi di strategia. Una volta messo in cascina il fieno dei verdiniani,  la sua guerra con la minoranza interna del PD non è insostenibile. Renzi li sfida sapendo di poter scaricare su di loro, e non sulle opposizioni di destra che fanno il loro mestiere, l'eventuale insuccesso delle riforme. Al netto della "vecchia guardia", cioè dei Bersani e dei D'Alema, chi dei quarantenni nel PD se la sentirà di affrontare una battaglia in campo aperto contro l'unico leader che la sinistra è riuscita a mettere in campo, sapendo, in caso di sconfitta, di pregiudicare così la propria carriera politica? In politica le battaglie si affrontano non per portare una testimonianza, ma per vincerle e cambiare il corso degli eventi o delle cose: una battaglia persa, invece, cambierà soltanto il corso della vita di chi l'ha combattuta.
     Se un errore si può imputare a Renzi è di amplificare oltre misura i pochi dati sull'economia. Quelli odierni dell'ISTAT sull'occupazione sono oggettivamente in chiaroscuro, dicono le cose negative in via di attenuazione (la crescita della disoccupazione e degli inattivi) ma è più che flebile il risvolto positivo dell'occupazione cresciuta mese su mese. Ha ragione Squinzi ad invitare alla prudenza in attesa di vedere una sequenza lunga di mesi con dati positivi in termini di crescita dell'occupazione e di prodotto. Su questo versante, per esempio, Forza Italia continua ad affidarsi alle note, a dir vero patetiche, di Renato Brunetta, esperto cercatore di peli nell'uovo, invece di battere sulla pochezza della crescita e sul mancato taglio della spesa pubblica. Anche su quest'ultimo tema, vero cavallo di battaglia di un centrodestra che fosse davvero europeo, liberale e conservatore, Renzi può dormire sonni tranquilli. Nessuno mai, da destra, gli rinfaccerà di non aver agito sulla spesa pubblica per rilanciare la crescita. Fra ex socialisti e neo-populisti, il centrodestra italiano è davvero una presenza residuale.        
     
     

domenica 30 agosto 2015

LA PALLA AL PIEDE DI RENZI È LA CRESCITA CHE NON C'È


di Massimo Colaiacomo



     Il gioco del pallottoliere in cui si sono trastullati i politici sotto l'ombrellone è stato, appunto, soltanto un gioco. Strologare sui numeri della maggioranza per le riforme è stato un modo come un altro per ingannare il tempo sotto il sole. Matteo Renzi ha la maggioranza per approvare la riforma costituzionale al Senato, per non ritornare sulla legge elettorale secondo i desiderata delle opposizioni  e, insomma, per andare avanti come da programma senza i patemi immaginati da Brunetta o da Salvini.
     Dove il premier rischia molto, in termini politici e dunque di consenso, è sulla politica economica. La ripresa non c'è, o almeno non c'è nella misura necessaria per far ripartire un minimo di occupazione. I numeri sui nuovi contratti di lavoro forniti e poi rettificati dal ministro Poletti fotografano una condizione di sofferenza non molto diversa da quella del passato. È vero, il premier si consola con le cifre relative ai flussi turistici ma anche in questo caso non è d'aiuto forzare la realtà attraverso la sua rappresentazione. Quel 10-15% in più di italiani in movimento è un dato molto parziale che compensa solo fino a un certo punto il calo della durata delle vacanze. Conterà molto di più il fatturato della stagione quando sarà possibile conoscerne le cifre con esattezza. E all'interno di quel fatturato si dovrà distinguere bene fra la domanda domestica e quella estera per fotografare con buona approssimazione se e quanto sia mutato il sentiment degli italiani rispetto alle difficoltà economiche.
     A vantaggio di Renzi rimane un'opposizione vociante e inconcludente, attestata sulla trincea di un antieuropeismo a questo punto stucchevole e di maniera. Anche nel centrodestra non manca però la voce del realismo che parla attraverso il governatore del Veneto Luca Zaia convinto, diversamente da Salvini, che la campagna antieuro e anti-Europa non troverà seguito nel mondo delle imprese piccole e grandi del Nordest. A Brunetta che accusa quotidianamente Renzi di "accucciarsi" alla volontà della cancelliera Merkel sfugge il fatto non irrilevante che proprio questa presunta sudditanza è il principale asset politico di cui dispone il premier. Nelle manifestazioni di populismo muscolare allestite sotto la calura agostana, il refrain dell'austerità europea che massacra l'economia italiana è stato intonato quotidianamente dal leader in pectore del centrodestra. Matteo Salvini ha preso il bastone del comando in quel campo politico, e ha ammutolito i pochi moderati rimasti.
     Quanto vale, in termini di consensi, la polemica quotidiana contro la Germania e la cancelliera Merkel? Quanto varrà a dicembre, se Rajoy, corifeo dell'austerità, riuscirà a spuntarla contro Podemos e i socialisti dati in vertiginoso calo dagli ultimi sondaggi? La tanto vituperata austerità ha rimesso in piedi l'Irlanda e il Portogallo e ha messo le ali al Pil della Spagna. Questi Paesi hanno tutti tagliato la spesa pubblica in misura consistente, privatizzato ogni attività che si poteva, ridotto il numero dei dipendenti pubblici e introdotto misure di flessibilità del lavoro in qualche caso estreme (Irlanda e Portogallo). Il centrodestra in Italia si è scagliato contro l'austerità per una questione nominalistica, attribuendo al termine la valenza moralistica che esso aveva nella visione berlingueriana. L'austerità di tipo europeo ha tutt'altro significato, come dimostrano i casi sopra citati: essa coincide con il ritiro accelerato dello Stato da attività economiche che possono essere meglio svolte dai privati, ma soprattutto coincide con una riduzione del peso della politica nella vita quotidiana dei cittadini. Si è così in presenza di una strategia politica di tipo "ordoliberista", fondata cioè su un controllo rigoroso dei conti pubblici, sull'avanzo primario di bilancio e su una riduzione cospicua del peso fiscale preceduta, e non seguita, da tagli sanguinosi della spesa pubblica e quindi anche del welfare.
     Matteo Renzi ha sposato a metà questa visione, perché tanto e non di più poteva fare con la maggioranza che lo sostiene. Né potrebbe fare molto diversamente se a sostenerne l'azione di politica economica arrivasse Forza Italia o la Lega Nord, partiti come gli altri incapaci di tagliare la spesa pubblica che in Italia rimane più che altrove la leva decisiva per acquisire consensi politici. Nella grande palude del populismo italiano Renzi si muove con grande abilità, edulcora il populismo con qualche provvedimento (il jobs act), vi sprofonda con altri (la stabilizzazione dei 100 mila precari nella scuola) e procede insomma con il consueto cerchiobottismo italiano. Renzi non può portare l'Italia fuori dalla crisi per la buona ragione che gli italiani non chiedono di uscire dai loro vizi e dalle loro pigrizia. Poiché a votare vanno gli italiani e non i tedeschi o gli spagnoli, Renzi, al pari di Berlusconi, governa con i sondaggi in una mano e con le loro variazioni nell'altra. Renzi non ha il coraggio di Rajoy. Ha dalla sua la fortuna che neppure nel centrodestra italiano si troverà mai un Rajoy, men che meno se lo si volesse cercare con le primarie.

lunedì 24 agosto 2015

BERLUSCONI SMOBILITA, LA CORTE SI AGGRAPPA ALLE PRIMARIE



di Massimo Colaiacomo


     È una drôle de guerre quella in svolgimento dentro Forza Italia. Il portavoce Giovanni Toti smentito dal leader, non è affare di tutti i giorni, ma se Silvio Berlusconi ha deciso di interrompere il silenzio agostano per negare anche solo l'ipotesi di tenere le primarie, è il sintomo che anche il capo ha perso il bandolo. Berlusconi vede ribollire le anime di quello che è stato il più grande partito di centrodestra nel dopoguerra e si avvia mestamente al ruolo di comprimario del nuovo leader Matteo Salvini.
     Nessuno si è stupito della replica puntuta di Berlusconi. Piuttosto qualche stupore ha suscitato la nota di Giovanni Toti. La sua prudente apertura alle primarie, motivata con le delibere prese dal Consiglio nazionale nel 2014, ha dato voce al malessere che sta divorando i berlusconiani fedeli tentati di passare dalla fedeltà alla lealtà, cioè dall'obbedienza cieca a un rapporto dialettico. Avvertono tutti che il terreno sta franando sotto i loro piedi e le elezioni amministrative sono lì, a un soffio da oggi, con tutte le paure che suscita l'aggressività di una Lega pronta a fare cappotto nelle grandi città.
     Per divincolarsi dall'abbraccio mortale di Matteo Salvini, Toti e compagni avrebbero bisogno di un partito appena in grado di respirare per negoziare le condizioni minime di un'alleanza che non sia troppo simile a una resa. Ma come può Berlusconi accettare le primarie, con tutti i loro limiti, senza con ciò iniettare in Forza Italia il "virus" della democrazia? Berlusconi non può cedere il comando assoluto del partito, neppure può accettare un'attenuazione dei suoi poteri o un loro ridimensionamento. Le primarie, invece, porterebbero questi e altri rischi. Accettarle vorrebbe per Berlusconi privarsi del potere dell'ultima parola per cederlo ai vari cacicchi locali forti delle loro vagonate di tessere e di clientele.
     Anche per Berlusconi, però, si pone il problema di come tenere unito quel che resta di Forza Italia dopo ben tre scissioni. Appannato per sempre il potere carismatico, non basta dire no alle primarie perché manipolabili e dunque inquinabili per tenere insieme gli elettori. Berlusconi ha un'alternativa, una sola, per dare forza e credibilità al suo rifiuto: rendere eleggibili dagli iscritti tutte le cariche del partito. Il che, è ovvio, suonerebbe come una bestemmia nella visione egotistica di Berlusconi. Tanto le primarie quanto l'eleggibilità delle cariche di partito hanno un grave difetto agli occhi di Berlusconi: introducono il tarlo della democrazia in un partito nato attorno a una persona. Il che conferma la tesi di Giuliano Ferrara, cioè Forza Italia, e dunque i suoi parlamentari, deputati e senatori, consiglieri regionali e di quartiere, non esiste perché esiste soltanto Silvio Berlusconi. Quello che chiamiamo partito altro non è dunque se non la proiezione di una persona e della sua volontà in ogni cellula del corpo, dal centro all'estrema periferia d'Italia.
     Si spiega così il bisogno vitale di Berlusconi di rimanere al centro della piccola galassia chiamata Forza Italia. Certo, è dura scivolare dal centro del sistema Paese al centro dell'opposizione per finire al centro di Villa Certosa e dintorni. Ma perdere il potere di trattare direttamente con Salvini, come ieri trattava personalmente con Renzi, sia pure per l'interposta persona di Denis Verdini, sarebbe per Berlusconi un colpo mortale. E non è detto che sarebbe un "colpo vitale" per i cortigiani privi come sono di bussola per muoversi nell'arcipelago frastagliassimo delle opposizioni.
     Con o senza il suo creatore, Forza Italia non può trascinarsi ancora a lungo nella sua condizione agonica. Prima implode e prima potrà farsi avanti colui che ritiene di avere più filo per tessere una nuova trama politica capace di restituire visibilità e dignità politica al centrodestra. 
     
     

mercoledì 12 agosto 2015

SE RENZI CAMBIA LE RIFORME PERDE IL GOVERNO E NON AVRÀ LE URNE



di Massimo Colaiacomo

     
     La calura di queste settimane non risparmia la sua foschia al circo della politica. Il dibattito diventa cicaleccio sotto l'ombrellone, le sfide mortali intraviste per l'autunno sembrano surreali pronunciate sotto un solleone che stordisce. Chiuso il Parlamento, il pissi-pissi si trasferisce sui giornali. Quando il Senato si troverà, a settembre, nella stessa condizione del famoso tacchino di Churchill si vedrà se e quanto Matteo Renzi avrà azzardato.
     Da Forza Italia il premier non si aspetta nessun aiuto che non sia un abbraccio politicamente oneroso. Quello che Forza Italia poteva fare lo ha fatto Denis Verdini e il plotoncino di senatori che lo hanno seguito nell'ennesima scissione del partito. Quando i dirigenti di Forza Italia si rivolgono al premier per chiedergli di cambiare la riforma del Senato per conservarlo elettivo e di rimettere mano alla legge elettorale sanno bene, anche se fingono il contrario, che chiedono cose che Renzi o chiunque altro al suo posto non potrà mai concedere. Per la semplice ragione che quelle modifiche richieste dalle opposizioni finirebbero per appannare i confini di una maggioranza già malferma e il governo verrebbe inghiottito nelle sabbie mobili del Parlamento.
     Forza Italia chiede a Renzi cose che sa di non poter ottenere, e forse spera di non ottenerle per non ritrovarsi punto e a capo con un Nazareno comunque mascherato. Renzi non può concedere nient'altro che il misero compromesso escogitato da Gaetano Quagliariello con la "semi elezione" dei senatori in un listino che affianca il listino dei candidati presidente di Regione. Un espediente, uno dei tanti che la politica s'inventa quando è all'angolo. Come potrebbe Renzi tornare sull'elettività del Senato senza compromettere l'intera impalcatura del progetto di riforme, brutto quanto si vuole, ma congegnato per funzionare in quel modo e solo in quello?
     Renzi non può abbandonare il tentativo di ritrovare l'unità del Pd, a maggior ragione dopo l'approvazione dell'Italicum. Siglare un'intesa sia pure temporanea con Berlusconi segnerebbe la rottura definitiva con la minoranza del partito ed esporrebbe il governo ai marosi di un Parlamento a quel punto ribollente. Nello stesso tempo, Renzi non può concedere alle opposizioni interne quello che deve negare a Berlusconi: nel caso dei Cuperlo e dei D'Attorre, però, può usare l'arte della persuasione e della convenienza politica per loro a votare la riforma del Senato e l'art. 2 in particolare.
     Dalle opposizioni di destra possono arrivare a Renzi quei voti che sono "un omaggio alla paura" dei senatori che sanno di non essere ricandidati e dunque sono interessati al proseguimento della legislatura. Se tanti o pochi, è difficile dire al momento: ma è facile intuire che non sono mai molti, per tornare a Churchill, i tacchini disponibili ad anticipare il Natale.
     

giovedì 30 luglio 2015

GIUSTIZIALISTI ALL'ASSALTO, MA RENZI GIOCA UN'ALTRA PARTITA



di Massimo Colaiacomo

     Il rifiuto dell'Aula del Senato di concedere gli arresti chiesti dalla Procura di Trani per il senatore del Nuovo centrodestra Antonio Azzollini è una pagina importante nella vita del governo Renzi. Lo è per due motivi: perché i senatori hanno votato senza precisi ordini di scuderia, ribaltando il voto della Commissione favorevole all'arresto; perché il Pd ha visto allargare al suo interno la frattura fra le "minoranze" e la maggioranza renziana.
     Ora la vicenda può essere letta nel modo malizioso di molti commentatori come un testacoda del Pd sulla giustizia. Per sostenere, secondo il retroscenismo tanto cara all'informazione italiana, che Renzi non poteva mettere a rischio la sua maggioranza perdendo il sostegno del Ncd nel caso il Senato avesse concesso gli arresti. Le opposizioni hanno cavalcato fino in fondo la tesi dell'uso strumentale del voto, accusando il Pd di aver ceduto ai ricatti di Alfano. Se un foglio come il Giornale arriva ad accusare Renzi di essere nelle mani di Alfano, dopo che per mesi aveva sostenuto una tesi assolutamente opposta, significa che la prima strumentalizzazione del voto di ieri in Senato l'hanno fatta stamane i giornali.
     Non è difficile replicare a chi accusa il PD di essere diventato "garantista per necessità", che anche molti giustizialisti lo sono stati, o diventati, per necessità: Renzi per non ritrovarsi con una maggioranza in fibrillazione, i giustizialisti per lucrare voti e consensi a ogni tornata elettorale. Ha sorpreso che anche Forza Italia, per bocca del suo capogruppo alla Camera, si sia ritrovata su posizioni grilline. Vedere nel voto del Senato l'avvio di uno snaturamento del Pd, come sostiene Brunetta, e non invece l'apertura di un confronto serrato che forse per la prima volta ha visto soccombere le componenti giustizialiste, è un giudizio quanto meno affrettato, se non miope, sicuramente strumentale.
     Se i senatori, o almeno quelli fra di essi che hanno letto le carte processuali sulla vicenda Azzollini, hanno votato per tutelare la maggioranza contro l'evidenza giudiziaria, che cosa dire di quelli che, convinti del contrario, hanno votato a favore dell'arresto al solo scopo di creare ostacoli al governo? È più ragionevole ritenere che il PD abbia deciso di perdere il monopolio giustizialista cedendolo ai grillini, alla Lega e in genere alle componenti radicali del quadro politico. Vicende parlamentari come quella di ieri in Senato sono soltanto la conseguenza dell'assedio che le componenti di sinistra radicale hanno messo al governo pensando, di qui a qualche tempo, di avere forza sufficiente per farlo cadere.
     Giustizialismo, referendum sul jobs act e sul ddl scuola, sono altrettanti capitoli dello sforzo che la sinistra riconducibile genericamente al vecchio mondo comunista sta compiendo nel tentativo di riorganizzarsi. Manca però di una base sociale perché la sfida lanciata da Renzi è tutta concentrata sulle politiche economiche e fiscali e su questo terreno la vecchia sinistra balbetta, impotente a sfornare una ricetta alternativa che non sia l'urlo al cielo di un Varoufakis.
     Tangentopoli è alle spalle degli italiani, anche se rimangono vive le procedure e intatta la capacità della magistratura di condizionare l'agenda politica del Paese. È cambiato però il clima, ed è cambiato con l'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica. Tenere viva quella stagione quando è venuto meno il motore primo che l'aveva alimentata è un'impresa difficile per chiunque, si chiami Grillo o Salvini. Renzi gioca un'altra partita e punta tutte le sue carte sull'economia. Se vince, la giustizia diventerà un terreno di confronto "normale". Se perde, i suoi oppositori, sprovvisti di ricette alternative, dovranno aggrapparsi alla solita "questione morale", cioè a quanto di più immorale ci sia in una democrazia. 
     

giovedì 16 luglio 2015

TSIPRAS, LA METAMORFOSI DI UN TRIBUNO

     Il premier greco, diversamente dalle nostre previsioni, ha sorpreso tutti: ha accettato le dure ricette imposte dalla Bce, non si è dimesso, è andato in Parlamento a cercare una nuova maggioranza e l'ha trovata. Il suo obiettivo: salvare la Grecia, anche a costo di polverizzare il suo partito e rinnegare il programma con cui vinse le elezioni a gennaio. Un percorso opposto a quello di Berlusconi che non riuscì, nel novembre 2011, a trasformarsi da tribuno a leader preferendo passare la mano a Mario Monti e votando tutte le leggi che lui, Berlusconi, non era stato in grado di proporre


di Massimo Colaiacomo

     Alexis Tsipras non si è scansato davanti al toro della trojka: lo ha preso per le corna, lo ha portato nel Parlamento greco e lo ha domato con un voto a larga maggioranza. Per farlo ha spaccato il suo partito, si è messo alle spalle il trionfo elettorale di gennaio, ha calpestato l'esito del referendum che aveva bocciato il "piano Juncker" ed è salito, con piglio cesarista, sulla tolda di comando. Ha salutato l'esuberante e inconcludente ex ministro delle Finanze e ora si prepara ad affrontare una navigazione burrascosa, in Europa ma soprattutto nel suo Paese.
     Nella liturgia cara alla sinistra, Tsipras è un traditore. Ma nella liturgia europea, ormai largamente prevalente, Tsipras è un "miracolato", un ribelle redento sulla via di Bruxelles. Fra la notte di domenica 12 e l'alba di lunedì 13 luglio a Bruxelles si è compiuta una conversione il cui significato, prima ancora che politico, ha un valore iconologico. Mai prima di allora un premier greco era stato per tanto tempo e tanto intensamente a contatto con altri capi di governo di Stato e mai prima di quella notte aveva tanto a lungo conversato e litigato con un cancelliere tedesco. Quelle 17 ore trascorse in quella vasta comunità che una letteratura populace disprezza come euro-tecnocrazia hanno restituito alla Grecia un leader profondamente mutato nella sua visione delle cose non certo nel loro significato.
     Tsipras ha compreso che cosa significhi essere il leader di una nazione. Ha capito che un leader non è tale perché strappa applausi a folle osannanti o perché riporta successi elettorali. Tutte condizioni necessarie in democrazia e all'interno dei confini nazionali. Oggi essere leader, in un Paese europeo, presuppone la capacità di mettere gli interessi del proprio Paese davanti allo stesso Paese, e mettere una distanza, che può essere anche distorsiva, fra il senso della propria missione e il consenso degli elettori. Perché un leader che vive di sondaggi è destinato a essere travolto dai sondaggi, diversamente da chi esercita la statesmanship incurante del consenso.
     Dal consenso plebiscitario tributato da una piazza ribollente alla sfida di un potere da esercitare in condizioni di solitudine il passaggio non è facile per nessuno. Molti preferiscono evitarlo, come è accaduto a Silvio Berlusconi. Il quale, nel novembre 2011, evitò di prendere il toro per le corna, cioè sfidare il Parlamento con un programma di tagli alla spesa, e preferì passare la mano a Mario Monti per votare uno per uno tutti i provvedimenti presi da Monti. In quell'occasione è tramontata definitivamente ogni capacità di leadership di Berlusconi. Il tribuno non seppe trasformarsi nel leader che le circostanze richiedevano.
     È ovvio che la sfida davanti a Tsipras e alla Grecia è soltanto all'inizio. Il debito greco è da tutti riconosciuto unbearable e nessun soggetto politico o istituzionale può muovere un dito per ristrutturarlo in conto capitale. Si può riscadenzare, forse, si possono negoziare le condizioni dei tassi, ma un haircut è impossibile perché è un debito verso istituzioni (Bce e Fmi) non autorizzate dai loro regolamenti a effettuare prestiti monetari. La Grexit è un'opzione che non piace a nessuno, ma è anche una ipotesi non del tutto tramontata. Si sa come la pensa Schaüble, europeista indomabile e arcigno, che la preferisce a qualunque altra soluzione che dovesse protrarre all'infinito il dramma greco. Il dilemma davanti a cui si trova l'Europa è questo: come chiudere una volta per tutte la vicenda del debito greco. La strada diventa a questo punto ininfluente, perché l'unica cosa sicura è che l'eurozona rischia di saltare se si trascina nell'incertezza come ha fatto in questi sette anni di crisi.

lunedì 13 luglio 2015

IL SENSO DI SCHAÜBLE PER L'EUROPA

di Massimo Colaiacomo

     I commenti su chi ha vinto e chi ha perso occuperanno ancora per qualche giorno le pagine dei giornali per descrivere la conclusione del duro negoziato fra la Grecia e la Germania, con il contorno degli altri leader europei. Quando la polvere sarà calata, forse si comincerà a guardare oltre la competizione sportiva per cogliere altri profili di una pagina né brutta né bella, ma sicuramente decisiva, nella non breve storia dell'integrazione europea e, magari, si daranno valutazioni un po' diverse sull'opera dei singoli protagonisti. 
     La lunga notte di Bruxelles ha messo in luce un aspetto in particolare: in assenza di una comune visione politica, per non dire di politiche fiscali, sociali e di bilancio ancora tutta da costruire, che cosa può tenere insieme 19 Paesi che hanno nel portafoglio la stessa moneta? Niente altro che un elenco lungo e noioso di regole e pagine altrettanto puntigliose di Trattati. Tutto questo ripugna al sentimento comune, tanto è vero che grazie e contro quei Trattati e quelle regole sono sorti movimenti antieuropeisti e antieuro un po' ovunque, e per molti di loro ci sono stati cospicui consensi elettorali. L'Europa così come è - si sente ripetere - non piace più a nessuno. L'euro - è la litania più gettonata - è una gabbia al cui interno i deboli diventano emaciati e i forti si rinvigoriscono. E via di questo passo.
     Tutto ciò contiene una verità, superficiale quanto si vuole ma innegabile. Ma la verità della situazione non basta da sola a spiegare le cause, non meno vere, che hanno portato all'impasse attuale. Per esempio, si guardi alla questione dei debiti. Quanti Paesi hanno applicato, nei tempi e nei modi previsti dai Trattati, l'opera di risanamento dei conti pubblici da tutti riconosciuta cruciale, al momento di firmare quei Trattati oggi contestati, per avviare solide politiche di crescita? Il Patto di stabilità e crescita, per esempio, da tutti accettato e votato dai Parlamenti nazionali, spiega per filo e per segno come, passando per operazioni incisive di riduzione del debito, si arriva a favorire una crescita del Pil non inflazionistica. Tutti i governi hanno accettato quel Patto e le sue clausole, ma quanti lo hanno implementato nelle rispettive politiche nazionali? Pochi, e nemmeno la "virtuosa" Germania è esente da pecche anche se, va detto per verità di cronaca, è stato il primo e per molto tempo il solo Paese ad avviare per tempo profonde riforme economiche e sociali, nel 2002, con il governo del socialdemocratico Schröder. Riforme realizzate violando per due anni la soglia del deficit, su concessione degli altri partner. Di quelle riforme tutti hanno potuto vedere i risultati. Greci, spagnoli, irlandesi, portoghesi, italiani - insomma il gruppo dei cosiddetti Paesi Pigs - hanno lasciato che il tempo divorasse i buoni propositi annunciati ma sempre rimasti sulla carta. Alcuni di loro si sono mossi, con grave ritardo, quando già nell'opinione pubblica era diffusa la percezione che i sacrifici sarebbero stati evitati.
     È stato bruciato tempo prezioso per quei Paesi ma quel tempo d'inerzia dei governi è diventato la culla dei movimenti antieuropeisti e antieuro. Grillini, lepenisti, Podemos e leghisti hanno lucrato successi elettorali importanti e crescenti nel tempo, in misura direttamente proporzionale alle politiche di austerità, a mano a mano che queste uscivano timidamente dal limbo delle intenzioni per diventare con ancora maggiore timidezza atti di governo. Uno di questi movimenti antieuropeisti è diventato addirittura forza di governo ad Atene. Siryza e il suo leader Alexis Tsipras sono nati ad Atene non per colpa dell'Europa o di Angela Merkel, ma come risultato dell'ignavia dei governi ellenici. Si può dire che Siryza è il prodotto del fallimento dell'intera classe dirigente greca. Si dirà: ma allora perché movimenti antieuropeisti sono sorti anche in Finlandia, in Germania, in Belgio e in Olanda? Per le ragioni esattamente opposte a quelle di altri movimenti: il Nord Europa vive con sofferenza la presenza di Paesi visti come il regno della "pigrizia" e del "dolce far niente". Qui, nell'aria mediterranea, si vive come una provocazione insostenibile il rigore finanziario d'impronta teutonica.
     Al punto che nell'immaginario collettivo, con l'aiuto anche dei "media", si sono scambiati ruoli e personaggi del dramma greco. Wolfgang Schaüble, europeista della prima ora, animato da un'incrollabile fede nel comune destino del Continente, è uscito raffigurato soltanto come un ostinato ragioniere che difende l'arida verità dei numeri. Al suo posto, la flessibile cancelliera è apparsa come la mediatrice attenta alle differenze e preoccupata di salvare il salvabile. Pochi si sono chiesti se è più genuino un europeista preoccupato che tutti i Paesi siano messi nella condizione paritaria per cogliere le opportunità di un risanamento duro dei conti pubblici o, al contrario, chi ritiene che siano tollerabili concessioni e distinzioni, insomma un'Europa a geometria variabile, per risultati e tempistica.
     Schaüble ha riaffermato, con più vigore di chiunque altro, che l'adesione piena e convinta allo spirito dei Trattati insieme al loro rispetto puntiglioso, è la premessa in grado di accelerare tutte le politiche di convergenza senza le quali non ci sarà mai un'autentica unione politica. Mentre la cancelliera si batteva per salvaguardare la sua immagine in Germania, Schaüble si è battuto per salvare l'Europa e, un po', anche per salvare la Germania da se stessa.