domenica 30 agosto 2015

LA PALLA AL PIEDE DI RENZI È LA CRESCITA CHE NON C'È


di Massimo Colaiacomo



     Il gioco del pallottoliere in cui si sono trastullati i politici sotto l'ombrellone è stato, appunto, soltanto un gioco. Strologare sui numeri della maggioranza per le riforme è stato un modo come un altro per ingannare il tempo sotto il sole. Matteo Renzi ha la maggioranza per approvare la riforma costituzionale al Senato, per non ritornare sulla legge elettorale secondo i desiderata delle opposizioni  e, insomma, per andare avanti come da programma senza i patemi immaginati da Brunetta o da Salvini.
     Dove il premier rischia molto, in termini politici e dunque di consenso, è sulla politica economica. La ripresa non c'è, o almeno non c'è nella misura necessaria per far ripartire un minimo di occupazione. I numeri sui nuovi contratti di lavoro forniti e poi rettificati dal ministro Poletti fotografano una condizione di sofferenza non molto diversa da quella del passato. È vero, il premier si consola con le cifre relative ai flussi turistici ma anche in questo caso non è d'aiuto forzare la realtà attraverso la sua rappresentazione. Quel 10-15% in più di italiani in movimento è un dato molto parziale che compensa solo fino a un certo punto il calo della durata delle vacanze. Conterà molto di più il fatturato della stagione quando sarà possibile conoscerne le cifre con esattezza. E all'interno di quel fatturato si dovrà distinguere bene fra la domanda domestica e quella estera per fotografare con buona approssimazione se e quanto sia mutato il sentiment degli italiani rispetto alle difficoltà economiche.
     A vantaggio di Renzi rimane un'opposizione vociante e inconcludente, attestata sulla trincea di un antieuropeismo a questo punto stucchevole e di maniera. Anche nel centrodestra non manca però la voce del realismo che parla attraverso il governatore del Veneto Luca Zaia convinto, diversamente da Salvini, che la campagna antieuro e anti-Europa non troverà seguito nel mondo delle imprese piccole e grandi del Nordest. A Brunetta che accusa quotidianamente Renzi di "accucciarsi" alla volontà della cancelliera Merkel sfugge il fatto non irrilevante che proprio questa presunta sudditanza è il principale asset politico di cui dispone il premier. Nelle manifestazioni di populismo muscolare allestite sotto la calura agostana, il refrain dell'austerità europea che massacra l'economia italiana è stato intonato quotidianamente dal leader in pectore del centrodestra. Matteo Salvini ha preso il bastone del comando in quel campo politico, e ha ammutolito i pochi moderati rimasti.
     Quanto vale, in termini di consensi, la polemica quotidiana contro la Germania e la cancelliera Merkel? Quanto varrà a dicembre, se Rajoy, corifeo dell'austerità, riuscirà a spuntarla contro Podemos e i socialisti dati in vertiginoso calo dagli ultimi sondaggi? La tanto vituperata austerità ha rimesso in piedi l'Irlanda e il Portogallo e ha messo le ali al Pil della Spagna. Questi Paesi hanno tutti tagliato la spesa pubblica in misura consistente, privatizzato ogni attività che si poteva, ridotto il numero dei dipendenti pubblici e introdotto misure di flessibilità del lavoro in qualche caso estreme (Irlanda e Portogallo). Il centrodestra in Italia si è scagliato contro l'austerità per una questione nominalistica, attribuendo al termine la valenza moralistica che esso aveva nella visione berlingueriana. L'austerità di tipo europeo ha tutt'altro significato, come dimostrano i casi sopra citati: essa coincide con il ritiro accelerato dello Stato da attività economiche che possono essere meglio svolte dai privati, ma soprattutto coincide con una riduzione del peso della politica nella vita quotidiana dei cittadini. Si è così in presenza di una strategia politica di tipo "ordoliberista", fondata cioè su un controllo rigoroso dei conti pubblici, sull'avanzo primario di bilancio e su una riduzione cospicua del peso fiscale preceduta, e non seguita, da tagli sanguinosi della spesa pubblica e quindi anche del welfare.
     Matteo Renzi ha sposato a metà questa visione, perché tanto e non di più poteva fare con la maggioranza che lo sostiene. Né potrebbe fare molto diversamente se a sostenerne l'azione di politica economica arrivasse Forza Italia o la Lega Nord, partiti come gli altri incapaci di tagliare la spesa pubblica che in Italia rimane più che altrove la leva decisiva per acquisire consensi politici. Nella grande palude del populismo italiano Renzi si muove con grande abilità, edulcora il populismo con qualche provvedimento (il jobs act), vi sprofonda con altri (la stabilizzazione dei 100 mila precari nella scuola) e procede insomma con il consueto cerchiobottismo italiano. Renzi non può portare l'Italia fuori dalla crisi per la buona ragione che gli italiani non chiedono di uscire dai loro vizi e dalle loro pigrizia. Poiché a votare vanno gli italiani e non i tedeschi o gli spagnoli, Renzi, al pari di Berlusconi, governa con i sondaggi in una mano e con le loro variazioni nell'altra. Renzi non ha il coraggio di Rajoy. Ha dalla sua la fortuna che neppure nel centrodestra italiano si troverà mai un Rajoy, men che meno se lo si volesse cercare con le primarie.

lunedì 24 agosto 2015

BERLUSCONI SMOBILITA, LA CORTE SI AGGRAPPA ALLE PRIMARIE



di Massimo Colaiacomo


     È una drôle de guerre quella in svolgimento dentro Forza Italia. Il portavoce Giovanni Toti smentito dal leader, non è affare di tutti i giorni, ma se Silvio Berlusconi ha deciso di interrompere il silenzio agostano per negare anche solo l'ipotesi di tenere le primarie, è il sintomo che anche il capo ha perso il bandolo. Berlusconi vede ribollire le anime di quello che è stato il più grande partito di centrodestra nel dopoguerra e si avvia mestamente al ruolo di comprimario del nuovo leader Matteo Salvini.
     Nessuno si è stupito della replica puntuta di Berlusconi. Piuttosto qualche stupore ha suscitato la nota di Giovanni Toti. La sua prudente apertura alle primarie, motivata con le delibere prese dal Consiglio nazionale nel 2014, ha dato voce al malessere che sta divorando i berlusconiani fedeli tentati di passare dalla fedeltà alla lealtà, cioè dall'obbedienza cieca a un rapporto dialettico. Avvertono tutti che il terreno sta franando sotto i loro piedi e le elezioni amministrative sono lì, a un soffio da oggi, con tutte le paure che suscita l'aggressività di una Lega pronta a fare cappotto nelle grandi città.
     Per divincolarsi dall'abbraccio mortale di Matteo Salvini, Toti e compagni avrebbero bisogno di un partito appena in grado di respirare per negoziare le condizioni minime di un'alleanza che non sia troppo simile a una resa. Ma come può Berlusconi accettare le primarie, con tutti i loro limiti, senza con ciò iniettare in Forza Italia il "virus" della democrazia? Berlusconi non può cedere il comando assoluto del partito, neppure può accettare un'attenuazione dei suoi poteri o un loro ridimensionamento. Le primarie, invece, porterebbero questi e altri rischi. Accettarle vorrebbe per Berlusconi privarsi del potere dell'ultima parola per cederlo ai vari cacicchi locali forti delle loro vagonate di tessere e di clientele.
     Anche per Berlusconi, però, si pone il problema di come tenere unito quel che resta di Forza Italia dopo ben tre scissioni. Appannato per sempre il potere carismatico, non basta dire no alle primarie perché manipolabili e dunque inquinabili per tenere insieme gli elettori. Berlusconi ha un'alternativa, una sola, per dare forza e credibilità al suo rifiuto: rendere eleggibili dagli iscritti tutte le cariche del partito. Il che, è ovvio, suonerebbe come una bestemmia nella visione egotistica di Berlusconi. Tanto le primarie quanto l'eleggibilità delle cariche di partito hanno un grave difetto agli occhi di Berlusconi: introducono il tarlo della democrazia in un partito nato attorno a una persona. Il che conferma la tesi di Giuliano Ferrara, cioè Forza Italia, e dunque i suoi parlamentari, deputati e senatori, consiglieri regionali e di quartiere, non esiste perché esiste soltanto Silvio Berlusconi. Quello che chiamiamo partito altro non è dunque se non la proiezione di una persona e della sua volontà in ogni cellula del corpo, dal centro all'estrema periferia d'Italia.
     Si spiega così il bisogno vitale di Berlusconi di rimanere al centro della piccola galassia chiamata Forza Italia. Certo, è dura scivolare dal centro del sistema Paese al centro dell'opposizione per finire al centro di Villa Certosa e dintorni. Ma perdere il potere di trattare direttamente con Salvini, come ieri trattava personalmente con Renzi, sia pure per l'interposta persona di Denis Verdini, sarebbe per Berlusconi un colpo mortale. E non è detto che sarebbe un "colpo vitale" per i cortigiani privi come sono di bussola per muoversi nell'arcipelago frastagliassimo delle opposizioni.
     Con o senza il suo creatore, Forza Italia non può trascinarsi ancora a lungo nella sua condizione agonica. Prima implode e prima potrà farsi avanti colui che ritiene di avere più filo per tessere una nuova trama politica capace di restituire visibilità e dignità politica al centrodestra. 
     
     

mercoledì 12 agosto 2015

SE RENZI CAMBIA LE RIFORME PERDE IL GOVERNO E NON AVRÀ LE URNE



di Massimo Colaiacomo

     
     La calura di queste settimane non risparmia la sua foschia al circo della politica. Il dibattito diventa cicaleccio sotto l'ombrellone, le sfide mortali intraviste per l'autunno sembrano surreali pronunciate sotto un solleone che stordisce. Chiuso il Parlamento, il pissi-pissi si trasferisce sui giornali. Quando il Senato si troverà, a settembre, nella stessa condizione del famoso tacchino di Churchill si vedrà se e quanto Matteo Renzi avrà azzardato.
     Da Forza Italia il premier non si aspetta nessun aiuto che non sia un abbraccio politicamente oneroso. Quello che Forza Italia poteva fare lo ha fatto Denis Verdini e il plotoncino di senatori che lo hanno seguito nell'ennesima scissione del partito. Quando i dirigenti di Forza Italia si rivolgono al premier per chiedergli di cambiare la riforma del Senato per conservarlo elettivo e di rimettere mano alla legge elettorale sanno bene, anche se fingono il contrario, che chiedono cose che Renzi o chiunque altro al suo posto non potrà mai concedere. Per la semplice ragione che quelle modifiche richieste dalle opposizioni finirebbero per appannare i confini di una maggioranza già malferma e il governo verrebbe inghiottito nelle sabbie mobili del Parlamento.
     Forza Italia chiede a Renzi cose che sa di non poter ottenere, e forse spera di non ottenerle per non ritrovarsi punto e a capo con un Nazareno comunque mascherato. Renzi non può concedere nient'altro che il misero compromesso escogitato da Gaetano Quagliariello con la "semi elezione" dei senatori in un listino che affianca il listino dei candidati presidente di Regione. Un espediente, uno dei tanti che la politica s'inventa quando è all'angolo. Come potrebbe Renzi tornare sull'elettività del Senato senza compromettere l'intera impalcatura del progetto di riforme, brutto quanto si vuole, ma congegnato per funzionare in quel modo e solo in quello?
     Renzi non può abbandonare il tentativo di ritrovare l'unità del Pd, a maggior ragione dopo l'approvazione dell'Italicum. Siglare un'intesa sia pure temporanea con Berlusconi segnerebbe la rottura definitiva con la minoranza del partito ed esporrebbe il governo ai marosi di un Parlamento a quel punto ribollente. Nello stesso tempo, Renzi non può concedere alle opposizioni interne quello che deve negare a Berlusconi: nel caso dei Cuperlo e dei D'Attorre, però, può usare l'arte della persuasione e della convenienza politica per loro a votare la riforma del Senato e l'art. 2 in particolare.
     Dalle opposizioni di destra possono arrivare a Renzi quei voti che sono "un omaggio alla paura" dei senatori che sanno di non essere ricandidati e dunque sono interessati al proseguimento della legislatura. Se tanti o pochi, è difficile dire al momento: ma è facile intuire che non sono mai molti, per tornare a Churchill, i tacchini disponibili ad anticipare il Natale.