giovedì 26 giugno 2014

GRILLO E MERKEL, INSIDIE DIVERSE MA STESSA SFIDA PER RENZI

di Massimo Colaiacomo

Ricapitolando: Matteo Renzi intende tener fede al patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Quindi la riforma del Senato, con la non eleggibilità dei senatori; il modello elettorale dell'Italicum, dunque niente preferenza e listini corti ma bloccati insieme alla certezza che la sera dell'eventuale ballottaggio si sappia quale partito o coalizione di partiti governerà l'Italia; la riforma del Titolo V, con l'eliminazione o almeno la riduzione delle materie "concorrenti", cioè quelle in cui lo Stato programma e la Regione gestisce.
Messa così si direbbe che tutto è a posto. La realtà però è più complessa. Dopo l'inconro con la delegazione M5s, Renzi può a giusto titolo rivendicare di aver infranto il muro di incomunicabilità dietro il quale prosperava il grillismo. Diciamo pure una sorta di "arco costituzionale" rovesciato, nel senso che Grillo aveva fatto della sua autoesclusione dal "sistema" il punto di forza da cui lucrare consensi anti-sistema.
Il tavolo è saltato con il voto europeo. Grillo si è dovuto piegare di fronte al risultato elettorale e aprire il dialogo con il governo è diventata per lui una necessità per sopravvivere. Una necessità non è ancora una scelta politica, cioè non comporta atti politici frutto di una matura convinzione. I grillini potrebbero in qualunque momento abbandonare il confronto e tornare in trincea. Al momento non accadrà perché il loro obiettivo è di incrinare quel patto con Berlusconi che, è vero, appare blindato, ma rispetto al quale Renzi non vuole sentirsi le mani legate più di tanto. Allora ecco la possibilità di alzare la soglia al 40% e, di conseguenza, accettare una soglia unica di accesso al Parlamento intorno al 4%. Le preferenze, no: non sono state concordate con Berlusconi anche se il Cavaliere non avrebbe la forza di rovesciare il tavolo lasciando via libera a Grillo. Renzi diffida al massimo di Grillo, e fa bene. Rompere l'intesa con Forza Italia significherebbe consegnarsi nelle mani di un personaggio imprevedibile e rocambolesco come il comico. Ma utilizzare il grillismo per ritoccare il patto in termini più vantaggiosi per il Pd, questo è possibile.
Da qui a metà luglio, quando Renzi conta di incassare il via libera del Senato alla riforma costituzionale, il governo dovrà affrontare anche lo spinoso dossier delle nomine europee e, in particolare, fare di conto con il muro inscalfibile della Germania sulle regole fiscali.
La flessibilità invocata da Italia e Francia e accettata, almeno in apparenza, da Berlino, è un termine che indica cose diverse nei tre Paesi. Per l'Italia la flessibilità dei parametri del Fiscal compact è da interpretare come la possibilità di rinviare nel tempo il pareggio di bilancio (al 2016) e prendere più tempo per aggredire il debito "monstre". Per Berlino, al contrario, la flessibilità va cercata all'interno di quei parametri e più esattamente mettendo in campo riforme strutturali radicali e incisive, capaci di incidere sui flussi di cassa della spesa pubblica. Come fare? Merkel non lo dice, ma il suo pensiero va alla Spagna e alla Grecia come per dire a Renzi: ecco come fare.
Renzi dovrebbe fare qualcosa che lo metterebbe in aperta contraddizione con l'oceano di consensi raccolti il 25 maggio. Dovrebbe alleggerire gli organici dell'amministrazione pubblica, possibilmente senza pensionamenti anticipati; tagliare ulteriormente i trasferimenti agli Enti locali e rivedere l'autonomia di spesa delle Regioni; ridurre la spesa sanitaria aumentando il concorso dei lavoratori con i ticket. Renzi dovrebbe, insomma, fare l'esatto contrario di quello fin qui annunciato.
Il centrodestra italiano rifiuta un simile schema e diventa supporto, non si sa quanto involontario, al velleitarismo di Renzi. Tutto in nome della resistenza al potere straripante della Germania. Viene da chiedersi se la Spagna, il Portogallo, la Grecia, l'Irlanda hanno accettato supinamente lo strapotere tedesco inchinandosi ai diktat della cancelliera Merkel. Nessuno però che si chieda perché quegli stessi Paesi, pagando prezzi socialmente rilevanti, si trovano oggi in condizioni nettamente migliori rispetto all'Italia e con una capacità competitiva superiore. La crescita è rimasto un problema soprattutto italiano e francese. Cioè dei due Paesi che più tentennano sulla via delle riforme. Non è per caso.

 

mercoledì 18 giugno 2014

IL TEMPO È DENARO, E BERLINO REGALA TEMPO A RENZI

di Massimo Colaiacomo
Il destino del governo Renzi è legato a doppia mandata alle riforme: farle, e in tempi rapidi, significa acquisire titoli presso la Commissione europea; farle bene, e credibili, significa ottenere dall'azionista di riferimento della UE, Angela Merkel, una dilazione dei tempi. Sembra essere questo il senso delle dichiarazioni rese tamane dal portavoce di Merkel, Steffen Seibert, rispondendo, durante la conferenza stampa settimanale, a una precisa domanda sulla proposta di Sigmar Gabriel, il ministro socialdemocratico dell'Economia.
Che cosa ha suggerito Gabriel? In una conversazione con la Bild Zeitung, Gabriel ha avanzato una proposta per così dire di tipo cronologico: dare tempo a Italia e Francia per fare le riforme incisive attese dal resto d'Europa. "Ci vuole più onestà nel dibattito. Noi tedeschi oggi stiamo meglio di molti altri Stati perché - ha ricordato Gabriel - con l'Agenda 2010 di Schroeder ci siamo imposti un duro programma di riforme. Ma anche allora abbiamo avuto bisogno di tempo per ridurre il debito. Il ministro dell'Economia socialdemocratico ha ripreso un'idea lanciata nei giorni scorsi a Tolosa. "Un'idea potrebbe essere che coloro che riformano i loro Stati ottengano più tempo per l'abbattimento del deficit. Quindi riforme vincolanti in cambio di più tempo nell'abbassamento del deficit". Su questa posizione il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble ha già fatto sapere attraverso un portavoce di non essere d'accordo: "Il patto di stabilità e crescita contiene già abbastanza flessibilità", è stata la replica, e le regole "vanno rispettate come sono, perché in gioco c'è la fiducia" nell'euro.
Schaüble è incrollabile nel suo ruolo di guardiano della stabilità monetaria. Ma l'apertura di un dibattito tanto vigoroso in seno al governo tedesco è la spia di un disagio che monta a Berlino, anche a seguito dei risultati elettorali del 25 maggio. In fondo, la concessionedi più tempo ai governi italiano e francese per varare le riforme non è un cedimento all'Italia né costituisce una violazione "quantitativa" del Patto di stabilità e crescita. Semmai ne rappresenta una diluizione temporale, senza rimetterne in discussione gli obiettivi.
In questa direzione è sembrato andare lo scaltro Seibert, nella conferenza di stamane, quando in risposta a una domanda ha precisato che Angela Merkel e Matteo Renzi ''sono unitinella convinzione che servono crescita e lavoro. E si può ottenere attraverso tre cose: riduzione del deficit, riforme e mantenendo fede a ciò che si è concordato. Perché è una questione di fiducia nell'Europa''. Per concludere che nel governo tedesco "c'è unità sul fatto cheil patto di stabilità e crescita non debba essere cambiato''.
Parole chiare non meno dei sottintesi e dei silenzi che si portano dietro. Né Renzi né Padoan hanno chiesto mai di cambiare le regole del Patto. A parte la Lega Nord, Fratelli d'Italia, Forza Italia e Sel, nessuno mai dal governo italiano ha chiesto di cambiare le regole,  le procedure e i parametri del Patto di stabilità e crescita. La vera posta in gioco è il "tempo". In gioco c'è appunto il rinvio del pareggio di bilancio al 2016 invece che al 2015. In gioco potrebbe esserci, da qui alla fine del semestre italiano, il rinvio della ulteriore riduzione del deficit, previsto allo 0,6% nel 2016.
Del resto, che altro fa Mario Draghi dalla tolda della Banca centrale europea se non "comprare tempo" per consentire ai governi rimasti indietro di accelerare sulle riforme? Quando nel luglio 2012 varò l'OMT (Outright monetary transaction), il piano di sostegno ai titoli del debito pubblico, altro non fece che contribuire a ridurre drasticamente lo spread fra i titoli italiani e quelli tedeschi, creando le condizioni monetarie più favorevoli per le riforme. Che non sono state fatte o, quelle fatte, non sono risultate incisive come si aspetta l'Europa ma soprattutto come richiedono le condizioni della nostra finanza pubblica.
Matteo Renzi ha bisogno di una cornice temporale meno affannosa. Il premier "di corsa" deve rallentare il passo se vuole dare sostanza e incisività alle riforme e non ridurle a semplice belletto. Questa è la sfida che lo attende in Europa. E su questa strada sa che troverà in Italia un fronte antieuropeista agguerrito (dalla Lega a FdI, passando per quel caos che è oggi FI, e M5s). Meno riforme ma migliori e più incisive, ad esempio sul lavoro, di quelle fin qui viste. Se Renzi saprà convincere l'Europa su questo terreno avrà gioco facile. Se invece continua nell'illusionione di un riformismo fantasmagorico ma di incerta o poca sostanza, rischia di complicarsi la vita.

SULLE RIFORME RENZI HA RISCRITTO IL PATTO CON LA LEGA

di Massimo Colaiacomo

    Il cosiddetto "Patto del Nazareno" siglato da Berlusconi e Renzi nel febbraio di quest'anno rimane un passaggio chiave di questa convulsa stagione politica. I contenuti di quel patto, o almeno quelli resi noti, prevedevano alcune riforme: quella del Senato, non più eleggibile e ridotto a organo rappresentativo di secondo livello; la riforma del Titolo V, con una migliore ridefinizione delle competenze di Stato e Regioni e la riduzione delle materie concorrenti; la riforma elettorale, approdata poi a quello che molti considerano un obbrobrio, il cosiddetto Italicum. Né la riforma presidenzialista della Repubblica né altri cambiamenti della Costituzione sono stati negoziati in quella sede.
    Il Patto è stato co cordato da due esponenti politici non parlamentari, ma leader dei rispettivi partiti: legittimato Silvio Berlusconi dal voto popolare, ma delegittimato dalle sentenze di condanna per Mediaset; legittimato dalle primarie del suo partito ma non dal voto popolare era invece Matteo Renzi.
    Quattro mesi dopo, la condizione personale dei due leader è profondamente mutata: Matteo Renzi, divenuto nel frattempo presidente del Consiglio, ha ricevuto un plebiscito popolare, raccogliendo il 41% dei voti alle europee; Berlusconi, dopo le sentenze della magistratura, è stato condannato anche nelle urne con il suo partito crollato al 16 e qualcosa per cento.
    Se muta radicalmente lo status dei contraenti, un Patto politico non ancora trasformato in legge del Parlamento può dirsi ancora valido? E in che misura il più forte dei contraenti potrà pretendere modifiche e aggiustamenti confidando nell'assenza o nella debolezza della reazione della controparte? Il potere del vincitore, nel nostro caso, risulta oltremodo accresciuto dall'improvvisa conversione riformista di forze come la Lega Nord e, soprattutto, il M5s di Beppe Grillo.
     Se quelle di Grillo sono aperture in parte strumentali e in parte provocatorie (il ritorno al proporzionale ha ottenuto il benestare della Lega ma si sa che stuzzica anche i desideri in FI e Pd per non dire dei cespugli centristi), quelle della Lega Nord sono vere e proprie disponibilità politiche che il lesto Calderoli ha già trasformato in emendamenti d'intesa con l'altro relatore del provvedimento, Anna Finocchiaro. Come leggere queste convergenze se non come un allargamento del Patto del Nazarenosoggetti politici e come la conferma della crescente marginalità di Forza Italia al tavolo delle riforme?
     La sortita presidenzialista di Forza Italia ha il sapore di un gesto disperato. Concepita da Berlusconi per portare il partito fuori dall'angolo e recuperare un minimo di visibilità, la proposta berlusconiana nasce senza capo né coda. Basterà pensare al marameo ricevuto ieri in Commissione da Calderoli e Finocchiaro che hanno concordato l'emendamento per definire la composizione della platea parlamentare per l'elezione del Capo dello Stato. È penoso quanto si vede in queste ore: Berlusconi tenta il rilancio in una partita che Renzi ha aperto con lui a febbraio e chiuso con la Lega a giugno. Se Berlusconi sfoglia i giornali di qualche tempo fa potrà leggervi il giudizio impietoso di Matteo Salvini, al quale FI ha reso omaggio come nuovo king maker del centrodestra firmando due referendum, che dell'ex Cav ha detto testualmente: ha ottant'anni, farebbe bene a ritirarsi. Questi sono gli alleati coltivati da Berlusconi e dalla sua corte piuttosto malmessa in arnese.

domenica 15 giugno 2014

M5S E LEGA APRONO A RENZI, BERLUSCONI SPALLE AL MURO

di Massimo Colaiacomo

Il tempo che scorre e la conclusione che si allontana sono i due elementi che stanno complicando la partita delle riforme. L'apertura di Grillo sulla legge elettorale e la richiesta di un incontro al PD non manda gambe all'aria il già traballante accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi ma sicuramente allunga i tempi dell'esame parlamentare e, soprattutto, riapre le ferite non del tutto rimarginate dentro il partito di maggioranza a lungo diviso sul rapporto con i grillini.
La mossa di Grillo, imprevista ma non del tutto imprevedibile, è un puro espediente tattico per mettere un bastone fra le ruote a Grillo. Ben altra è la portata politica dell'apertura del leader leghista, Matteo Salvini, pronto a discutere della riforma del Senato e a fornire i numeri eventualmente mancanti in Aula. Sia la mossa Grillo che la disponibilità concreta di Salvini mirano, sia pure per ragioni differenti, a neutralizzare il peso di Forza Italia nella partita per le riforme. A quattro mesi dalla sua nascita, il Patto del Nazareno sembra ormai al capolinea. Berlusconi, fino a ieri scettico sulla possibilità di un nuovo rendez-vous con il premier, dovrà rivedere i suoi piani se vuole salvaguardare il potere negoziale di Forza Italia. Diversamente, condannerebbe il suo partito alla marginalità politica.
L'improvvisa abbondanza di forni da cui attingere è una fortuna per Renzi ma, a ben vedere, nasconde anche qualche rischio. Con la nomina di Orfini alla presidenza del PD, Renzi ha chiuso, almeno per il momento, le laceranti dispute interne. Questa circostanza gli consente una grande libertà di manovra sul piano parlamentare ma al tempo stesso lo espone ai venti di un quadro parlamentare in rapido movimento.
I fautori nel PD di un accordo con Grillo sono ridotti al silenzio ma non del tutto spariti. Certo, Grillo vuole discutere di una legge elettorale proporzionale e già questa premessa rende agevole il rifiuto di Renzi a qualsiasi accordo. Ma l'insidia maggiore, a ben vedere, viene dal grave indebolimento di Berlusconi. Il contraente dell'accordo del Nazareno si scopre all'improvviso isolato e il suo rifiuto a costruire una posizione comune del centrodestra, mettendo allo stesso tavolo quanto meno Salvini e Meloni, per non dire di Alfano, sulla legge elettorale e sulla riforma del Senato si rivela adesso un grave handicap. Berlusconi ha concluso quell'accordo con Renzi quando Forza Italia era ancora un partito del 21%; la Lega disponeva del 4% e Beppe Grillo aveva scelto di restarsene chiuso in un angolo.
Quattro mesi dopo, tutto è cambiato. Berlusconi rinvia alla battaglia presidenzialista l'appuntamento per rimettere insieme il centrodestra. Ma rischia di essere un appuntamento tardivo e inutile se, nel frattempo, Renzi avrà chiuso con la Lega un accordo sulle riforme già all'esame del Senato. La tentazione presidenzialista è ben presente in Renzi, ma inserirla nelle procedure già avviate significa accettare un allungamento dei tempi e un rinvio alle calende greche con le riforme promesse e attese dai mercati e almeno dal 40,8% di elettori.
Rilanciando il presidenzialismo, Berlusconi ha tentato un diversivo per riconquistare un minimo di posizionamento strategico al suo partito. Ma il colpo sparato rischia di mancare il bersaglio: Renzi ha nel tempo un nemico temibile e difficilmente potrà accettare di allungare il brodo delle riforme senza esporsi al logoramento o, come lui ama dire, finire risucchiato dalla palude. Renzi ha invece tutto l'interesse a capitalizzare con Forza Italia le disponibilità al dialogo piovute in queste ore sul suo tavolo: Berlusconi non è in condizione di dettare condizioni ma, al dunque, si trova all'angolo e per lui si tratta di decidere se prendere o lasciare quel che Renzi è disposto a concedere. 

     

sabato 14 giugno 2014

NEL PAESE DEI PRESIDENZIALISTI IMMAGINARI

di Massimo Colaiacomo

La Costituzione può essere cambiata soltanto dal Parlamento. Il referendum propositivo non è contemplato fra gli strumenti del riformismo. Quello confermativo è obbligatorio ma solo nel caso le modifiche alla Costituzione vengano approvate dalla maggioranza semplice delle due Camere. Invece "non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti" (comma 2, art. 138).
Nel Paese dei "presidenzialisti immaginari" il dibattito sul presidenzialismo è ricorrente ma mai fondato su motivazioni serie e mai considerato come parte di un'architettura istituzionale articolata e complessa. Esso è piuttosto evocato di volta in volta per ragioni tattiche e di bottega politica: a Berlusconi come a Renzi non importa un fico secco del presidenzialismo. Che sia così lo confermano le loro stesse parole: per Renzi "se ne può parlare"; per Berlusoni è "lo strumento per riunire i moderati". Fra il disincanto del primo e le ragioni di pura convenienza politica del secondo non c'è una grande differenza. L'elezione popolare del Capo dello Stato è un fatto accessorio e utile per altre obiettivi. Manca in Renzi e manca in Berlusconi un intimo convincimento sulla ineluttabilità di quel passo, sulla sua forza dirompente capace di risollevare le sorti della Repubblica e imprimere una svolta, se non proprio arrestare, il declino civile dell'Italia.
Dei due è sicuramente Berlusconi ad alimentare la confusione maggiore. Ha fatto una campagna elettorale per le europee invocando fra le altre riforme la concessione di maggiori poteri al premier. Senza minimamente curarsi della contraddizione fra un premier con più poteri e un presidente della Repubblica eletto dal popolo. La geografia della balance of power è del tutto estranea alla view berlusconiana delle istituzioni. Se eletto dal popolo, sarà il Capo dello Stato ad esercitare il potere esecutivo, tutt'al più delegando un primo ministro di sua assoluta fiducia. In ogni caso, il potere esecutivo si trasferirebbe da Palazzo Chigi al Quirinale o, quanto meno, verrebbe esercitato in condomino (circostanza peraltro realizzata con i governi Monti e Letta).
L'opzione presidenzialista non ha mai avuto un grande seguito sul piano politico-culturale. La minoranza laica all'Assemblea costituente (Leo Valiani, Tommaso Perassi, Randolfo Pacciardi) tentò di aprire il confronto ma l'idea venne accantonata con la motivazione che il ventennio fascista escludeva allora e per sempre una forte concentrazione di poteri nelle mani di una persona, per di più in presenza di check and balances ancora da inventare.
Che poi il presidenzialismo sia destinato a tornare molto presto nei cieli dell'iperuranio dai quali Berlusconi lo pesca di tempo in tempo è dimostrato dall'assenza totale di ogni riflessione sul contesto istituzionale e procedurale che dovrebbe accompagnare una simile e radicale modifica. Per esempio, può un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo rivolgersi a un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti? Due fonti di legittimazione tanto differenti, diretta la prima e ricattatoria la seconda, a quale squilibrio di poteri esporrebbero la Nazione?
Dove il presidenzialismo vige, la bilancia dei poteri ha costruito degli istituti di garanzia inammaginabili in Italia. Se il Congresso americano blocca il budget, il presidente degli Stati Uniti deve acconciarsi a una faticosa mediazione, alla ricerca dei consensi indispensabili. La Costituzione gli dà i poteri e insieme ne disegna i limiti entro cui vanno esercitati. L'Italicum o il Porcellum che poteri riconoscono al Parlamento e ai singoli parlamentari nei confronti di un presidente eletto dal popolo? Sono questioni neanche minimamente sfiorate dalle proposte grossières fin qui ascoltate.
Sono queste considerazioni ad alimentare un sano e realistico scetticismo sulla possibilità che la riforma presidenzialistica possa fare anche solo un passo avanti. Con il risultato che altro tempo verrà perso e sottratto alla ricerca di soluzioni più consentanee alla tradizione politico-istituzionale italiana. Come il cancellierato tedesco o una semplice ma non meno efficace razionalizzazione dell'attuale ripartizione dei poteri da accompagnare a una rivisitazione degli istituti di garanzia. 

giovedì 12 giugno 2014

LA "DEMOCRAZIA" DI RENZI LEGITTIMA QUELLA DI GRILLO

di Massimo Colaiacomo

Qualcuno comincerà a chiedersi se esista qualche differenza fra la concezione della democrazia di Beppe Grillo e quella di Matteo Renzi. Per il comico è la "rete" a decidere su ogni questione e su ogni tema, i parlamentari devono limitarsi ad eseguire quello che gli internauti registrati decidono di volta in volta. Per Renzi, invece, sono gli elettori, con il voto plebiscitario del 25 maggio, che hanno avallato la direzione di marcia del segretario-premier. In entrambi i casi, i parlamentari devono adeguarsi alla volontà degli elettori. Quelli di Grillo sono in mobilitazione permanente, e dunque devono decidere di volta in volta; quelli di Renzi si sono pronunciati una volta, con il voto europeo, e da lì il premier fa discendere una legittimazione permanente per assumere qualsiasi decisione.
Tanto per Renzi quanto per Grillo, il Parlamento altro non è se non la cassa di risonanza di una volontà che si forma altrove - sulla "rete" o nelle urne - e deve perciò potersi manifestare nelle Aule parlamentari senza incertezze o sfumature. Grillo lascia che sia la rete degli iscritti a pronunciarsi. Renzi si è pronunciato, gli elettori lo hanno plebiscitato e dunque i parlamentari devono adeguarsi alla risposta affermativa data dagli elettori al premier. Non possono frapporsi fra l'uno e gli altri senza con ciò distorcere la volontà elettorale della quale il premier diventa l'unico, legittimo interprete.
È evidente che siamo in presenza di una modificazione profonda, prima ancora che della Costituzione che riconosce al parlamentare (art. 67) l'esercizio delle proprie funzioni "senza vincolo di mandato". Il pugno di ferro nel gruppo del PD al Senato costituisce senz'altro un'aperta violazione di questo articolo: con la rimozione forzata di Corradino Mineo e Vannino Chiti, e ieri la rimozione forzata di Mario Mauro, dei Popolari per l'Italia, si è di fatto realizzata una forzatura della Costituzione senza precedenti nella storia parlamentare.
Fare le riforme è l'obiettivo che il governo si è assegnato ed è giusto perseguirlo avendo su questo ricevuto il mandato pieno degli elettori. Fare le riforme nel rispetto della Costituzione è impossibile. Prima di Renzi ci avevavo provato i "saggi" voluti dal Quirinale e avevano messo a punto una procedura "forzata" dell'art. 138 della Costituzione. Allora e oggi, abbiamo acquisito la conferma che la Costituzione è stata concepita come un monolite e resa pressoché impenetrabile a qualsiasi opera di riforma.
Il sospetto è che i Padri costituenti, già nel 1946, diffidassero ... dei figli. Come impedire che si facciano del male o ne facciano all'Italia? Battute a parte, l'irriformabilità di una Costituzione o la sua riformabilità possibile solo aggirandone i vincoli e forzandone le norme è l'ulteriore conferma che l'Italia si era dotata di una Costituzione nient'affatto "la più bella del mondo". Allora ha ragione Renzi a tentarne la forzatura? No, Renzi ha torto marcio oggi, come ieri ce l'aveva Berlusconi e prima ancora il centrosinistra in versione ulivista, nel 2001.

La migliore riforma della Costituzione è quella che può scaturire da un Parlamento che la voti ma solo a maggioranza così da sottoporla a referendum popolare e lasciare che sia la maggioranza degli italiani a decidere. La Costituzione del 27 dicembre 1947 fu redatta dall'Assemblea costituente eletta con sistema proporzionale ma non fu mai sottoposta a referendum poiché l'Assemblea costituente, eletta con poteri redigenti, riassorbiva in sé una volontà popolare espressa "ante quem". Renzi ha interpretato il voto del 25 maggio come un mandato illimitato degli elettori a fare le cose che lui ritiene urgenti fare per cambiare l'Italia. È soltanto un'altra delle conseguenze prodotte dal Porcellum un meccanismo che ha introdotto in modo surrettizio il vincolo di mandato per i parlamentari. Essendo scelti e messi in lista direttamente dal leader di partito, a chi altri se non a lui devono rispondere? Gli elettori, cioè i cittadini perdono così due volte: il Parlamento non ha più poteri di intervento sulle iniziative del governo e il governo, costruendo una maggioranza di due terzi in Parlamento, può cambiare la Costituzione senza passare dal referendum popolare. Esattamente come nel 1947, solo un po' peggio.

DA FORZA ITALIA AL PARTITO CONTADINO POLACCO, LA PARABOLA DEL BERLUSCONISMO

di Massimo Colaiacomo

"I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza": si chiudeva così il telegramma del Comando generale, firmato dal generale Armando Diaz, datato 4 novembre 1918 ore 12. Secondo alcuni osservatori, questa chiusa (che il colto militare Diaz aveva ripreso pari pari da un passo del De bello gallico di Giulio Cesare) potrebbe ben adattarsi alla descrizione dello stato in cui versa Forza Italia. Lo smarrimento e il cupio dissolvi che si è impadronito del suo gruppo dirigente, malamente mascherato da piccole schermaglie polemiche all'indirizzo del governo, è la spia accesa di un'implosione ormai alle porte. Il tonfo elettorale alle europee, e la sconfitta ancora più bruciante alle comunali, hanno fatto da detonatore a una situazione diventata politicamente precaria dopo l'uscita dalla maggioranza del governo Letta.
Sullo sfondo, ad amplificare queste difficoltà, si staglia il paesaggio di rovine in cui si agitano alcuni dei principali protagonisti della stagione berlusconiana. Da Dell'Utri a Matacena, da Cosentino a Scajola fino al più recente scandalo che ha investito Giancarlo Galan, guardare indietro per Berlusconi significa scorgere un cumulo di macerie, politiche prima ancora che morali. E tutte quelle vicende sono lì come altrettanti atti d'accusa contro Silvio Berlusconi, unico e inavvicinabile deus ex machina di anni vissuti con baldanzosa dissennatezza.
È il sipario che cala su una lunga stagione politica per il cui bilancio è prematura ogni valutazione. Rimane in piedi il suo principale protagonista. A quanti negli anni passati pronosticavano imminente la fine di Berlusconi ma più lenta e travagliata quella del berlusconismo, la realtà ha dato una replica sorprendente: la stagione del berlusconismo è finita, ma Silvio Berlusconi è lì, sulla scena, anche se di lato e non pù sotto i riflettori.
Per fare che cosa? Non certo per riorganizzare il partito. Meno ancora per riunificare il centrodestra dal momento che proprio la sua presenza, causa delle tante scissioni dal PdL, è vissuta come il maggior impedimento per la rinascita del centrodestra. Il possibile obiettivo di Berlusconi è molto più modesto, e saggiamente proporzionato alle residue forze in campo (non piccole sul piano dei numeri, ma politicamente e socialmente irrilevanti): costituire un partito dell'8-10% formato dalla "guardia pretoriana", da coloro abituati a obbedire, combattere e tacere e farne una costola sulla "destra" dello schieramento. Insomma, una riedizione del Partito contadino polacco che negli anni '50 prima Bierut e più tardi Gomulka e Gierek indicavano al mondo come esempio di pluralismo politico del regime comunista.
Se davvero è questo l'obiettivo di Berlusconi non ci sarebbe da sorprendersi. Un piccolo presidio parlamentare, a guardia di precisi interessi aziendali, alleato del "renzismo" trionfante e ormai saldamente insediato nel cuore della società. Con il vantaggio, per Renzi, di neutralizzare ogni opposizione alla sua destra.
È evidente che il successo di un tale progetto, al quale si dice Berlusconi stia lavorando con i suoi più stretti collaboratori, riposa su un meccanismo elettorale calibrato sulle esigenze del Pd e, di risulta, sulle nuove, più contenute dimensioni dei resti di Forza Italia. Allora ecco che una legge elettorale basata su collegi uninominali con il sistema maggioritario, a un turno, potrebbe essere la risposta giusta. Per Forza Italia si aprirebbero due opzioni possibili: o presentarsi in alleanza con Renzi oppure, più probabile, immaginare accordi di desistenza molto forti ed eleggere propri candidati fintamente autonomi ma in realtà dipendenti dal Pd.
Un simile scenario può sembrare oggi inverosimile, ma potrebbe esserlo assai meno fra qualche mese. Berlusconi, in sostanza, avrebbe il compito di impedire la riunificazione del centrodestra e la costituzione di un'alternativa politico-culturale al renzismo.

Sarebbe in ogni caso un'uscita di scena poco decorosa sul piano politico. L'uomo che riuscì nel miracolo, vent'anni fa, di riunire quello che la storia aveva a lungo diviso, dovrebbe, vent'anni dopo, trasformarsi nel cuneo che impedisce una nuova riunificazione del centrodestra. Un parabola davvero triste per il protagonista di clamorose vittorie elettorali mai tradotte in solide e credibili politiche di governo. È invece sicuro che una simile strategia lascerebbe aperta la questione di ricostruire un centrodestra credibile, europeo ed europeista, come si trova in tanti Paesi dell'Unione europea.

lunedì 9 giugno 2014

PERCHÉ IL CENTRODESTRA SARÀ OPPOSIZIONE PER MOLTI ANNI

di Massimo Colaiacomo

La sconfitta di Forza Italia viene da lontano e soltanto il calcolo furbesco di qualche cacicco può spiegarla con la scarsa affluenza degli elettori ai ballottaggi. È una spiegazione penosa, autoassolutoria, tipica di un ceto politico che ha perso ogni contatto con la realtà del Paese e non riesce più a parlare alla società. Gli scandali e la degenerazione di un certo costume politico hanno avuto il loro peso: da Dell'Utri a Scajola, da Cosentino a Matacena, e in attesa di misurare l'abisso politico e morale della vicenda Galan, senza dimenticare la condanna a Silvio Berlusconi, per Forza Italia si sono spalancate da alcuni mesi le porte di un inferno che non si annuncia di breve durata.
La ragione per cui il partito non è ancora esploso, ma si avvia a una rapida frantumazione, va trovata nel ruolo che Matteo Renzi, con mossa calcolata, ha riconosciuto a Berlusconi quale interlocutore per le riforme istituzionali. E nell'intelligenza tattica avuta dall'ex Cav. nel cogliere questa opportunità.
La prospettiva delle riforme è linfa vitale per il governo e, di riflesso, per l'opposizione. Berlusconi non può smarcarsi dall'accordo del Nazareno senza con ciò accelerare la fine politica sua e di Forza Italia. Da questo punto di vista il suo potere negoziale è ridotto a zero.
Il partito è uscito con le ossa rotta dal turno amministrativo per ragioni diverse, gran parte delle quali riconducibili alla fine della leadership berlusconiana. Con i riflettori spenti sul più geniale organizzatore di campaign, Forza Italia si è rivelata per quello che è: una scatola vuota di idee e di proposte politiche, priva di una pur minima decorosa classe politica. Lo sciopero dei ballottaggi, come Berlusconi vorrebbe raffigurarlo, è qualcosa di più che una protesta: è il rifiuto degli elettori di votare per un ceto politico che non ha altra legittimazione se non quella che gli proviene dalle decisioni del capo.
Si può rinnovare un ceto politico venuto alla ribalta senza una legittimazione democratica? Evidentemente no. Per la prima volta dalla nascita della Repubblica è successo qualcosa di riviluzionario: i moderati, sempre maggioranza in Italia, non hanno dato vita a una maggioranza politica di centrodestra ma le hanno preferito una maggioranza di sinistra.
In queste condizioni può parlare di rinnovamento della classe politica di centrodestra soltanto chi deve salvaguardare le proprie, personali posizioni di potere, a cominciare da Berlusconi. Dietro il declino di ogni grande maggioranza politica c'è prima di tutto l'appannamento delle sue ragioni culturali e politiche. Forza Italia ha smarrito la (poca) cultura di governo mostrata nel ventennio berlusconiano e non ha avuto un ricambio di idee e di programmi, prima ancora che di uomini, per la pochezza dei suoi dirigenti.
Il centrodestra va rifondato per la ragione che il rinnovamento fondato sul book fotografico o attraverso un'operazione di casting è una follia che soltanto un Berlusconi in disarmo può immaginare. Forza Italia è stato percepito dagli elettori per quello che realmente è, cioè un partito sinceramente antieuropeista, populista, avversario dell'euro. La destra italiana è irriducibile agli schemi della destra conservatrice e liberale europea. La campagna antieuropeista messa in piedi costerà la rielezione a David Cameron e porterà al successo il suo rivale Ed Milliband.
In Italia, Matteo Renzi ha rubato la scena, il ruolo e la funzione a Forza Italia e può permettersi il lusso di indicare alla sinistra la meta del Partito della Nazione. Questo è il miglior regalo che Berlusconi e il suo amore per l'Italia hanno fatto ai moderati. Che alle urne, con questo centrodestra e con questo ceto politico decerebrato, non torneranno più per alcuni anni ancora.    

giovedì 5 giugno 2014

DRAGHI SCUOTE L'EUROPA, MA IN ITALIA NON SE NE ACCORGE NESSUNO

di Massimo Colaiacomo

Mario Draghi ha varato un ventaglio di provvedimenti (peraltro "non esaustivi", come ha precisato in conferenza stampa) e impresso una svolta nella politica monetaria della Bce al punto che si è intravisto per la prima volta un barlume di autonomia, e la politica italiana ha scelto il silenzio. Troppo impegnata nelle liti da cortile, nessuno, dalla maggioranza o dall'opposizione, ha colto l'importanza di quanto ha deciso il direttorio della Bce e i suoi riflessi sulla politica nazionale. Niente di niente.
Il centrodestra è troppo impegnato a leccarsi le ferite elettorali e, se possibile, a procurarsene di nuove con il confronto surreale dentro Forza Italia. Inutile aspettarsi commenti da Fratelli d'Italia, Lega Nord e La Destra di Storace, tutte formazioni che al solo parlare di Europa e di euro imbracciano il fucile. Lo spettacolo offerto oggi dal centrodestra che vorrebbe candidarsi a rappresentare i moderati italiani è davvero desolante. Da quelle parti c'è la desertificazione completa della politica. Non un fiato per plaudire o dissentire dalle decisioni di Draghi.
Per dire, il governatore della Bce ha offerto degli assist incredibili a chi avesse voluto criticare il governo Renzi (non il solo, per la verità: il francese Valls è ancora più immobile) quando ha osservato che le riforme strutturali sono un capitolo ancora tutto da scrivere in molti Paesi europei. Quando poi ha aggiunto che ci sarà un finanziamento robusto al sistema bancario, ma sotto condizione di favorire i prestiti alle famiglie e alle imprese, un cenno di approvazione sarebbe stato il minimo. Niente di niente.
Il centrodestra era troppo impegnato a difendere il sistema delle Camere di Commercio per il quale il buon Giovanni Toti ha speso parole accorate (bene tagliare la spesa pubblica, ma non usiamo l'accetta: né più né meno quello che ripete il presidente della Repubblica a conferma che lo statalismo è una patologia, un virus che non risparmia nessuna parte dello schieramento politico). 

Le decisioni odierne della Bce vanno nella direzione auspicata dai Paesi periferici e rappresentano un'ulteriore supporto di Mario Draghi nella complessa partita di risistemazione dei debiti eccessivi, ma esse sono un incentivo potente a stimolare la ripresa economica che tutti gli outlook vedono in affanno o ancora gracile. Come ogni medaglia, le decisioni della Bce hanno il loro rovescio: esse tolgono ogni alibi ai governi nazionali. Draghi ha insistito, come fa sempre, sull'urgenza di accelerare le riforme strutturali, capitolo sul quale il governo italiano è inadempiente al massimo grado, superato soltanto da quello francese. I vagiti del governo italiano, presentati da Renzi come riforme epocali, sono la direzione sbagliata che vanifica tutti gli sforzi del dinamismo messo da Draghi nella sua azione. Dove sono le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali? Dove la riforma del mercato del lavoro che restituisce all'impresa e alle sue esigenze un ruolo centrale e decisivo? Dove una riforma dell'apprendistato per cui un giovane riceve una formazione da un artigiano e ringrazia senza null'altro a pretendere? Dove è la riforma della contrattazione che trasferisce nel negoziato di impresa la parte economica e lascia a un contratto nazionale la negoziazione sui diritti? Di tutto questo non c'è traccia alcuna nell'azione del governo Renzi. Ma sono queste le riforme che Draghi è tornato a invocare. Nel centrodestra non se ne è accorto nessuno, sono tutti troppo impegnati a riconquistare i consensi perduti illudendosi di riconquistarli con il populismo old fashioned  di Berlusconi.