lunedì 29 luglio 2019

LA MOZIONE ANTI-TAV INSIDIA PER SALVINI
E CANTO DEL CIGNO PER M5S

Le strategie parlamentari utilizzate dalla maggioranza giallo-verde per non soccombere sotto il peso delle proprie contraddizioni sono in via di esaurimento. All’orizzonte, però, non si intravvede nessuna alternativa capace di ridare slancio alla legislatura o quanto meno di contenere gli effetti dirompenti generati dalla dialettica esasperata dentro la maggioranza. La mozione presentata al Senato dal M5s contro il Tav minaccia, a questo punto, se non di risolvere il prolungato braccio di ferro con la Lega quanto meno di incanalarlo su binario nuovo e diverso rispetto a quello visto dal 2 giugno 2018.
I boatos parlamentari raccontano infatti di un Salvini attivissimo sul piano della diplomazia parlamentare. Il ministro dell’Interno avrebbe sondato o fatto sondare i vertici di Forza Italia e del Pd per comprenderne l’orientamento di voto sulla mozione, partendo dall’ovvio presupposto di un voto contrario essendo entrambi partiti favorevoli al Tav. che cosa avrebbe cercato Salvini? Secondo alcuni, il leader leghista avrebbe argomentato con Forza Italia e con il Pd sull’utilità di un loro voto di astensione, che, è bene ricordare, al Senato equivale a un voto contrario e, di conseguenza, darebbe via libera alla mozione pentastellata con il risultato di bloccare nuovamente il Tav.
Tralasciando l’abnormità del risultato, avendo il Mit spedito la lettera con cui il governo ha dato via libera all’opera appena cinque giorni fa, rimane abbastanza fumoso lo scenario politico che potrebbe scaturire da una simile circostanza. Una spaccatura tanto clamorosa, con il M5s che tornerebbe padrone in Parlamento, e con il presidente Conte costretto a quel punto alle dimissioni, per andare in quale direzione? E perché mai Salvini dovrebbe puntare a tale esito non avendo la certezza del voto anticipato?
Viene da chiedersi come potrebbe il Pd accettare un accordo a tal punto suicida, in caso di voto anticipato, senza essersi prima assicurata la prosecuzione della legislatura con un altro governo “tecnico“. Questo potrebbe, effettivamente, essere il nocciolo di un’intesa: un governo tecnico che faccia la finanziaria per portare al voto il prossimo febbraio. Salvini avrebbe preso molti piccioni con una fava: altri dovrebbero accollarsi l’onere politico di una legge di stabilità quanto meno problematica; metterebbe un certo arco di tempo fra la crisi e il voto così da poter attaccare il M5s è sbiadire i mesi passati insieme al governo; avrebbe il tempo necessario per assistere alle ultime contorsioni di Forza Italia e imbarcarne quei naufraghi titolari di qualche gruzzolo di voti personali.
Un piano, insomma, troppo perfetto e tutto in discesa perché gli avversari si prestino docilmente alla sua realizzazione. Più verosimile appare invece l’intenzione di PD e Forza Italia di sminare il terreno parlamentare sul Tav, bocciando la mozione grillina e lasciando così al governo attuale peso di scrivere la legge di stabilità. Con il che lasciando a Salvini la decisione non facile di affossare il bilancio, il ministro Tria e il governo. A quel punto, per, il governo tecnico per la stesura del Bilancio diverrebbe una scelta obbligata, che Salvini dovrebbe subire e senza più la capacità di incidere. Una campagna elettorale urlata contro l’Europa sarebbe anche l’ultima spiaggia per il leader che volle incoronarsi re contro tutti.

lunedì 22 luglio 2019

I TORMENTI DEL PD, IL DILEMMA DI SALVINI E L'ARBITRO MATTARELLA


di Massimo Colaiacomo


     Può essere una riflessione ad alta voce, senza per questo anticipare un disegno politico, ma le parole al Corriere della Sera di Dario Franceschini, ministro nel governo di Matteo Renzi e oggi ben distante dall'ex leader, hanno cosparso quest'afosa mattinata di luglio di ipotesi politiche a una prima occhiata strampalate, salvo, a guardarle più da vicino, scoprire che sono assai meno bizzarre. Il succo del ragionamento dell'ex ministro è semplice: nessun governo Pd-M5s, però non è da trascurare la ricostituzione di un arco costituzionale, come era nella prima Repubblica, per stendere un cordone sanitario, allora attorno al Movimento sociale, oggi attorno a Matteo Salvini e alla Lega.
     Viene facile da commentare: se non è zuppa è pan bagnato. Franceschini muove da una considerazione che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire lo sfarinamento inarrestabile della maggioranza al punto che il governo è un sopravvissuto rispetto a un'alleanza finita già da qualche mese. La crisi politica non è stata fino a oggi formalizzata perché i suoi protagonisti non hanno ancora scritto un canovaccio sulla possibile uscita, e non potranno scriverlo fintanto che non avranno almeno intuito un punto di caduta. Per Salvini e Meloni, ma anche per Zingaretti e Berlusconi, la via d'uscita, almeno sulla carta, è semplice e lineare: si torna alle urne. Di fronte a uno schieramento così compatto per la fine della legislatura, che cosa è che frena Salvini dal provocarla?
     Come spesso succede in politica, le variabili finiscono per prevalere sul disegno dei leader e, di conseguenza, possono cambiare a tal punto il traguardo da tramutare un'agognata vittoria in una cocente sconfitta. Salvini e Meloni sono i due protagonisti che tutti i sondaggi danno con il vento in poppa, dunque sono loro più degli altri a poter trarre vantaggio dal voto anticipato. Però, Salvini ha assaporato il gusto amaro della vittoria alle europee, una vittoria dannunziamente "mutilata" perché se è vero che gli ha portato una dote elettorale cospicua, ha scoperto poi a sue spese che quei voti sono stati congelati nel capiente freezer dell'Unione europea. Inservibili a lui, inservibili a Ursula Von der Leyen, eletta invece con i voti decisivi dei grillini. Sconfitti sul piano elettorale, ma vincitori sul piano politico. Grazie alla regia di Giuseppe Conte e, forse, da remoto, di David Casaleggio.
     Perché sulle ambizioni e i progetti dei protagonisti, oggi dei litigi quotidiani domani, forse, di una crisi politica formalizzata, incombe il silenzio dell'arbitro istituzionale. Sergio Mattarella, si sa, non ama uscire dai solchi ben delimitati della Costituzione né ha mai tentato, almeno fino a oggi, di farsene un interprete creativo. Il suo scrupolo istituzionale ne ha fatto un custode fermo e determinato, limitandosi ogni volta a registrare la volontà politica dei singoli leader e a comporre il conseguente quadro di sintesi. Così è nato il governo giallo-verde, risultato di un "contratto" fra il partito vincitore, il M5s, e il terzo partito per numero di consensi. Un'alleanza, come Mattarella non si stancherà di ripetere ai suoi interlocutori, nata in Parlamento e grazie alla trattativa fra due partiti. L'unica in grado di esprimere una maggioranza in Parlamento, poiché il centrodestra, primo nei consensi elettorali, non disponeva della maggioranza alla Camera e al Senato. Né Salvini né Di Maio si erano presentati uniti agli elettori. Questo aspetto ha pesato e peserà naturalmente nelle valutazioni che farà il Quirinale il giorno in cui Salvini dovesse decidersi a far calare il sipario.
     Zingaretti ha ragione di dire che il PD è indisponibile a entrare in una nuova maggioranza, senza prima passare dalle urne. Non essendo chiaro il punto di caduta di un'eventuale crisi, come sbilanciarsi offrendo una disponibilità politica che potrebbe ritorcersi contro il PD in caso di voto anticipato? In questo caso, Zingaretti deve fronteggiare la fronda dei renziani, irriducibili nel rifiuto a qualsiasi intesa con il M5s. Un'opposizione tautologica, dal momento che lo stesso Zingaretti chiede le urne in caso di scioglimento. Evidentemente, sotto la chiarezza di ciò che brilla in superficie si muovono disegni più articolati, ancora inespressi. Di fronte ai tormenti del PD e al dilemma di Salvini se convenga una corsa elettorale, con tutte le incognite del Russigate, o un aggiornamento del "contratto" di governo, l'arbitro istituzionale non può che osservare. E registrare, quando si manifestano con chiarezza, le volontà dei singoli protagonisti. Come ha fatto, qualche giorno fa, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti recandosi al Quirinale per esprimere la sua indisponibilità a fare il Commissario europeo. Una scelta, a dire il vero, un po' singolare poiché Giorgetti avrebbe dovuto manifestare la sua volontà al presidente del Consiglio, unico titolare del potere di indicazione presso la UE. Ma Giorgetti ha preferito rivolgersi a Mattarella, considerato evidentemente un arbitro più vigile e distaccato rispetto alle sorti del governo.




lunedì 15 luglio 2019

DIETRO IL "CASO SAVOINI" C'È UNA POLITICA ESTERA SENZA DIREZIONE


di Massimo Colaiacomo

     Le indagini avviate dalla procura di Milano faranno il loro corso, fra colpi di scena più o meno risolutivi, e tutta l'attenzione mediatica sarà focalizzata sulla dimensione giudiziaria del "caso Savoini". Più indietro, e ancora parzialmente in ombra, rimane una questione forse più grave anche se di minore impatto sul piano della cronaca. Si sta parlando della politica estera del governo giallo-verde, dell'improvvisazione e delle acrobazie con cui si muove sulla scena europea e internazionale privo come è di una direzione. Prima l'accordo con la Cina, voluto e perseguito con abnegazione dal vice premier grillino Luigi Di Maio, poi la visita di Salvini a Washington e il semaforo verde dato ai principali dossier cari alla Casa Bianca (Tap in cima a tutti). Quindi l'incontro con Vladimir Putin, a Roma, lo scorso 4 luglio (en passant, è l'Independence Day, festa nazionale americana) con la rinnovata promessa di Salvini al leader russo di impegnarsi per rimuovere le sanzioni occidentali a Mosca. Frammezzo a questi "giri di valzer", l'unica direzione presa con una qualche determinazione è l'allentamento dell'ancoraggio dell'Italia all'Unione europea.
     Ai tempi della Triplice Alleanza (siamo nel 1880-1882) i governi italiani, nella fattispecie il governo Rudinì, strinsero accordi con Germania e l'Impero austro-ungarico in chiave difensiva rispetto alla Triplice Intesa (Russia, Francia, Inghilterra). Mentre l'Italia siglava la Triplice Alleanza, lo stesso governo firmava un protocollo segreto con il governo francese per la spartizione della Tunisia. Fu da comportamenti come questo che il cancelliere von Bulow potè definire la politica estera italiana come la politica di un Paese che amava fare "giri di valzer" con chiunque potesse tornare utile. Quell'Italia aveva ancora qualche giustificazione per tanta incoerenza: il Risorgimento si era concluso ma le terre irredente erano rimaste tali e dunque i governi italiani si ritenevano autorizzati a sposare i comportamenti più obliqui per raggiungere lo scopo.
     Più difficile, onestamente, trovare una qualche spiegazione alla politica estera del governo Conte. È vero che la politica estera italiana è stata spesso il terreno di scontro della politica interna (il caso più clamoroso fu Sigonella, con Spadolini e Craxi schierati su posizioni contrapposte pur essendo nello stesso governo), ma mai era successo che si mettesse in discussione l'appartenenza del Paese al sistema di alleanze internazionali che si identifica in qualche modo con la stessa nascita della Repubblica. Il lento e graduale disancoraggio dall'Europa (anche se è più retorico che concreto) sta spingendo l'Italia verso il largo ed espone il Paese alla mutevolezza dei rapporti fra le grandi potenze (Russia, Stati Uniti e Cina) senza peraltro avere gli strumenti diplomatici e la forza politica ed economica per reggere l'urto di interessi troppo sovrastanti.
     Se il "caso Savoini" può essere ragionevolmente riassorbito nella sua dimensione giudiziaria, sarà opportuno non sottovalutarne il suo significato sul piano della politica estera. Come ha scritto autorevolmente Stefano Folli (la Repubblica, lunedì 15 luglio) Salvini dovrà mostrare un sussulto di realismo e votare per l'elezione di Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione europea, senza curarsi troppo se i voti della Lega saranno aggiuntivi e non decisivi. È la sola carta di cui dispone il leader leghista per sottrarsi ai marosi delle tempeste internazionali. È evidente che un voto del genere costringe Salvini a una doppia capriola, perché si ritroverebbe a votare una candidata scelta da Macron e Merkel, cioè dai suoi nemici giurati. Questo è il prezzo necessario da pagare per essersi esposto in politica estera senza avere uno straccio di strategia, un canovaccio da seguire con il risultato di aver minato gravemente la credibilità residua dell'Italia.