domenica 29 settembre 2013

BERLUSCONI IN RETROMARCIA MA LETTA NON ESAGERI SE VUOLE ANDARE AVANTI

     Le colombe di Forza Italia hanno tirato fuori gli artigli. Il Cavaliere è come Napoleone incalzato dal generale Kutuzov. Se vuole evitare l'umiliazione di una Beresina parlamentare deve macinare politica snebbiandosi la mente dall'incubo della decadenza.

di Massimo Colaiacomo

     La swing policy fin qui seguita da Silvio Berlusconi nei confronti del governo ha lasciato molti cocci sul terreno. Se è vero che la scorsa notte è riuscito a dormire oltre 10 ore per la prima volta dopo 59 notti insonni, è pur vero che agli italiani deve aver tolto il sonno la giornata al cardiopalmo di ieri. I ministri del PdL dimissionari, una maggioranza accartocciata e quasi cestinata, hanno aperto crepe difficilmente ricomponibili sul piano politico. Però, si provi a guardare alla parte mezzo piena del bicchiere: il 4 ottobre, giorno che Berlusconi considera del Giudizio universale dal momento che la Giunta del Senato voterà la sua decadenza, potrebbe paradossalmente diventare il giorno del riscatto del centrodestra. Letta ha bloccato il decreto che doveva congelare l'aumento dell'Iva ma una ricomposizione della maggioranza, sempre possibile e sempre meno improbabile, potrebbe sbloccare lo stallo e Berlusconi, nel ruolo di martire che interpreta magistralmente, potrà mostrarsi come colui che rinunciando alla battaglia per la sua libertà si è sacrificato per il bene del portafoglio degli italiani.
     È una lettura, lo so, poco politica delle convulsioni di queste ore, ma per un personaggio imprevedibile e sempre desideroso di épater les bourgeois potrebbe essere la chiave giusta per comprendere capriole dialettiche altrimenti incomprensibili. Berlusconi ha la psicologia dell'uomo solo al comando,taggi e gli handicap del caso: può essere rapido nelle decisioni, ma anche rovinoso se sbaglia il calcolo delle conseguenze. Il che è esattamente quanto è accaduto ieri.
     Il Cavaliere è impegnato in queste ore in una difficilissima retromarcia, paragonabile per danni politici alla ritirata dell'esercito napoleonico quando, giunto a Mosca, trova la città bruciata e torna sui suoi passi per farsi decimare dalla fame, dal freddo e dalle battaglie ingaggiate dal generale Kutuzov.
     Letta si ritrova ora, paradosso di queste ore, il vento alle vele. Può alzare la voce, ma non deve esagerare se vuole rimettere insieme i cocci e riprendere la navigazione. Avendo chiaro che soltanto il ricompattamento di questa e non di un altra maggioranza può aprirgli la strada per altri mesi di governo. La trasformazione dell'esecutivo da governo di servizio in governo elettorale gli sarà resa impossibile dal suo Pd e in particolare da Renzi.
     Se a Letta è consigliabile di non esagerare, a Berlusconi si può suggerire di volare basso. Il PdL non è più diviso tra falchi e colombe ma rischia, da domani, di essere diviso tra chi lascia e chi rimane. E a lasciare non sarebbero pochi. Il Cavaliere lo sa ed è corso ai ripari nel modo che si è visto in queste ore. Potrà mascherare la sua ritirata con qualche espediente tattico, ma non potrà negarla. Non potranno negarla soprattutto i cosiddetti falchi, si chiamino Verdini o Santanchè o Capezzone: dopo l'affondo e il viso delle armi, saranno loro i veri sconfitti. Le colombe hanno tirato fuori gli artigli e ai fafalchino resta che travestirsi da pecore se vogliono assicurata una qualche sopravvivenza politica. Nel PdL si stanno scontrando ambizioni e destini personali e la linea politica è poco più di un paravento. La scalata di Santanchè ai vertici del partito è fallita per la semplice ma non irrilevante ragione che essa rischia di portare il partito al fallimento e Berlusconi, se vuole tenere unito il PdL oggi e domani Forza Italia, dovrà ratificare questo risultato nella riunione dei gruppi parlamentari convocati per domani pomeriggio.

sabato 28 settembre 2013

L'AZZARDO DI BERLUSCONI IN UN SISTEMA ALLO SFASCIO


di Massimo Colaiacomo

     L'imprevisto, ma non imprevedibile, è accaduto. Silvio Berlusconi, si dice dopo aver saputo da Ghedini che erano in partenza ordini d'arresto nei suoi confronti, ha intimato ai ministri del PdL di dimettersi. Un gesto traumatico, figlio di una condizione disperata e di una condizione personale di forte sofferenza. Ha sbagliato? Ha fatto bene? Si potrà valutare dalle mosse successive perché in politica non esiste, come negli scacchi, la mossa risolutiva. Le dimissioni dei ministri precipitano il PdL in una condizione di isolamento politico e, sul piano mediatico, di sicura sofferenza. Ma, come si diceva, la politica è un arte in continuo divenire. La reazione di Enrico Letta ha sorpreso non meno delle dimissioni dei ministri del PdL. Il premier che usa parole taglienti non manifesta soltanto l'irritazione personale ma denota anche una condizione di impotenza rispetto agli sviluppi. Letta ha parlato stasera come un politico che sente di non avere ponti alle proprie spalle. Rimettere insieme la stessa maggioranza significa per Letta pagare un qualche prezzo sul piano programmatico (per esempio, la riforma della giustizia, invocata anche dal presidente della Repubblica).
     Una spia che gli eventi stessero precipitando si è avuta in mattinata quando il presidente Napolitano, in visita al carcere di Poggioreale, ha ripreso, quasi a freddo, il tema dell'indulto e dell'amnistia. Gli osservatori vi hanno letto il tentativo di socchiudere la porta per lasciar sfiatare gli umori sempre più densi e neri del Cavaliere. È invece probabile che Napolitano, avvertito delle intenzioni di Berlusconi, ha compiuto un ultimo affannoso tentativo di moral suasion.
     Berlusconi ha sbagliato i suoi calcoli? Oppure il suo azzardo è il risultato di un ragionamento politico su tempi più lunghi? Potrebbe avere sbagliato, per due ragioni: l'impatto mediatico, e sui mercati, è sicuramente negativo per l'Italia e pesantemente negativo per i consensi del PdL. Potrebbe invece aver fatto un calcolo più ambizioso. Il governo ha lasciato aumentare l'IVA e presto tornerà l'IMU con la sua seconda rata. Questi sono i primi prezzi sul conto di ogni famiglia italiana. Ma altri si preparano, con la ripresa dello spread e l'ulteriore riduzione del credito alle imprese.
     Enrico Letta che cosa potrà dire e fare martedì in Parlamento? Intanto, non potrà più dire prendere o lasciare. Per la ragione che i ministri del PdL hanno già scelto la seconda opzione. Davanti a Letta si aprono due strade: ricomporre la maggioranza, facendo concessioni al PdL sul piano del programma, magari affrontando la riforma della giustizia definita "gravemente malata" da Nichi Vendola; oppure tirare dritto, dimettersi e tornare in Parlamento a cercarsi una maggioranza ancora più raccogliticcia. Per fare che cosa? La riforma della legge elettorale? Con chi, se Grillo e Casaleggio hanno già detto che è meglio andare a votare con il Porcellum? C'è poi un ulteriore risvolto personale: Letta non rischia, con un governicchio rabberciato, di aprire un'autostrada a Renzi e precludersi ogni chance di restare in campo da protagonista?
     La reazione irritata di Letta alle dimissioni dei ministri del PdL è la spia di un uomo in affanno, ferito nelle sue ambizioni e malmesso nella sfida con Renzi. Questo non significa che Letta non provi anche una sincera afflizione per le conseguenze che la frantumazione del quadro politico provoca al Paese e agli italiani. Ma in circostanze drammatiche come questa è sempre la preoccupazione per il proprio destino personale che ha il sopravvento su tutto. Berlusconi non vorrebbe andare agli arresti domiciliari. Allo stesso modo Letta non vorrebbe chiudere in modo inglorioso la propria carriera non proprio recente. Mentre Renzi scalpita, come è ovvio, per lasciare la panchina nella quale rischia di rimanere a lungo.
     Letta può scegliere la strada coraggiosa di recarsi in Parlamento, e lì rilanciare lae sul piano del programma. Certo, la riforma della giustizia ricompattarebbe il PdL e nello stesso tempo spaccherebbe il Pd. Letta ha provato, su mandato di Napolitano, a mettere insieme uomini e storie per vent'anni su barricate diverse e sempre generosi nello spararsi addosso.
     La crisi di governo è la somma di più crisi: della rappresentanza parlamentare, debilitata dal Porcellum; delle istituzioni, poiché l'esercizio solitario di un potere abnorme da parte del Capo dello Stato ha accentuato il distacco fra la volontà popolare e i poteri decisori; della "ruling class" italiana, ridotta dalla globalizzazione al ruolo di circolo per anziani. Sono tutte queste crisi che si possono leggere stasera dietro i miserevoli fatti di un'altra inutilmente incendiaria giornata di politica italiana.

giovedì 26 settembre 2013

BERLUSCONI HA RAGIONE MA SE SBAGLIA NEL DIMOSTRARLA AVRÀ TORTO MARCIO

BERLUSCONI HA RAGIONE
MA SE SBAGLIA NEL DIMOSTRARLA AVRÀ TORTO MARCIO

di Massimo Colaiacomo

     Il leader del PdL, e di quello che sarà, Silvio Berlusconi ha mille ragioni per lamentarsi del trattamento persecutorio a lui riservato dalla magistratura. Berlusconi è una vittima di un sistema giudiziario avvelenato, figlio marcio di quella stagione marcia che è stato il '68. In Italia, più che altrove, le fumisterie rivoluzionarie di quegli anni hanno sprigionato tossine mai rimosse dalla società nelle cui fibre, invece, si sono annidate fino a modificare il dna di un Paese prima di allora ripiegato su una certa operosa bonomia, condita dalla modica quantità di ipocrisia senza la quale nessuna società starebbe in piedi.
     Berlusconi deve decadere da senatore della Repubblica, così prevede la legge dopo una condanna passata in giudicato. La battaglia perché la sua decadenza non sia ratificata dal Senato, ma sopraggiunga per il verdetto della Corte d'Appello di Milano, è una battaglia sacrosanta e insieme donchisciottesca. Un leader ha tutto il diritto di salvaguardare la propria dignità e la dignità delle persone che nel suo nome sono state elette in Parlamento. Quella battaglia è sacrosanta anche e soprattutto per la salvaguardia della dignità di quei milioni di elettori che gli hanno tributato il loro consenso, in modo convinto e ripetuto.
     Le modalità della battaglia, quando i risvolti mediatici superano la sostanza giuridica e umana della stessa, sono però decisive per stabilire se Berlusconi si prepara a combattere una battaglia "giusta" o una battaglia "sbagliata". Aver ragione, nella vita, non serve a niente se non trovi qualcuno disposto a riconoscerla. Berlusconi troverebbe sicuramente alcuni milioni di italiani disposti a riconoscere le sue ragioni. E dopo? Per questo solo fatto si può sostenere che la giustizia è stata riformata, rimossi i catini di veleno dai quali si abbeverano quotidianamente magistrati, giornalisti e avversari politici in genere?
     La figlia del leader, Barbara, ha osservato, con il disincanto disarmante dei suoi giovani anni, perché mai altre forze politiche hanno scelto di formare due governi con suo padre se lo considerano un delinquente. Ragionamento che non fa una piega, sul piano etico e politico. Ma esso può essere ulteriormente sviluppato da Berlusconi medesimo se accetterà l'assegnazione ai servizi sociali. Teme di finire in galera? Beh, qualcuno dovrà pur chiedersi come può il Pd accettare di stare in maggioranza con un partito il cui leader è ristretto nelle patrie galere.
     Su questo punto è di assoluta saggezza la linea suggerita da Marco Pannella: Berlusconi accetti il verdetto di una giustizia marcia e avvelenata. Così facendo non si priva della sua dignità ma, al contrario, acquista un diritto ulteriore a contestare il marciume e la faziosità che ispira l'azione di magistrati animati da sentimenti ignobili che li conducono a svillaneggiare la loro funzione.
     Aveva ragione Piero Calamandrei: la giustizia è una spada senza l'elsa e chi la imbraccia deve fare attenzione perché oltre a tagliare può rimanerne ferito. Se Berlusconi sarà abbastanza intelligente, potrà lasciare alcuni milioni di feriti sul campo fino a oggi dominato dall'ipocrisia di rivoluzionari attempati e patetici. Se, al contrario, sceglierà di tirar giù il sipario, sul governo e sulla legislatura, sarà ricordato come una vittima della sua stessa miopia.

martedì 24 settembre 2013

MERKEL SA CHE COSA È BUONO PER LA GERMANIA E LO VORREBBE ANCHE PER L'EUROPA



di Massimo Colaiacomo

     Il trionfo elettorale di Angela Merkel è bene augurante per l'Europa e per la Germania. Come Konrad Adenauer, come Helmut Kohl, la cancelliera ha ottenuto il suo terzo mandato. Curiosità: i tre mandati sono toccati tutti a cancellieri democristiani. Perché è una vittoria bene augurante per l'Europa? Per diverse ragioni, che provo a elencare.
     Merkel è stata premiata dagli elettori tedeschi per ciò che ha fatto nel proprio Paese, per ciò che ha impedito venisse fatto da altri Paesi e per ciò che continuerà a fare o a impedire di fare. Sotto questo aspetto, il concetto di stabilità, caro all'animo tedesco, è il primo risultato le cui conseguenze si allungano su tutta l'Europa. Stabilità che significa continuità di politica economica e sociale. E continuità significa capacità di aderire alla realtà mutevole sforzandosi ogni volta di trovare risposte pragmatiche, costruite sul consenso politico e sociale. Un esempio: il bonus di 100 euro al mese alle mamme che scelgono di crescere in casa i bambini invece che affidarli all'asilo nido, ha fatto e farà ancora discutere, ma è una soluzione pragmatica che salta di slancio le diatribe sociologiche che un provvedimento simile avrebbe acceso in Italia. Se quella misura sia maschilista o anti-femminista è questione che neanche sfiora l'animo tedesco. È una misura dettata dal buon senso e dal realismo di un governante che fa i suoi bravi conti: quanto costa un bambino all'asilo, quanto costa lasciarlo a casa. Punto e basta.
     Dopo il terzo mandato, però, è difficile ipotizzare il quarto. Diciamo che Merkel viene a trovarsi nella disposizione d'animo propria di chi ha un orizzonte politico circoscritto, nulla ha da perdere e nulla da dimostrare. Può dunque dispiegare fino in fondo la sua visione dell'Europa e del ruolo che in essa deve svolgere la Germania. Il rigore dei conti pubblici, rimproverato a Merkel come a un bottegaio si potrebbe rimproverare la conta a fine giornata dell'incasso, è stato scambiato dai suoi avversari come l'obiettivo miope della politica tedesca. A parte il fatto che nessuno ha saputo proporre strade alternative - credibilmente alternative - pochi hanno considerato il fatto che la cancelliera tedesca ha sempre indicato nella solidità delle finanze pubbliche il presupposto per costruire una politica economica europea.
     L'Unione bancaria è un obiettivo urgente e non rinviabile, ma come negare che servano parametri di bilancio universalmente accettati, riconosciuti e condivisi da tutti gli istituti di credito? E quelli che hanno il portafoglio pieno dei titoli pubblici dei rispettivi Paesi - pensiamo alle banche italiane o spagnole o greche -  come possono esigere garanzie comuni sul piano europeo se il loro livello di rischio coincide con il livello di rischio del Paese?
     La grande coalizione, verso la quale spingerebbe la forza delle cose, non è un trauma per la società tedesca. Non solo, o non tanto perché c'è già un precedente, quanto per la ragione che il concetto di stabilità  è un valore acquisito dalle principali forze politiche di quel Paese. Pochi ricordano che la straordinaria stagione riformatrice di Gerhard Schroeder non trovò mai l'ostilità pregiudiziale della Cdu o dei cristiano-sociali bavaresi i quali, al contrario, votarono a favore della riforma sansanità di Schroeder che imponeva forti aumenti dei contributi a carico dei lavoratori.
     Dal 1999 al 2005, il cantiere delle riforme in Germania non ha mai conosciuto un giorno di tregua: dal mercato del lavoro alle pensioni, dalla sanità alla scuola. Schroeder ha rovesciato come un guanto la società tedesca. Niente di simile, purtroppo, è accaduto in Italia o in Spagna. E Merkel, che gli è succeduta nel 2005, non ha mai pensato di dover ritoccare una riforma. Semmai è chiamata ora a implementarle, per adeguarle alla mutata realtà delle finanze pubbliche. Stabilità, continuità e condivisione delle grandi linee di fondo: sono concetti che nel corso degli anni hanno costruito solidi ponti fra Spd e Cdu-Csu. Se alla Germania servirà una grande coalizione, difficilmente sentirete Merkel lamentarsi che "non è questo il governo che volevo". No, non lo farà mai. E la differenza con l'Italia, come si intuisce, è terribilmente enorme.

giovedì 19 settembre 2013

LA MAGGIORANZA SI SFARINA SULL'ECONOMIA, MA LETTA FA POCO PER IMPEDIRLO


di Massimo Colaiacomo

Il governo non vuole essere il punching ball per i partiti di maggioranza che se le danno di santa ragione e il premier Enrico Letta ha avvisato, rievocando una nota pubblicità degli anni Settanta, che non è diverso da quell'avvoltoio che metteva in guardia i suoi avversari dicendo che non era un ingenuo non avendo scritto in fronte Jo Condor. Battute di alleggerimento, senz'altro, ma rivelatrici di un brusco innazamento della tensione all'indomani del voto con cui la Giunta del Senato ha in sostanza indicato la via della decadenza da senatore di Silvio Berlusconi: una via senza ritorno né alternative. Una spia che la tensione fin qui tenuta bassa è in rapido innalzamento è la replica alle parole di Letta giunta in serata da un ministro dialogante come Maurizio Lupi: ha dato ragione a Letta avvisando però che non solo Letta ma neanche i ministri del PdL hanno scritto in fronte Jo Condor. "Si esce dalla crisi tutti insieme se si parla di crescita e di come dare una mano al Paese", ha chiosato Lupi.
La verità è che dietro lo stato di confusione della "strana maggioranza" si va delineando un percorso ineluttabile destinato a sfaldare quel minimo di coesione residua e a sfociare nel voto anticipato. Berlusconi, dietro la reazione irosa, ovvia e scontata, contro la magistratura politicizzata e una sinistra ad essa asservita, ha voluto silenziare la sua vicenda giudiziaria per rimuoverla dalle possibili cause di crisi. Un minuto dopo lo sfogo del videomessaggio, il Cavaliere ha lanciato però un chiaro segnale in direzione del governo: il braccio di ferro sarà sulla Legge di stabilità e sul Def. E i dati diffusi in serata vanno in una brutta direzione. Il Mef ha rivisto al ribasso le stime del Pil: -1,7% invece di -1,3 nel 2013; +1% invece di +1,3% per il 2014.
  Si prenda la vicenda dell'IVA. L'automatismo, per la verità umiliante, per cui un minuto dopo le parole del commissario europeo Olli Rehn il ministero dell'Economia ha lasciato correre la voce sull'inevitabilità dell'aumento dal 21 al 22% dell'imposta, non è stata una mossa politica azzeccata. L'idea che traspare da quella vicenda è di un'Italia che si "auto-commissaria" per evitare il commissariamento della trojka (Ue, Fmi, Bce). Ma ancora più inquietante è un altro aspetto: al di là degli aumenti di pressione fiscale, altre strade questo esecutivo non riesce a prendere. Il governo Letta mina la propria credibilità nel momento in cui annuncia che, ad ottobre, ci sarà un commissario per la spending review. Incredibile. Un anno e mezzo dopo la "performance" di Enrico Bondi (due mesi di studio per individuare tagli fino allo ... 0,5% della spesa, cioè 4 miliardi su oltre 800 miliardi di euro) nominare un altro commissario equivale a gettare la spugna sulla scena europea e a confermare che oltre la leva fiscale nessun governo italiano, di destra o di sinistra, ha la forza politica per andare.
La maggioranza, come avrebbe detto Rino Formica, è in via di sfarinamento. Non si intravvede, almeno da qui ai prossimi giorni, quale colpo d'ala possa inventarsi il premier per raddrizzare una barca che si prepara ad affrontare il mare tempestoso della legge economica con due ciurme ben decise a non confondersi nelle rispettive ricette per il risanamento ma tenute insieme da un incubo che non risparmia né il centrosinistra né il centrodestra: la scelta di tagliare in modo incisivo la spesa pubblica.
Se si vuole una conferma del virus del populismo saldamente annidato nella politica italiana, è sufficiente riandare alla settimana scorsa quando in Consiglio dei ministri sono stati approvati alcuni provvedimenti per la scuola. Il premier Letta e il ministro Chiara Carrozza hanno potuto annunciare, con un tono trionfalistico per i fortunati e luttuoso per i contribuenti, che entro il prossimo triennio ben 125 mila persone saranno assunte. I giornali hanno trattato la questione come marginale e nessun ministro, Pd o PdL, ha avuto obiezioni da muovere. Il minisro Carrozza, digiuna di matematica, ha precisato che queste nuove immissioni avranno un costo su base annua di circa 400 milioni. Nessuna obiezione. Nessuno che abbia preso una calcolatrice e moltiplicato 125 mila per 2000 euro lordi mensili per accorgersi che il risultato è 250 milioni ... al mese, moltiplicati per tredici mensilità fa 3,25 miliardi l'anno. E qui si potrebbe anche chiudere il coperchio sulla bara.

lunedì 16 settembre 2013

RENZI E BERLUSCONI, MINACCE SEPARATE MA ESPLOSIVE PER LETTA SE SI SALDANO


di Massimo Colaiacomo

La scena politica assomiglia sempre più a una di quelle matrioske della tradizione russa che tanto colpiscono la fantasia, non solo dei bambini. I riflettori sono puntati sulla Giunta delle Immunità, chiamata mercoledì pomeriggio a votare sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi sulla base della legge Severino. Ma ecco che dentro quella matrioska altre premono per uscire. Il quadro politico ribolle di mille questioni, non tutte visibili e immediatamente comprensibili ma non per questo meno dirompenti. Lo ha capito il presidente del Consiglio. Ospite di "Porta a porta", Letta non ha nascosto la sua irritazione per quanto accade nello scontro politico fra i partiti ma anche dentro il "suo" Pd. A chi altri si riferiva quando ha detto di non essere, lui e Napolitano, il parafulmine delle forze politiche? "Dico attenzione: non governo a tutti i costi, non possiamo essere io e il presidente della Repubblica i parafulmini e coloro che tengono in piedi tutto il sistema. C'è bisogno di una responsabilità collettiva". Per essere più chiaro, e sfuggire a ogni equivoco, Letta ha spiegato che la tenuta dell'esecutivo dipende da tante cose "non solo dalle scelte di Berlusconi". "Però" da alcune settimane al premier non è sfuggito il brusco innalzamento dello scontro tra i partiti. "Ci saranno anche dei motivi - ha osservato - ma non si può chiedere solo al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica di reggere, mentre tutti si danno botte da orbi".
A chi si riferisce Enrico Letta? Botte da orbi si scambiano con frequenza quotidiana Pd e PdL sulla vicenda Berlusconi. Ma è tutto lì? Non bisogna essere maliziosi per allargare lo sguardo e vedere il sostegno a quelle botte che viene ogni giorno da Matteo Renzi. Il quale si è trasformato in un globe trotter e celebrando a modo suo le primarie del Pd si porta da una festa di partito all'altra per menare fendenti. Pronto ad "asfaltare" il PdL o a stuzzicare il premier Letta perché non si accontenti soltanto di durare ma si preoccupi anche di fare. E Letta, senza mai nominarlo, contraccambia. "Non ne posso più - è stata l'intemerata di Letta - di quelli che dicono che in questi quattro mesi ci siamo girati i pollici". Chi altri, a parte Renzi, ha sostenuto quest'accusa contro il governo?
Letta ha capito non da oggi che le insidie maggiori alla tenuta del governo vengono dal fronte del Pd. Sa, o spera, di poter governare in qualche modo le conseguenze legate alla decadenza di Silvio Berlusconi. Ma non sa, e non può governare in alcun modo l'eventuale saldatura fra queste e la spinta di Renzi per andare alle urne. Come spesso accade, cause fra loro diverse si ritrovano a convergere verso lo stesso obiettivo.
Per questo motivo, Letta ha fretta di accelerare sull'azione di governo. Di mettere mano alla Legge di stabilità per attuare una prima riduzione della pressione fiscale e mettere più soldi nelle buste paga. Difficile però immaginare che possa godere di ampi spazi di manovra se è vero, come ha detto lo stesso premier, che le condizioni che a marzo ed aprile facevano stare l'Italia in bilico "non sono venute ancora meno". Cercare di spezzare l'assedio al governo rilanciandone l'azione sul piano fiscale appare al momento un gesto temerario se non disperato. Le risorse sono scarse e gli impegni di spesa contratti per il prossimo triennio sono davvero ingenti (si pensi alle oltre 126 mila assunzioni in programma nella scuola). E il commissario europeo al Bilancio, Olli Rehn, è pronto ad accendere il riflettore sull'andamento del rapporto deficit-Pil che, si teme a Bruxelles, potrebbe di nuovo superare l'asticella del 3%.
Su questo versante si riscontra l'insuccesso magiore del governo. Letta ha annunciato per settembre la nomina di un commissario per la spending review, un annuncio, per le condizioni della spesa pubblica, a dir poco lunare se è vero che a settembre il commissario comincia a studiare l'andamento della spesa pubblica che andava tagliata già da 10 anni. Insomma, Letta ha fornito inconsapevolmente nuove armi alle ironie di Beppe Grillo.
Le incertezze dell'esecutivo su questo versante segnalano un suo oggettivo indebolimento, in sede europea prima che interna. La credibilità dell'Italia si gioca sul giudizio emesso dai mercati, quando ogni mattina si accendono i monitor nelle sale operative. Essere stati superati dalla Spagna, che paga il 4% di interessi sui Bonos rispetto al 4,5% dell'Italia sui Btp è dovuto sicuramente alla confusione del quadro politico, come sostiene Letta. Ma è una considerazione che non può assolvere l'esecutivo per le inadeguatezze fin qui mostrate.
In questo scenario di fragilità oggettiva del governo ha il suo peso una vicenda come quella di Berlusconi. Il quale ha fatto sapere, attraverso il relatore di Giunta Andrea Augello che sta riflettendo "su una decisione importante da assumere: se confermare la fiducia al governo, se rimanere in carica, se aspettare il voto". Tre ipotesi in apparenza banali, ma non necessariamente disgiunte fra loro. Cosa impedisce a Berlusconi di confermare la fiducia al governo e dimettersi? O di aspettare il voto? O di ritirare la fiducia e non dimettersi, così da tentare una disperata uscita elettorale per spezzare l'assedio giudiziario? Al momento, quest'ultima appare la più improbabile delle tre ipotesi. Ma, come si diceva, la saldatura tra la fregola elettorale di Renzi e la rabbia del Cavaliere potrebbero sortire la peggiore delle risposte.

sabato 7 settembre 2013

BENE EVITARE LA CRISI, MA PER FARE CHE COSA?


di Massimo Colaiacomo

Un crisi di governo sarebbe una punizione severa per il Paese che sarebbe chiamato nuovamente nella trincea dello spread, e i sacrifici fin qui fatti (e quelli da evitare, come l'IMU) sarebbero vanificati, insieme alla riconquistata credibilità internazionale. Tutto giusto e innegabile. Finanche tutto vero. Dunque, avanti Letta. Bene. Per fare che cosa? Per intraprendere e sviluppare quale politica economica? Per ridurre il cuneo fiscale (gradualmente, si premura di chiarire il ministro Saccomanni) con quali risorse? Per abbassare le tasse tagliando quali spese?
Dagli anni '70, cioè con una Repubblica già ampiamente consolidata nella coscienza del Paese, la condizione emergenziale si è impadronita della lotta politica, ne ha dettato i temi, le modalità, ne ha scandito il respiro. Dal terrorismo all'inflazione, dallo Sme al taglio della scala mobile, dall'adesione a Maastricht a Tangentopoli, mai una volta che la politica abbia affrontato uno solo di questi passaggi con le armi della dialettica civile e ordinaria. Sempre, in ogni circostanza, si è respirato il pathos proprio di un Paese percepito all'ultima spiaggia.
La sindrome emergenziale è dunque un virus ben annidato nelle fibre più intime della vita pubblica e della storia repubblicana. Il nemico sempre alle porte contro il quale opporre una ferma, convinta e incrollabile resistenza è il leit motiv della politica italiana. La stabilità sempre invocata come una terapia miracolosa, scambiata per il fine invece che per lo strumento che consente di operare, incidere dove occorre, rimuovere, cambiare, innovare in profondità. Mai. Primur stabilitas deinde vivere. I governi servono per governare, cioè fare scelte, dolorose e impopolari nel tempo che ci tocca, non devono preoccuparsi della stabilità che non c'è ma guardare semmai alla stabilità che potrà venire dalle scelte che sanno e hanno il coraggio di compiere.
Enrico Letta rischia di essere risucchiato nella peggiore delle tradizioni democristiane. Per uno di quei sofismi che in Italia trovano terreno fertile più che altrove, la stabilità fin qui conquistata dall'esecutivo di "larga coalizione" ma di "corte intenzioni" ha coinciso con l'immobilità. Qualcuno sa dire che cosa è cambiato che sia davvero visibile e tangibile? Certo, ci sono 12 mila dipendenti in più nelle scuole e, nell'arco di tre anni, saranno stabilizzati 35 mila medici precari. Giusto venerdì 6 settembre, il Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti ha reso noto l'andamento dell'occupazione nel mese di luglio: +157 mila nuovi occupati, di cui 145 mila nel settore privato e 12 mila in quello pubblico.
In Italia l'unico settore che assorbe occupazione era e rimane quello pubblico. Quello privato è stato stremato dalla tempesta di tasse che piovono sulle nostre teste come meteoriti nella notte di San Lorenzo. Domanda al ministro Saccomanni: come sono state trovate le risorse per 47 mila nuovi dipendenti pubblici che saranno a carico dell'erario (non importa se statale o regionale, a pagare saranno sempre i contribuenti) per i prossimi 30 anni per un costo stimabile intorno ai 45-50 miliardi di euro? E come mai si trovano risorse simili e non si trovano 4 miliardi per eliminare l'IMU? Dal PdL, nato, come Forza Italia, dichiarando una schietta identità liberale e liberista, quali voci contrarie si sono levate contro una simile spalmata di spesa pubblica per i prossimi decenni? Anche da quel versante si è colto un silenzio cimiteriale.
Evitare la crisi di governo è la condizione preliminare per governare. Di crisi evitate se ne contano a centinaia rispetto alle poche veramente realizzate. Ma se si prova a fare il bilancio del buono che ne è venuto al Paese temo che molti "stabilizzatori", per dovere istituzionale, come Napolitano, o per convenienza personale, come Berlusconi, preferirebbero di gran lunga una nuova crisi. Per fare che cosa, però, non si sa perché la giostra riprenderebbe esattamente come prima.

venerdì 6 settembre 2013

LETTA SOPRAVVIVERÀ A SE STESSO MA L'ITALIA È SEMPRE ALLA DERIVA


   di Massimo Colaiacomo

     Il governo Letta ha raggiunto la soglia di inconcludenza tipica di ogni esecutivo costretto a subire tutte le contraddizioni di una maggioranza troppo ampia e confusa sul piano dei programmi e dunque scarsamente coesa sul piano politico.
     Enrico Letta è partito con il piglio giusto ma il progressivo sfarinamento della coalizione, sempre più impiccata alle vicende processuali di Silvio Berlusconi e ancora in queste ore a un passo del baratro, ne hanno fatto un re travicello. Con il passare dei giorni, l'esecutivo si sta condannando a sopravvivere a se stesso, sottoposto com'è a un logoramento tipico di una fine legislatura. Non è questo il caso di Letta, sul cui destino il presidente della Repubblica ha aperto un paracadute solido dal momento che Napolitano è pronto al gesto estremo delle sue stesse dimissioni qualora la maggioranza dovesse dissolversi in seguito a una crisi.
     Rimane, incontestabile, un dato di fatto: l'esecutivo ha fatto poco o nulla per aggredire le cause profonde della crisi nella quale si avvita l'Italia da alcuni anni. Le previsioni statistiche dei principali centri (dal Fondo monetario alla Banca centrale europea) sono impietose con l'Italia per la quale ipotizzano un rallentamento della caduta delle attività economiche ma il nostro Paese rimane, unico fra le potenze del G8, con il segno negativo davanti al Pil mentre per tutti gli altri diventa positivo già nell'ultimo trimestre del 2013.
     L'accento posto dal governo sulla crescita e sulla creazione di nuova occupazione  è sicuramente giusto. Come giusti sono gli sforzi per bloccare (attenzione alla parola: bloccare, che non significa ridurre) l'incremento della pressione fiscale. Il punto, come ha ricordato ancora stamane l'ex capo economista della Bce, il tedesco Otmar Issing, in un'intervista a la Repubblica, è la direzione di marcia sbagliata intrapresa dall'esecutivo Letta e dunque dall'opaco suo ministro dell'Economia. Troppe tasse, è in sintesi il pensiero di Issing, e nessun taglio di spesa: così si va a sbattere.
     Fabrizio Saccomanni si sta rivelando inadeguato nelle scelte fin qui compiute per fronteggiare la grave situazione economica. Egli si sta affermando come il portavoce più autorevole del PUS (Partito unico della spesa), unica forza davvero trasversale potendo contare in Parlamento su adesioni massicce, da destra come da sinistra. Su questo versante Letta deve scontare un insuccesso pari almeno al fiasco del governo Monti: nuove tasse e neanche un centesimo di spesa tagliata.
     L'ideologia statalista è radicata nelle fibre della Repubblica. Invocare la crescita per crere nuova occupazione è una litania stucchevole dal momento che nessun esponente politico, di maggioranza o di opposizione, ha mai partorito una sola idea su "come" crescere e con quali risorse. Da Grillo a Renzi a Letta la ricetta è unica ed è quella del PUS. Non a caso in un Consiglio dei ministri di fine agosto il governo ha potuto annunciare con l'enfasi populista tipicamente italiana che saranno 12 mila gli insegnanti che usciranno dal precariato per essere stabilmente assunti e, da qui a tre anni, saranno 35 mila i medici "stabilizzati" (eufemismo carino per dire che l'Erario dovrà provvedere a 35 mila stipendi!).
     Qualche tempo fa, quasi presaga di queste decisioni e ben conoscendo il costume corrivo italiano, la cancelliera Angela Merkel, durante una conferenza stampa congiunta con Enrico Letta, al termine di un colloquio, disse che non lo Stato ma le imprese devono essere il motore per creare nuova occupazione e produrre crescita, quella buona, non inflattiva e non debitoria. L'Italia, invece, deve prepararsi, con le scelte di questo esecutivo, a veder crescere il fardello del proprio debito per fronteggiare il quale lo Stato, in autunno, si prepara a n nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni. Esattamente come vent'anni fa. Allora fu il presidente dell'IRI, un certo Romano Prodi, a mettere in fila i gioielli di famiglia (Iri, Credito italiano, Banca commerciale, Telecom), oggi un suo quasi allievo si prepara a imitarlo. Se non si tassa si (s)vende qualcosa dell'argenteria rimasta in casa.
     Ecco: questa è l'immoralità vera e conclamata della politica. La rinuncia ad assumersi le proprie responsabilità, ad affrontare la realtà non con l'arma della verità ma con quella più maneggevole e docile della demagogia. Il governo Letta andrà avanti, per quella perenne emergenza nel cui nome sono stati compiuti i peggiori misfatti nella spesa pubblica. Il sole non tramonta sulle ambizioni di Letta o di Renzi ma il sipario calerà sull'Italia.