venerdì 27 dicembre 2013

I PANNICELLI CALDI DI LETTA DIVENTATO DI COLPO BABBO NATALE E BEFANA

 di Massimo Colaiacomo

Aveva detto Enrico Letta, da Bruxelles, che non si poteva chiedere a lui di diventare Babbo Natale senza con ciò compromettere l'andamento di finanza pubblica e riportare l'Italia dentro la procedura d'infrazione della Commissione europea da cui era uscita nel maggio 2013. Con il decreto "salva Roma", però, Letta ha subìto la metamorfosi che più temeva. È riuscito in un solo colpo a diventare Babbo Natale e la Befana, distribuendo regalie a dritta e a manca proprio come accadeva in altri tempi.
Quanto è successo ha dell'incredibile, e a poco vale invocare il clima affannoso in cui è stato partorito un decreto urgente senza il quale il sindaco di Roma avrebbe dovuto portare i libri in Tribunale. È dunque in un quadro confuso e in un Parlamento reso sempre ribollente dalle incursioni dei grillini che il governo ha partorito un pasticcio. Mettere la fiducia su un decreto, farlo controfirmare dal Capo dello Stato e, il giorno dopo, ritirarlo per le incongruenze che conteneva, trasmette l'immagine di un esecutivo allo sbando. Senza uno straccio di politica di bilancio che non preveda altro che tener fermo il deficit al 3%. Come dire, conseguito questo obiettivo Letta si ritiene sciolto da ogni altro obbligo verso il Paese. Un orizzonte tanto minimalista mal si concilia con i toni trionfalistici della conferenza di fine anno quando Letta aveva indicato nel 2014 l'anno dei quarantenni. Troppo facile ironizzare che se questo è il loro passo,  presto, molto presto, la scena politica dovrà riaprire qualche sarcofago per tirar fuori le mummie ...
È di tutta evidenza che l'esecutivo, come sostiene Brunetta, appare frastornato e la sua maggioranza solcata da tensioni politiche e contraddizioni programmatiche non facili da appianare. Lo stesso "job act" di Matteo Renzi, per ora più immaginato che elaborato, risente di un certo velleitarismo: assomiglia tanto a una bandiera da agitare in campagna elettorale e molto poco a un atto di governo di possibile se non facile realizzazione. Renzi ha taciuto sulle risorse necessarie per pagare due anni di reddito minimo agli over 18, invita ad abbassare i toni sull'art. 18 divenuto, a suo dire, una bandiera ideologica inservibile ma, così dicendo, dimostra anche lui di temere il conflitto con la Cgil. Perché l'art. 18, piaccia o meno, è un ostacolo ben concreto nella politica delle assunzioni per le imprese con più di 15 dipendenti. A Renzi non sono venute repliche dal centrodestra, che appare smarrito e confuso di fronte all'offensiva mediatica del sindaco fiorentino. Si sta parlando qui di un centrodestra che appare stravecchio e il cui leader sta lavorando a impostare un rilancio di immagine di Forza Italia nel più completo deserto di contenuti politici. A Renzi nessuno ricorda dal centrodestra che il socialdemocratico Gerhard Schröder in quattro ore di riunione del governo tedesco abolì, alla vigilia di Ferragosto 2003, l'equivalente dell'art. 18 italiano? E il tutto avvenne al termine di rapide consultazioni con sindacati e imprese?
Conta forse, come ricorda il ministro Quagliariello in un'intervista su l'Unità, una certa farraginosità dei meccaismi istituzionali, la macchinosità di un bicameralismo fatto più per complicare che per risolvere le questioni, ma alla fine dei giochi conta, e sempre è decisiva, la qualità della politica di governo. E in Italia rimane molto scarsa, ben al di sotto delle necessità del Paese per non dire rispetto agli standard europei.
La patologia non è di poco conto, come dimostra la vicenda rocambolesca e penosa del decreto "salva Roma". Un calesse su cui sono saliti gli interessi più disparati, in quella gara di campanilismi mai cessata in cui ogni parlamentare pensa ad arraffare qualcosa per sé o per il suo collegio, anche se il porcellum aveva cancellato i collegi. Ma siccome il tirono al giudizio degli elettori è sempre possibile, la gara a salire sul carro della finanza pubblica per saccheggiarlo non è mai venuta meno.
Che cosa è accaduto? Che il decreto "salva Roma", divenuto strada facendo uno di quei decreti omnibus che tanto male hanno fatto alle finanze pubbliche, è stato sostanzialmente bocciato dal Capo dello Stato dopo che il governo aveva messo e ottenuto la fiducia del Parlamento. Il risultato è stato una vera e propria ubriacatura della politica, in una hybris di populismi, da destra a sinistra, mai vista prima d'ora. Se un parlamentare di centrodestra, Francesco Aracri, presenta un sub emendamento con il quale si vuole impedire ogni esubero di personale nelle aziende comunali della Capitale, è evidente che l'ultimo liberale rimasto in Italia dovrà rassegnarsi e chiedere il passaporto per un qualsiasi altro Paese dell'Europa comunitaria. Il sub emendamento Aracri è stato naturalmente votato da tutti i gruppi, nessuno escluso. A conferma che la natura populista del ceto politico italiano non ha lasciato incontaminato nessun gruppo parlamentare.
Chi ritiene di essere un moderato e in quanto tale rappresentante di interessi sociali aperti al riformismo e al cambiamento pensa forse di essere moderato solo in quanto capace di "moderare" le iniziative altrui senza bisogno di averne di proprie. Se le cose stanno così, c'è di che disperare. I pannicelli caldi di Enrico Letta sono forse quanto di meglio (peggio) riesce a produrre la politica italiana in questaa stagione.




  

domenica 15 dicembre 2013

LETTA-ALFANO SOTTO LO SCIAME SISMICO DI RENZI

di Massimo Colaiacomo

Non c'è nessuna rottura all'orizzonte fra Renzi e Letta, ma non si vede neppure né il tempo né lo spazio per scrivere quel "patto" sulle riforme così solido e impegnativo da poter durare 15 mesi. L'incoronazione di Renzi leader del PD è avvenuta nel rispetto parziale delle liturgie di un tempo. Renzi ha smorzato i toni da palingenesi, ora che è segretario non gli sono consentiti. Ma non li ha abbandonati del tutto. Il suo discorso è stato un aut-aut non al governo ma agli alleati di maggioranza. O si fa così sul lavoro, sulle unioni civili, sulla Bossi-Fini oppure è "il pantano" e al PD, che porta il fardello del governo, tutto si può chiedere ma non di impantanarsi in nome di una astratta governabilità. Le sneakers che Letta indossava ieri, Renzi vuole metterle a tutto l'esecutivo per costringerlo a un cambio di ritmo.
Da ieri la sfida del sindaco ha un percorso più articolato, ma l'obiettivo è rimasto intatto. Disegnare per il governo l'orizzonte temporale di un mese entro cui fare la legge elettorale, la riforma del lavoro e non si sa quante altre cose, ricorda un po' l'ansia febbrile del vecchio massimalismo Anni '60 che Nanni Balestrini riassumeva nell'aforisma nenniano: "non sappiamo che cosa vogliamo, ma lo vogliamo tutto e subito".
Renzi ha colorato il suo discorso con qualche nuance populistica per lanciare la sfida a Grillo: un prezzo inevitabile da pagare per tentare di "agganciare" Grillo e costringerlo a combattere sul terreno della politica. Ma sul monitor del sindaco compare soltanto un bersaglio: la legge elettorale da fare prima di qualsiasi altro provvedimento.
Un'urgenza che Renzi non ha ritenuto di dover spiegare, né a Letta né a quello che da ieri è il "suo" partito. Si sa soltanto che dovrà conservare e rafforzare il bipolarismo e consentire appena contati i voti di sapere chi sarà il presidente del Consiglio e con quale maggioranza governerà. Per il resto, Renzi ha tenuto coperte le carte sui meccanismi e sulle tecnicalità. Per evitare, si presume, di mettere gli alleati nella condizione di "prendere o lasciare", il che equivarrebbe a dichiarare aperta la crisi di governo; dall'altro lato, tanta vaghezza consente a Renzi di lasciarsi aperte tutte le porte, per avere una legge elettorale approvata dalla "maggioranza residuale" o, in alternativa, da una maggioranza diversa. Difficilmente potrà cogliere l'obiettivo di avere insieme il voto di Alfano e Berlusconi, in aperta rotta di collisione, almeno fino a ieri, con il Cav favorevole al Mattarellum e Alfano al meccanismo del "sindaco d'Italia", maggioritario non si sa quanto ma sicuramente doppioturnista.
Come si regolerà Renzi di fronte a una matassa tanto intricata? Aspetterà che siano gli altri a fare la prima mossa, per capire quanto accidentato può essere il terreno di un'intesa, oppure lancerà la sua proposta con il rischio di trovare il primo Quagiariello che passa e proclama la crisi?
Forza Italia e Berlusconi per ora stanno a guardare. Il Cav ha lanciato un amo rispolverando, come Grillo, il Mattarellum. Renzi non ha battuto ciglio. Ma per Forza Italia, come per Grillo, c'è un problema che precede la legge elettorale: chi sarà il loro candidato premier? Il PD ha sciolto questo nodo. Si può supporre che il Cav aspetti di conoscere le disponibilità dei potenziali candidati prima di avanzare una proposta sulla legge elettorale. E anche Grillo non potrà sfuggire, come a febbraio, dall'obbligo di avere un candidato premier: quesa esigenza nel Mattarellum era più avvertita che nel "porcellum".
Sono ancora diverse le tessere del mosaico da mandare al loro posto. Le sortite di Renzi sul programma del governo (dalle unioni civili all'abolizione della Bossi-Fini) sono il tentativo scoperto, come ha riconosciuto un politico di razza quale Rosy Bindi, di alzare la temperatura fra gli alleati di governo, per provocarne la reattività. C'è da scommettere che una volta ottenuta la legge elettorale, con Alfano e gli altri che tengono botta e resistono, Renzi tornerà alla carica su qualche tema scabroso nel tentativo di provocare reazioni di rottura negli alleati. Il problema del sindaco fiorentino è di trovare qualcuno che gli levi le castagne dal fuoco, provocando la crisi di governo che il PD per evidenti motivi non può provocare.
Questa non è la strategia di Renzi, si sostiene da Palazzo Chigi, ma nessuno sa dire quale sarebbe l'alternativa a questo orizzonte. L'idea del "patto" è un espediente da assemblea, e ha funzionato egregiamente per mostrare, dopo alcuni anni, un PD finalmente unito attorno al suo segretario e nel sostegno al governo. Domanda: un PD unito attorno al segretario che ha fretta di portare a casa risultati, e unito attorno a un premier che deve camminare sulle uova per non rompere equilibri tenuti su con lo spillo, quanto può resistere senza finire in una crisi di nervi? Casini ha mostrato di avere intuito quanto il cambio di marcia voluto da Renzi finirà in tempi brevi col ripercuotersi sul governo. Il fiuto di un vecchio democristiano, sia pure acciaccato da mille battaglie, è rimasto intatto. Dovendo riaggiustare la linea in vista di nuove alleanze, Casini anticiperà tutti di qualche secondo nel salutare la maggioranza.

Il punto rimane sempre lo stesso: ma Berlusconi quale premier dirà di votare agli italiani? Finché questa domanda rimane senza risposta, Enrico Letta potrà contare su una navigazione relativamente tranquilla. Dopo, cambierà tutto e lo sciame sismico di Renzi potrà trasformarsi in un sisma vero e proprio.