giovedì 24 aprile 2014

RENZI DI CORSA FINO AL VOTO, MA SI LASCIA DIETRO MOLTI NODI

di Massimo Colaiacomo

Che sia un'intervista o un tweet, una conferenza stampa o una dichiarazione in video, il presidente Renzi va "dritto come un treno" e il governo procede come "un rullo compressore". Ogni tanto un rifornimento di fiducia in Parlamento e via. Raggiunto un traguardo, non importa come, non si ferma a consolidarlo o a spiegarne agli italiani la dimensione e l'importanza, ma indica subito quello successivo. Ha dimenticato gli sconti fiscali  per gli incapienti e le partite Iva? No problem, twitta Renzi. Ci sarà gloria anche per loro.
Cambia la scena, ma non lo spartito se si parla di riforme. Renzi fa spallucce ai senatori riottosi e ripete sicuro che il Senato non elettivo fa parte dell'accordo con Berlusconi e chi non è d'accordo dovrà adeguarsi. Non si cura se la proposta di Vannino Chiti ha il sostegno dei sentori grillini e il capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, si smarca dall'accordo per aprire al Senato elettivo. Renzi avrebbe potuto rispondere a loro come alla Camusso: ce ne faremo una ragione.
Questa strana miscela fatta di spavalderia e di hybris, di pragmatismo e di temerarietà è la cifra inconfondibile che ha fatto di Renzi, almeno finora, un avversario inafferrabile per Berlusconi e difficile da trattare anche per Grillo. Un po' come i grandi campioni della boxe, Renzi ha conquistato il centro del ring, anticipa l'avversario, è molto mobile sulle gambe e sa portare una varietà di colpi che frastorna chi gli sta di fronte.
A dispetto di questa immagine che Renzi proietta di sé, le cose sono però meno brillanti dell'incarto mediatico confezionato a palazzo Chigi. Ultimo ma non ultimo il decreto sull'Irpef, un'antologia di contraddizioni sul terreno della politica di bilancio. Lasciamo da parte il lato della spesa che interessa gli elettori di Renzi e coloro che lo diventeranno in quanto beneficiari dei provvedimenti. Dal lato delle entrate, che interessa elettori e avversari di Renzi, le cose sono alquanto confuse. Gli ormai famosi 80 euro al mese, contabilizzati per la verità in 640 euro annui e dunque in 51,7 euro mensili, dovevano essere finanziati per 4,5 miliardi di euro da tagli di spesa. Bene, dopo una spulciata dei colleghi de il Sole 24Ore si scopre che da quel versante saranno circa 3 miliardi le risorse disponibili. Il decreto poi non cifra minimamente i benefici di spesa derivanti dal taglio delle auto blu né dal tetto di 240 mila euro per i dirigenti pubblici, punto vagamente sfiorato nel provvedimento ma senza l'indicazione precisa.
Per non tacere di quei 755 milioni che invece finiranno nelle casse dell'erario grazie all'incremento dell'aliquota fiscale dal 20 al 26% sui conti correnti e di deposito. Una misura rimasta nascosta nel decreto. Sorprende ma non più di tanto la motivazione data dal ministro Padoan sull'incremento delle aliquote fiscali su azioni e obbligazioni (e, poi, anche sui conti correnti e conti di deposito): in questo modo si colpiscono le rendite finanziarie e si spostano risorse dalla rendita al lavoro e a favore dell'impresa per la quale è stata tagliata l'aaliquota Irap del 10% (circa 700 milioni di risparmio). 
Una simile affermazione si potrebbe accettare, tappandosi le orecchie, se fosse venuta da Renzi che deve prendere voti e quindi ha diritto a margini di banalità superiori alla media. A Padoan non si possono perdonare falsità e demagogia: considerare "rendite finanziarie" i risparmi investiti in azioni e obbligazioni da parte di risparmiatori, piccoli e grandi, che finanziano così l'attività delle imprese è sintomo di una pericolosa deriva demagogica. Padoan, ma anche i sassi, sanno che il vero rentier non è così sciocco da rischiare le proprie risorse in Borsa ma preferisce, proprio in quanto rentier, acquistare tranquilli Btp a 20 o 30 anni con lussuose cedole da 3,75-4% da staccare semestralmente per godersi la vita. Bene, questa seconda categoria di risparmiatori sarà incoraggiata nel suo dolce far niente da aliquote del 12,5%!!!! Uno scandalo visto solo in Italia. Né regge la spiegazione che l'aliquota al 26% allinea l'Italia agli altri Paesi europei.
È palesemente falso. Per la ragione che, tranne la Francia, l'Italia è il solo Paese che ha adottato la Tobin Tax, pari a un prelievo dello 0,22% su ogni transazione finanziaria. E questo si aggiunge al 26% e alle spese di bollo. Germania, Gran Bretagna e Spagna adottano aliquote elevate su tutti i diversi asset di risparmio: azioni, obbligazioni, titoli di Stato. In questo modo riconoscendo l'equivalenza del risparmio in tutte le sue forme.
Renzi ha alzato pericolosamente il livello della sua sfida. Il Quirinale ha formato il decreto Irpef, rassicurato in questo dopo il colloquio di Napolitano con il ministro Padoan. La rassicurazione maggiore non è certo nei contenuti del decreto al cui interno ci sono non pochi nodi da sciogliere. Essa viene data dalla cosiddetta clausola di salvaguardia, norma tampone imposta dalla Commissione europea: se le misure previste dovessero rivelarsi inadeguate per i saldi di bilancio, scattano in automatico aumenti delle accise su alcol, tabacchi ed energia. Clausola micidiale, sperimentata nell'ottobre scorso con l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%. C'è da giurare, e per questo l'autore di questa nota accetta scommesse, che la clausola farà il suo dovere in autunno, a ridosso della Legge di stabilità.
Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare che la Banca centrale di Madrid ha comunicato oggi la sua previsione sul Pil spagnolo stimato in crescita dello 0,4% nel primo trimestre del 2014. Meglio della Spagna dovrebbe fare la Grecia: le stime sono attese per le prossime settimane. L'Italia, al momento, è in coda a entrambi. Amen      

   

sabato 19 aprile 2014

PICCOLI TAGLI PERMANENTI, PICCOLI RIMBORSI UNA TANTUM

LA NAVE ITALIA INCLINATA SOTTO LA LINEA DI GALLEGGIAMENTO

di Massimo Colaiacomo

La conferenza stampa tenuta al termine del Consiglio dei ministri dovrebbe aver messo spalle al muro il più ostinato degli scettici sulle capacità affabulatorie del presidente Renzi. I provvedimenti presi, nel contenuto e nelle modalità, e la loro successiva comunicazione sono un vero autoritratto di Matteo Renzi. 80 euro ha chiesto e 80 ne ha ottenuti da mettere in busta paga il 27 maggio per tutti i redditi da lavoro dipendente compresi fra gli 8000 e i 25 mila euro. Niente per gli incapienti e niente per le partite Iva, cioè quella fascia di popolazione sulle cui spalle è stata caricato il peso maggiore della crisi di questi anni. Per loro si vedrà nel 2015. Renzi aveva bisogno di confermarsi l'uomo del "qui e subito" e lo ha fatto utilizzando quel mix di pragmatismo e spregiudicatezza che gli attirano simpatie crescenti e diffidenze resistenti. Il capolavoro di equilibrismo del Consiglio dei ministri ha evocato stagioni politiche molto remote.
Non una sola delle misure adottate ha la natura strutturale invocata dalla Commissione europea ogni tre per due. I tagli alle spese comprendono misure di grande impatto mediatico (5 auto blu per ogni ministero e i "sottosegretari vanno a piedi") ma di scarso se non nullo impatto sui conti. La misura più ragguardevole è anche la più precaria, e ci riferiamo all'aumento dell'aliquota dal 12 al 26% delle plusvalenze delle banche a seguito della rivalutazione delle loro quote di partecipazione in Bankitalia. Precaria perché c'è da scommettere che impugnata davanti alla Corte costituzionale le banche si vedranno riconosciuto il diritto a non vedersi cambiata retroattivamente l'aliquota fiscale fissata per decreto al 12%. Alle imprese viene riconosciuto uno sgravio dell'Irapa del 10%, il cui costo (700 milioni) è appena un decimo del costo degli 80 mensili (6,9 miliardi).
Piccoli tagli permanenti e piccoli rimborsi una tantum sono quello che resta della promessa di un grande shock per scuotere l'Italia. Con la grande incognita del rinvio del pareggio di bilancio (pareggio contabile e non strutturale) al 2016, per la quale si conoscerà soltanto a giugno il giudizio della Commissione europea. Ove questo fosse negativo si aprirebbe una voragine nei conti da stimare intorno ai 25 miliardi di euro.
È un quadro di assoluta precarietà finanziaria e di aggravata incertezza fiscale quello emerso dal Consiglio dei ministri di Venerdì Santo. Chi ieri criticava l'inazione del governo non può certo apprezzare l'iperattivismo confuso e azzardato. Renzi si muove però su un sentiero privo di grandi ostacoli. Il suo "populismo morbido" (definizione di Stefano Folli) non incontra ostacoli insormontabili nel populismo hawkish di Beppe Grillo o in quello old-fashioned di Silvio Berlusconi. Si tratta in ogni caso di tre modi diversi per dire che cosa non dovrebbe essere un ceto politico dignitoso.
La battaglia sul filo dei decimali che si combatte per il voto europeo è l'immagine malinconica di una classe politica al capolinea senza altro da dire o da dare all'Italia. L'unica via percorribile è anche la sola che nessuno dei personaggi citati ha il coraggio di affrontare, vale a dire raccontare al Paese che la nave è inclinata su un fianco e ben sotto la linea di galleggiamento. Il rapporto debito-Pil in salita al 134,9% per il 2014 è la controfirma al fallimento tecnico in attesa del verbale di conferma da parte dei commissari europei. Nel 2014 la Grecia crescerà quattro volte più che l'Italia e la Spagna almeno il doppio rispetto allo 0,qualcosa previsto per noi dall'Ocse.

In condizioni simili l'Italia viene a trovarsi scoperta sul versante decisivo della politica. Non un solo leader in grado, come Rajoy in Spagna, di dire ai propri concittadini che la spesa per i dipendenti pubblici di 167 miliardi di euro va tagliata del 10% con licenziamenti o decurtazioni di stipendi e quei risparmi vanno trasferiti alle imprese cancellando per intero l'Irap. Nessuno che sappia spiegare la necessità vitale di tagliare poi di un altro 10% la spesa pubblica per trasferire altri 16 miliardi alle famiglie abbassando la pressione fiscale di almeno 1,5 punti percentuali. Ecco, un leader che sappia frustare l'orgoglio nazionale e suscitare reazioni sociali di consenso a una politica vera di risanamento è la mancanza forse più grave. L'Italia sta in attesa di trovare il suo Mariano Rajoy.

venerdì 18 aprile 2014

FINO AL 25 MAGGIO GARA DI POPULISMI, MA L'ITALIA RISCHIA

di Massimo Colaiacomo


Il quadro politico si avvia verso nuove convulsioni a mano a mano che si snoda la campagna elettorale per le europee. La babele di questi giorni è purtroppo soltanto una tappa nella gara fra i populismi che si contendono il consenso elettorale. Da quello morbido di Renzi a quello hard di Grillo fino al populismo old-fashioned di Berlusconi, gli italiani sono chiamati a un bombardamento mediatico senza costrutto e senza orizzonte politico. Il rinvio del pareggio di bilancio al 2016 chiesto alla Commissione europea è uno smacco bruciante per il premier. Il quale, a poche ore dal Consiglio dei ministri, twitta per rassicurare che non ci saranno tagli alla sanità, né per gli insegnanti ma invece benefici fiscali per 15 milioni di italiani.
Se questo non è populismo come chiamarlo diversamente? E il Berlusconi vibrante e quasi rasserenato visto ieri che cosa è se non un populista quando chiede alla Bce di "stampare" più moneta e minaccia la Germania di chiedere i soldi indietro?
Il motivo di maggiore preoccupazione in questo momento è l'assenza completa di un ceto politico in grado di assumersi le proprie reponsabilità.  L'Italia rischia molto perché le riforme abbozzate da Renzi hanno la strada tutta in salita e il decreto sul lavoro, per esempio, è stato già stravolto nella Commissione Lavoro della Camera con modifiche restrittive dal lato delle imprese così che i benefici attesi in termini di assunzioni rischiano di essere vanificati.
Il Centro studi di Confindustria ammoniva, alcune settimane fa, su un'ulteriore perdita dei posti di lavoro stimata in circa 170-200 mila da qui a dicembre. Nessun posto di lavoro, ovviamente, andrà perso nella P.A. perché lo Stato dispone di un'arma negata alle imprese: le tasse. Un'impresa non può aumentare il prezzo della sua merce per pagare gli stipendi, perché deve tenere botta a una concorrenza spietata. Lo Stato non ha concorrenti in fatto di tasse. Incamera tutto ciò che vuole e di cui ha bisogno. Questa è la filosofia che governa tutte le maggioranze che si sono alternate alla guida dell'Italia almeno dal 1960 in avanti.
Si tratta, come può constatare ogni persona di buon senso, di una filosofia non di vita ma di fallimento assicurato della Nazione. L'Italia non ha la fortuna toccata alla Spagna con un leader come Mariano Rajoy che ha saputo tirarsi e tirare su le maniche dei suoi concittadini e con interventi socialmente sanguinosi ha salvato il Paese. Rajoy ha la statura di un vero leader e c'è da giurare che dopo i sacrifici impressionanti patiti dalla popolazione, ora che si appresta a staccare il dividendo politico del risanamento sarà pronto a vincere nuove elezioni nel 2016.
Per l'Italia l'attesa è ora concentrata sul mese di giungo, quando la Commissione europea farà conoscere la sua valutazione sulla richiest dell'Italia di rinviare al 2016 il pareggio di bilancio.  Che cosa accadrà se a giugno la Ue darà un giudizio negativo? Quali manovre finanziarie dovrà fare Renzi? Oppure quali decisioni impopolari fin qui rinviate da tutti, si chiamassero Monti o Letta, dovrà assumere Renzi?

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Il vuoto creato da un ceto politico imbelle e al di sotto della decenza è un macigno inamovibile sulla via delle riforme. Le riforme non si faranno o si faranno nel peggiore dei modi per la ragione che un'alta percentuale di parlamentari non sa neppure dove stia di casa il senso dello Stato o il coraggio di assumere decisioni gravi nell'interesse della Nazione (infatti ignorano questo termine al quale preferiscono un più modesto "Paese").   
Su questo terreno Beppe Grillo gioca con abilità la sua partita. Accusato di antieuropeismo, ha maliziosamente fermato questa deriva quando si è chiesto se davvero convenga all'Italia lasciare l'Euro correndo il rischio di accollarsi una bolletta energetica di oltre 110 mila miliardi di vecchie lire. In questo modo Grillo va a intercettare l'antieuropismo morbido di Berlusconi dal cui partito, secondo gli ultimi sondaggi, potrebbe portre via 3-4 punti percentuali.
Peggio di tutti si trova proprio Berlusconi. Europeista e anti nel volgere di poche ore, continua a tenere aperto il fronte di contestazione verso la Germania e la Merkel, quasi ignorando che nel Parlamento europeo siedono sugli stessi banchi. Un'ingenuità incredibile da parte di chi è stato considerato un maestro nella comunicazione.
Berlusconi ha avuto l'intuizione, nel 2011, di scuotere l'Europa dal rigorismo assoluto e porre, con largo anticipo, il tema della crescita e dell'occupazione. Bene, si rivelò quasi profetico visto che oggi tutti parlano e invocano politiche per la crescita. Ma la gestione politica di quella intuizione sacrosanta è stato quanto di più catastrofico potesse fare. 
Alimentare lo spirito antitedesco, così come la pretesa di Renzi di accerchiare la Germania costruendo un asse con la Francia e la Spagna (suggerimento di Prodi) denota una cecità politica preoccupante. La Germania non va isolata, semmai va coinvolta pesantemente e strattonata perché si assuma fino in fondo la responsabilità di una leadership politica, con gli obblighi che ne derivano. È lo schema esattamente opposto che Berlusconi, Renzi e Grillo dovrebbero sposare per sfidare la Merkel.

E poi le riforme fin qui non fatte e che nessuno farà in Italia. Per questo l'unica vera speranza per cambiare l'Italia rimane la trojka economica. Quella, sì, sarebbe #lasvoltabuona. 

martedì 15 aprile 2014

BERLUSCONI, È GIÀ UN'ALTRA STORIA

di Massimo Colaiacomo

Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha dato soddisfazione alle richieste dei difensori e per Silvio Berlusconi si aprono le porte dell'ospizio di Cesano Boscone dove dovrà recarsi una volta alla settimana per fare assistenza ai suoi coetanei. Pena mite o solo ingiusta, come sempre secondo i punti di vista, il fatto è che da oggi l'Italia entra in un'altra storia e il centrodestra, sempre più disarticolato, non esiste se non come espressione. Riferiscono i soliti informati che Berlusconi sarebbe stanco delle beghe da cortile e delle polemiche senza costrutto. Il che è probabilmente vero. Ma quelle beghe e quelle polemiche sono state e sono provocate dall'assenza di un condottiero stremato, forse nauseato da una politica che non lo ha mai appassionato fino in fondo.
Viene in ogni caso da chiedersi come possa un partito ridursi nelle condizioni in cui è Forza Italia. L'assenza del leader-padrone ha il suo peso, ma ancora più decisiva è l'assenza di un ceto politico adeguato. I gruppi parlamentari di Forza Italia non esprimono nessuna (cultura) politica e i singoli parlamentari, con le eccezioni del caso, sono personaggi spuri rispetto al ruolo che dovrebbero ricoprire. Si tratta di persone improvvisate, incapaci di esprimere valutazioni un minimo argomentate sulle questioni di maggior momento.
Forza Italia aveva suscitato un grande sogno e gli italiani l'avevano accarezzato: trasformare l'Italietta provinciale in una moderna democrazia di impronta liberale. Con uno Stato meno invadente nell'economia e nella società. Erano le intuizioni straordinarie del primo Berlusconi, quelle che gli valsero vittorie rapide e quasi plebiscitarie. Si trattava, appunto, di un sogno e gli italiani hanno impiegato parecchi anni prima di rendersi conto che nessun sogno si trasforma in realtà se non è corroborato da una visione politica e da una qualche dimestichezza amministrativa.
Non che la sinistra sia stata al riparo dall'impoverimento generale della politica. Nel centrodestra, però, esso ha assunto caratteristiche specifiche e patologiche. L'idea di trasformare la lotta politica in un casting ha provcato guasti sufficienti per inghiottire una generazione politica. Fino all'idea bislacca dei Club Forza Silvio o delle battaglie animaliste da impostare come pegno dell'affetto per Dudù. Nulla, ma proprio nulla è stato risparmiato all'Italia negli ultimi mesi. Un po' come nel contrappasso dantesco, il berlusconismo, almeno nella sua versione deteriore (perché gli esordi arrembanti avevano la freschezza della novità alla quale si perdonano tante ingenuità) è riuscito a contaminare la scena politica. Senza Berlusconi non ci sarebbe mai stato Renzi, così come in Inghilterra senza Thatcher non sarebbe mai arrivato Blair. Però, fate voi le differenze. Di qua annunci, di là fatti. Di qua grande comunicazione-spettacolo, di là comizi e convention di partiti con tanto di delegati, tesserati e iscritti. Di qua promesse da Rodomonte, di là riforme sudate e incisive.
La rivoluzione parolaia, ieri di Berlusconi, oggi di Renzi, è la miglior garanzia di continuità di un ceto politico selezionato sulla base della fedeltà al capo, dell'applauso fragoroso con cui approva ogni sua parola o della violenza verbale con cui zittisce chiunque lo critichi.
Come uscire da una tale condizione di afflizione è compito improbo per chiunque. Il Paese è trascinato in questa deriva e cercare all'orizzonte un input che riapra le porte della politica diventa un'impresa disperata. L'Italia è entrata in crisi vent'anni fa per l'implosione della politica. Vent'anni dopo non ne esce perché messa alla porta quel ceto politico non è stata capace di trovarne un altro.  

domenica 6 aprile 2014

PER RENZI IL RISCHIO DI ALLARGARE IL GAP FRA ANNUNCI E REALTÀ

di Massimo Colaiacomo

Il presidente del Consiglio è un comunicatore di sperimentata e insidiosa abilità. Fa bene Berlusconi a essere preoccupato di colui che considera la sua versione giovanile, una sorta di Dorian Gray rovesciato. Si parla sempre qui delle abilità comunicative, di quella straordinaria capacità che consente a un leader di mettersi in sintonia con gli elettori fino a plasmarne le attese e le speranze e a strappare la loro totale condivisione degli obiettivi di governo. Siamo in presenza di quello che un analista acuto e balanced come Stefano Folli ha definito il "populismo morbido" di Matteo Renzi.
L'importanza della comunicazione è a tal punto decisiva che la politica degli annunci è riuscita dove prima avevano fallito Monti e Letta. La risposta dei mercati è stata a dir poco entusiasta: in un mese si registra un flusso di investimenti in entrata stimato in circa 25 miliardi di euro. La Borsa di Milano è la migliore in Europa e fra le prime 3 o 4 Borse mondiali. Lo spread fra i titoli decennali italiani e i corrispondenti titoli tedeschi (Btp versus Bund) si è ristretto fino a 161 punti, livello toccato l'ultima volta nel 2010.
Tutto ciò sta a significare una sola cosa: i mercati hanno accordato la massima apertura di credito al governo Renzi, cosa che non fecero, per ragioni le più diverse, con i suoi predecessori. È la luna di miele regalata a Renzi con più generosità che ad altri.
Tutto bene, dunque? Sì, almeno fino a questo punto. E almeno fino al punto in cui i mercati, smaltita l'euforia per le riforme annunciate, passeranno a pesare i risultati le realizzazioni dell'esecutivo.
Fino a questo momento Renzi non ha concluso gran cosa. La finta abolizione delle Province, con l'aumento dei posti (e dei costi) per la politica è la prima grande delusione di Renzi. Come si potrà votare la rforma del Titolo V senza abolire in Costituzione il primo comma dlel'art. 114, quello che è il certificato di esistenza in vita delle Province? Come può Renzi spiegare agli italiani che le Province sono statea abolite ma restano i balzelli per finanziare il loro funzionamento, cioè la sovrattassa che pagano tutte le famiglie sulle bollette energetiche e la tassa sul P.R.A.?
Il rischio che si intravvede per Renzzi è lo stesso che portò Napoleone al disastro della Beresina dopo essere entrato in Mosca e trovare una città deserta e devastata dal fuoco. Le truppe francesi avevano corso tanto nella steppa, senza incontrare resistenze, al punto da perdere i contatti con il vettovagliamento e le infermerie. Napoleone avevano allungato a tal punto le fila delle sue truppe che i soldati entrarono a Mosca per morirvi di fame e di freddo. Aveva vinto l'astuzia del generale Kutuzov. L'armaa francese era stata inghiottita e divorata nei grandi spazi della Russia. Le intenzioni dell'imperatore annegarono nel freddo e nella fame della realtà.
Renzi deve accorciare la distanza che va pericolosamente crescendo fra gli annunci e la realtà. Non ha ancora detto dove e come troverà i soldi per restituire 80 euro in busta paga. Un primo contatto con la realtà lo ha avuto, rinviando il taglio dell'Irap all'inizio del 2014. Entro settembre deve trovare 70 miliardi per cancellare i debiti della P.A. con le imprese. Appare sempre più evidente che Renzi sta costruendo uno schermo fra se e la realtà quotidiana dell'Italia. Egli rinvia al Paese l'immagine riflessa della realtà come sarà e non come è. Gli italiani, dopo gli anni del berlusconismo, avvertono il bisogno di colmare il vuoto lasciato dalla fine di quel sogno aggrappandosi alla promessa di un cambiamento radicale e salvifico, cioè quello che promette Matteo Renzi. In entrambi i casi, il Paese viene a ritrovarsi lontano dai gravi problemi economici e sociali per la cui soluzione nessuno si azzarda a mettere in campo le soluzioni drastiche e socialmente sanguinose non più rinviabili.
Le riforme promesse da Renzi si annunciano per quello che sono: puro illusionismo, dall'abolizone delle Province alla riforma del Senato. Passando per la riforma del mercato del lavoro, ancora in alto mare, fino al pericolosissimo "salario minimo" destinato a far esplodere la base sociale con la tendenza delle imprese a garantire il minimo per tutti e a vanificare il passaggio dal contratto unico a una più robusta contrattazione aziendale.

Dove le riforme sono state fatte, in Grecia e in Spagna, le piazze sono state riempite da folle schiumanti di rabbia. Ecco, lì sono state fatte le riforme. Renzi vorrebbe invece trasformarle in una scampagnata o in una gita fuori porta. Vent'anni dopo, l'Italia rischia di ritrovarsi punto e a capo.