sabato 18 aprile 2015

MATTEO RENZI, UN ABILE AMMINISTRATORE DEL DECLINO

di Massimo Colaiacomo

     Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non è un improvvisatore della politica come sostengono i suoi avversari e i suoi detrattori nel Pd. Al contrario, ne conosce tutte le corde e i suoni e sa cavarne le note giuste per ogni circostanza. Renzi frequenta la prosa del populismo con un brio e una modernità che mancavano a Silvio Berlusconi, populista d'impronta classica e di derivazione sudamericana (da "meno tasse per tutti" a "più dentiere per tutti" e "meno Iva sul cibo per cani e gatti"). Il passaggio dal berlusconismo al renzismo è senz'altro un'evoluzione, sia pure all'interno della storia del populismo italiano. Né Renzi né Berlusconi appartengono alla tradizione del popolarismo europeo e sono entrambi agli antipodi del popolarismo degasperiano. Circostanza che ha contribuito non poco all'impoverimento della politica italiana la cui arretratezza culturale si manifesta anche nelle forme di un'involuzione del costume civile.
     Il declino dell'Italia ha smesso di essere un sentimento collettivo per entrare nel Dna della nostra antropologia quotidiana e assumere le forme più diverse. La principale di esse è la radicale trasformazione della politica divenuta negli anni una sorta di cornucopia dispensatrice di ricchezze individuali nelle forme più disparate, legali e illegali. L'affievolimento dello spirito pubblico ha toccato il suo apice nei governi berlusconiani ma ha trovato nutrimento nei governi di centrosinistra in misura almeno eguale.
     Renzi si trova così ad amministrare un declino che può essere più o meno lungo, con qualche reviviscenza che farà gridare al miracolo i suoi sostenitori, ma niente di più. Che sia questa e non un'altra la traiettoria dell'Italia si ricava agevolmente dalla politiche economiche e sociali dell'esecutivo. Si prenda il tema delle pensioni. La riforma Fornero, che innalzava l'asticella delle pensioni di vecchiaia a 67 anni per gli uomini, è divenuta la panacea ai mali di molte aziende e la via più breve per tagliare le rendite previdenziali alla generazione compresa fra i 55 e i 60 anni. Per una ragione molto semplice: i grandi gruppi industriali (Enel, Eni, Telecom) e aziende di media grandezza, ne approfittano, incoraggiate dagli istituti di previdenza, per mandare in pensioni lavoratori che non hanno i requisiti ma ai quali si evita il licenziamento. Che cosa succede? Semplice: quei lavoratori si vedranno decurtata la rendita di 2 o 3 punti percentuali per ogni anno di anticipo rispetto all'età fissata per legge.
     È il più grande e pacifico taglio delle pensioni mai prima registrato in Italia. Con indubbi benefici per l'immagine del governo e delle aziende. Entrambi liberano posti di lavoro ed entrambi possono vendere all'opinione pubblica questa operazione come creazione di nuovi posti di lavoro.  Un falso ideologico più falso della falsa donazione di Costantino. Per questa via, però, Renzi coglie un altro indubbio risultato: procede infatti a una ridistribuzione di ricchezza o, per essere più esatti, di presente e futura povertà fra le generazioni. Essendo veri i dati forniti dall'ISTAT e cioè che neanche un posto di lavoro aggiuntivo è stato creato nei primi due mesi del 2015, come si può indicare al Paese l'orizzonte del futuro? Quale crescita si potrà mai agguantare se la quota dei lavoratori quando va bene rimane invariata mentre aumenta in progressione geometrica quella dei pensionati?
     Renzi soffre gli stessi limiti propri della sinistra italiana e di quella sinistra particolare quale era la "sinistra politica" nella DC. Vede e sa, ma non ha la forza politica e forse nemmeno la convinzione personale, che ogni problema per sbloccare il futuro dell'Italia passa dalla pressione fiscale. La componente fiscale del reddito da lavoro e da impresa è più alta in Italia che in qualsiasi altro Paese al mondo, con l'eccezione della Svezia e della Danimarca. È in questo gap che si annidano le bolle di veleno. Annullare il divario fiscale che ci separa dal resto d'Europa e delle democrazie avanzate presuppone però una gigantesca operazione di tagli alla spesa pubblica e, probabilmente, di licenziamenti nel pubblico impiego mentre Renzi, al contrario, è impegnato a raschiare le ultime risorse rimaste per stabilizzare 150 mila insegnanti. Le tasse restano alte, anzi cresceranno ancora un po' fino al 2017. È evidente a chiunque che in Italia non ci sarà mai nessuna ripresa economica e la disoccupazione resterà fuori controllo grazie alle politiche di sussidiarietà messe in piedi da questo governo per finanziare le quali ci saranno altre tasse.
     Questo e non altro è il declino che aspetta l'Italia. Né Renzi dovrà preoccuparsi di un'opposizione inesistente, impaludata com'è in beghe e divisioni fra le sue diverse anime populiste. L'autostrada del declino si è fatta larga e scorrevole.     

domenica 12 aprile 2015

L'ITALIA DI RENZI FRA IL TESORETTO E L'ORCHESTRA DEL TITANIC

di Massimo Colaiacomo

     Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dato prove ripetute di grande scaltrezza. Svicola fra gli ostacoli con la leggerezza di uno slalomista. Quando la realtà si fa più pressante e lascia scarsi margini, ecco che Renzi dà fondo alle sue risorse di comunicatore e si muove fra i problemi back and fill, come dicono gli inglesi: si destreggia, frequenta la simulazione e la dissimulazione doti, come annotava il cardinal de Retz, decisive perché un politico si trasformi in leader.
     Renzi, insomma, simula un'aggressione radicale ai problemi annosi della società italiana, salvo ritrarsi quando gli attori di quei problemi, cioè gli elettori, fanno la faccia feroce contro ogni riforma che minacci di danneggiare le loro rendite di posizione. Le riforme liberali delle professioni o la riduzione delle municipalizzate, insomma quel che si dice la ritirata dello Stato e una sua presenza meno invasiva nella vita quotidiana dei cittadini sono titoli che campeggiano in bella vista nel libro dei sogni del premier. La realtà è più prosaica. Nella realtà quei sogni diventano liquidi, inafferrabili come le nuvole. Ma non irrealizzabili, assicura Renzi quando li rinvia a una fase successiva. Slide e titoli della rivoluzione renziana campeggiano da mesi sui mass media, peccato che manchi la rivoluzione.
     Così la storia del "tesoretto" che Renzi vorrebbe chiamare in altro modo ma non sa in che modo, è esemplare del mood con cui il premier affronta la realtà. Fino a un istante prima, aveva fronteggiato la rivolta dei sindaci contro l'ipotesi di nuovi tagli ai trasferimenti degli enti locali necessari per far quadrare i conti. Poi, all'improvviso, ecco che da un cassetto mai aperto escono fuori 1,6 miliardi di euro. Un avanzo niente male. A chi destinarlo? Una domanda che sta facendo impazzire il circo della politica e alimenta il populismo della peggiore specie. Salvini li vuole per gli esodati, Vendola e il Pd per allargare agli incapienti il bonus di 80 euro (il tesoretto, scusate, si replicherà anche nei prossimi anni oppure si danno 80 euro una tantum per toglierli nel 2016?). La roulette sul tesoretto è soltanto l'ultimo indecoroso spettacolo della politica che gira a vuoto attorno ai problemi nel tentativo di dissimulare la realtà. Sul lato opposto del tesoretto c'è un Paese in crescente affanno dove l'orchestra del renzismo intona qualche valzer anche se gli scogli di una crisi economica mai superata affiorano minacciosi.
     La giostra di Renzi gira però senza problemi grazie all'assenza di un'opposizione un minimo seria. Se si pensa che il più grave problema del principale partito di opposizione è come trovare un candidato governatore in Puglia per rimpiazzare il candidato Schittulli arruolato da Fitto, è facile capire come Renzi giochi sul velluto e può permettersi qualsiasi scivolone. Il vuoto pneumatico in cui  
gira l'ombra di quello che fu il leader più votato nella seconda Repubblica è l'immagine eloquente della grande crisi in cui naviga la politica che si trova alla vigilia di una nuova, grande implosione degli schieramenti. Dopo le regionali nulla sarà più come prima. Forza Italia è destinata a ridursi in un piccolo drappello parlamentare, un presidio militare a tutela degli interessi di Silvio Berlusconi. Il resto del partito è destinato a confluire in formazioni più o meno nuove. Fitto e Tosi, i due esponenti politici che hanno dato l'assalto alle rispettive leadership nella Lega e in Forza Italia, sono destinati a trovare un accordo per dar vita, con Passera e forse Casini, a un rassemblement moderato nella prospettiva di costruire un'alternativa al renzismo.
     Sono ipotesi da verificare e la verifica sarà il risultato delle elezioni regionali. Dopo il 31 maggio il quadro politico uscirà stravolto, soprattutto nel centrodestra. E lo spazio politico sarà soltanto per coloro che sanno esaltarsi nel campo di battaglia. Dove questa volta non ci sarà Silvio Berlusconi. 

venerdì 3 aprile 2015

FORZA ITALIA GUARDA IL FUTURO DAL RETROVISORE

di Massimo Colaiacomo

Le convulsioni che scuotono alle fondamenta Forza Italia non sono destinate a placarsi con le elezioni regionali. Tutt'altro. Al di là del loro possibile esito, è la fibra stessa del partito che è stata consumata in questi ultimi mesi. Si può ragionevolmente affermare che il braccio di ferro di Raffaele Fitto ha allargato divisioni preesistenti, ma un partito falcidiato da abbandoni (Bondi è solo l'ultimo), contestazioni sulla gestione (Fitto e, con motivazioni diverse, Romani) o sulla linea politica (Verdini) deve avere trascurato troppo a lungo i suoi problemi interni se questi esplodono tutti insieme e in modo tanto lacerante.
Può sembrare un paradosso, ma la fine del Patto del Nazareno è stata un po' come togliere il tappo al vaso di Pandora. Tutto il malcontento e i risentimenti di tipo personale (a parte quelli, tutti politici, di Fitto e Verdini) sono venuti fuori e hanno scatenato liti intestine da basso impero rivelando quello che si intuiva dall'esterno, cioè la pochezza intellettuale e politica di un ceto dirigente raccogliticcio, salvo poche eccezioni. L'appello accorato, con toni quasi disperati, lanciato da Berlusconi ad alcuni ospiti che lo hanno raggiunto oggi ad Arcore affinché Forza Italia ritrovi le ragioni dell'unità e della concordia ha il sapore dell'estremo saluto di un capitano a una ciurma ribelle e riottosa, divisa su tutto e preoccupata soltanto di portare in salvo se stessa dopo il fortunale che si preannuncia con il voto regionale di fine maggio. 
Quanto accade nella corte di Arcore è spiegato in un'ampia e antica letteratura. La fine di una lunga stagione politica, costruita da un leader il cui skill comunicativo non ha eguali (Renzi lo imita ma non lo raggiunge minimamente), porta con sé il declino di una classe dirigente: declino la cui velocita è inversamente proporzionale alla qualità di quella classe. Il che lascia presupporre, all'indomani di un risultato alle regionali eventualmente negativo, il collasso finale di Forza Italia.
Ora non è di grande aiuto chiedersi se e in che misura Berlusconi abbia consapevolmente assecondato il cupio dissolvi di Forza Italia. La lunga persecuzione giudiziaria ne ha certamente infiacchito la fibra e alimentato il distacco, e forse il disgusto, per la politica e le sue beghe. Questo spiegherebbe certe sue scelte per la gestione del partito affidata a esecutori grigi e improvvisati. Berlusconi ha "svuotato" Forza Italia di ogni ambizione politica nel momento stesso in cui ha abbandonato il Patto del Nazareno senza avere pronta un'alternativa credibile, una strategia all'altezza della sfida a Renzi per la quale non era minimamente pronto.
Vero è che dopo tre anni di melina con i governi tecnici di Monti e di Letta, e la linea di concordia isitituzionale con Renzi, Berlusconi aveva aperto ampi spazi alla sua destra al punto che la Lega di Salvini si prepara a un soprasso elettorale impensabile qualche tempo fa. Ma per fare l'opposizione invocata da Raffaele Fitto (il quale, va ricordato, ha sempre avallato le precedenti scelte sugli altri governi tecnici) Forza Italia avrbebe dovuto esprimere una linea politica chiara e convincente, degna di un grande partito conservatore europeo. Il guaio maggiore combinato da Berlusconi è stato proprio questo, di aver lasciato campo libero al populismo leghista grazie al quale Renzi può godere di una polizza assicurativa sul suo governo nonostante gli insuccessi via via crescenti della politica economica.
Il vuoto che si apre nel centrodestra italiano diventerà presto il primo e più importante problema per la funzionalità della democrazia. Non resta che affidarsi alle leggi della fisica per cui prima o poi anche questo vuoto sarà riempito.