giovedì 18 gennaio 2018

BERLUSCONI E D'ALEMA SUONANO IL RICHIAMO ALLA REALTÀ


di Massimo Colaiacomo


     Quanto è incolmabile la distanza fra un governo del presidente e un esecutivo che abbia come ministro dell'Economia un tecnico sperimentato e conosciuto oltre i confini domestici? Sulla carta, non dovrebbe esistere una distanza siderale. Nella realtà le due cose possono convivere a tal punto che non si dà un governo del presidente senza un "tecnico" a guidare l'Economia. Intervistato dal Corriere della Sera, Massimo D'Alema prova a lanciare lo sguardo oltre il 4 marzo. Al momento, per nulla temuto, in cui si tireranno le somme e dalle urne sarà uscito il risultato che in molti auspicano, cioè l'assenza di una maggioranza parlamentare. Quello che D'Alema dice nell'intervista, è meno, molto meno di quello che un lettore un minimo smaliziato è portato per mano a intuire: se la somma dei seggi conquistati da PD e FI non potrà assicurare una maggioranza, Liberi e Uguali (piaccia o non piaccia a Grasso) è lì, dietro l'angolo, pronto a spendere il suo gruzzolo di consensi (secondo i sondaggi intorno al 6-7%) per dare un governo all'Italia.
     Le valutazioni di D'Alema sulle prospettive politiche sono diverse, ma non in contrasto con quelle di Berlusconi. Il quale, come è naturale in campagna elettorale, continua a ripetere che il centrodestra avrà i voti per fare il governo anche se, in cuor suo, sa che difficilmente le urne potranno trasformare quel desiderio in realtà. Altrimenti, perché mai Berlusconi avrebbe messo le mani avanti indicando in un "tecnico" il futuro ministro dell'Economia? Vent'anni dopo non è solo il titolo del romanzo di Alessandro Dumas, è anche, più prosaicamente, il copione della politica italiana che vede D'Alema e Berlusconi impegnati, in ruoli diversi, a costruire un percorso politico per il dopo elezioni per evitare lo stallo e la conseguente ingovernabilità.
     Perché è credibile l'analisi di D'Alema e perché Berlusconi si prepara a farla propria? Nell'intervista al Corriere D'Alema rimprovera a Renzi di essere in qualche modo il ventriloquo di  Berlusconi e di indicare l'unico vero avversario soltanto nel M5s e non già nel centrodestra. E fin qui la tattica elettorale spiega tutto: farsi strada nell'elettorato grillino è la speranza che anima i fuorusciti del PD e i compagni trovati per strada e niente è più funzionale questo obiettivo che mettere il PD e il suo segretario nel mirino della polemica. Sull'altro versante, Berlusconi, con il supporto decisivo di Tajani, non esita a difendere il ruolo di Forze Italia "argine" contro ogni populismo che per ovvie ragioni circoscrive al M5s pur sapendo che un pezzo di quel mondo è suo alleato.
     Moscovici, con una ruvidezza inappropriata per un politico, ha fatto un inutile entrata in tackle nella campagna elettorale essendo già chiaro lo schema di gioco dei principali protagonisti. Però, al netto dello sgarbo istituzionale, le parole di Moscovici hanno avuto una loro funzionalità perché individuato il perimetro dell'europeismo, hanno dato una temporanea boccata d'ossigeno a un PD che tutti i sondaggi vedono in caduta libera. Sic rebus stantibus e in attesa dell'unico, vero sondaggio che conta in democrazia, cioè le schede scrutinate, D'Alema e Berlusconi si sono portati avanti con il lavoro e se da qui al voto il mood elettorale non cambierà più di tanto, saranno loro a distribuire le carte mentre la presenza di Renzi al tavolo da gioco sarà diventata a quel punto irrilevante. E nulla esclude, come beffa finale, che il segretario del PD si ritrovi Paolo Gentiloni a palazzo Chigi, questa volta battezzato "governo del presidente".