sabato 22 giugno 2013

DA PD-PDL GIOCO DEI TRE CANTONI SUL GOVERNO. MA LETTA SBAGLIA A TEMPOREGGIARE


di Massimo Colaiacomo


Fra Pd e PdL è in atto una guerra di posizione il cui esito, non scontato, potrebbe essere la crisi di governo. "Potrebbe" perché il PdL da solo non ha la forza, né l'interesse, a tirare la corda e aprire una crisi in autunno, con l'obiettivo di votare a novembre, presuppone due condizioni: l'impraticabilità di formule di governo alternative all'attuale; una relativa tranquillità dei mercati finanziari e quindi una condizione di non belligeranza della speculazione sul debito italiano. Esiste, anche se al momento rimane sullo sfondo, una terza condizione: la condiscendenza del Quirinale a una nuova interruzione traumatica della legislatura. E' vero, come ha notato qualche osservatore, che nessuna scissione dei gruppi grillini potrà essere di una tale entità da consentire la maggioranza Pd-Sel-Grillo evocata qualche tempo fa da Bersani. La vicenda assumerebbe però tutt'altra piega se il presidente Napolitano dovesse far pesare il diktat formulato all'atto di insediamento di questo governo: se anche stavolta si dovesse ripetere l'impietoso fallimento delle forze politiche sulle riforme lui sarebbe pronto a trarne le conseguenze. Cioè a dimettersi.
La minaccia delle sue dimissioni è l'arma più potente nelle mani di Napolitano per indurre alla ragionevolezza gli spiriti bollenti di quanti, soprattutto nel PdL, si agitano per troncare, con la legislatura, la persecuzione giudiziaria contro Berlusconi. E se Napolitano scompagina questi piani, con quale maggioranza sarebbe eletto il suo successore? I grillini, scarsi di numero per formare la maggioranza di governo tornerebbero decisivi per eleggere il nuovo Capo dello Stato, almeno dal quarto scrutinio, quando è sufficiente la maggioranza semplice.
Di queste cose deve averne ragionato il Cav con i suoi consiglieri. Con quelli che schiumano rabbia, e sono pronti a bombardare la legislatura, e con gli altri che fanno opera di moderazione alla luce della imprevedibilità del quadro istituzionale da qui a ottobre.
Il 2 luglio la Giunta del Senato deve votare sulla ineleggibilità di Berlusconi. Un appuntamento non si sa se più temuto da Berlusconi o dal Pd. Perché il partito di Epifani rischia di spaccarsi su un voto che ha il pregio di ricompattare le sparse truppe grilline. Sono già state tutte fatte le obiezioni, a partire da quella più semplice secondo cui è impossibile dichiarare ineleggibile un parlamentare da 20 eletto con numeri plebiscitari. Ma il rischio della divisione incombe sul gruppo Pd e al momento non è ancora chiaro se e come scongiurarlo.
Questo è soltanto lo sfondo, agitato quanto si vuole, di una vicenda politica che trova nel presente le cause maggiori delle fibrillazioni che percorrono la maggioranza. Se lasciate marcire in attesa di risposte fin qui mai arrivate, quello sfondo potrebbe diventare realtà con drammatica rapidità.
Letta e Saccomanni non sono fin qui riusciti a dare un'impronta all'azione dell'esecutivo nelle politiche di bilancio e fiscale. Troppe esitazioni su Iva e Imu, troppe timidezze da un ministro dell'Economia che dichiara "non rinvenibili" le risorse necessarie per appagare le rivendicazioni elettorali del PdL in materia fiscale. Curioso che un ministro parli della propria politica limitandosi a osservare che non ci sono soldi. In enre, un ministro viene messo sulla poltrona di via XX Settembre proprio per trovare quella materia preziosa ch anto scarseggia. Ma né da Saccomanni né da Letta è fin qui venuto un colpo d'ala per smuovere le acque. Si sono adagiati nel quieto vivere e rinviato a miglior tempo le risposte drammatiche attese dagli italiani.
Lo stesso provvedimento per l'occupazione giovanile, con una detassazione timida per le imprese che assumono, o il fondo di finanziamento per l'innovazione delle imprese, sono poco più che pannicelli caldi per la grave situazione sociale dell'Italia. Senza peraltro considerare un aspetto quasi grottesco: assumere giovani per produrre una maggiore quantità di beni e merci, presuppone l'esistenza di un mercato dei consumi in grado di assorbirli. Il che, francamente, non è la condizione presente dell'Italia.
A Letta è mancato il coraggio invocato pià volte da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: tagliare la spesa pubblica, ma tagliarla in modo energico e senza usare il bisturi. Da lì soltanto possono venire le risorse per un riordino generazionale del fisco e per un alleggerimento complessivo della pressione fiscale. Più soldi in circolazione significa anche maggiori consumi e in questo caso le imprese possono assumere senza neppure il biosgno di incentivi fiscali.
Su questo versante, però, Letta sta giocando la stessa partita sbagliata giocata dal suo predecessore Monti. E' evidente che dietro tanta ritrosia ad aprire il capitolo dei tagli di spesa c'è il non possumus, mai apertamente pronunciato ma che aleggia nell'aria, del Pd. E su questo braccio di ferro Letta rischia di giocarsi il residuo capitale di credibilità. Anche perché i temi economici sono il diversivo scelto da Berlusconi dietro il quale nascondere i colpi arrivati e in arrivo da parte della magistratura.

sabato 15 giugno 2013

IL GOVERNO NON RISCHIA SU IMU E IVA MA E' LA SPACCATURA DEL PD L'INSIDIA MORTALE PER LETTA



di Massimo Colaiacomo

     Nessuno, e Letta per primo, ha mai immaginato per il governo una navigazione tranquilla al riparo da fortunali e tempeste. La scarsa coesione programmatica della maggioranza è sotto gli occhi di tutti ed è destinata ad aumentare a mano a mano che il premier affronterà i capitoli del programma. Le vicende irrisolte della cancellazione dell'IMU chiesta dal PdL e del blocco dell'aumento dell'IVA, chiesto anche dal Pd, rappresentano soltanto l'antipasto delle difficoltà che attendono il governo. 
     Il premier deve far di conto con i vincoli di finanza pubblica posti dall'Europa, il cui puntuale rispetto è stato ancora oggi confermato da Letta al presidente della Commissione europea Barroso. Ma deve anche smuovere le acque stagnanti della politica sociale e fiscale. Fino a oggi Letta è riuscito nell'impresa di rovesciare le priorità nell'agenda dell'esecutivo, mettendo l'occupazione giovanile e il sostegno alle imprese prima di IMU e IVA. La forza dei fatti si impone però rispetto alla strategia di sopravvivenza e conferma che politica sociale e politica fiscale sono due facce della stessa medaglia. Creare lavoro e affrancare 50 o 100 mila giovani dalla schiavitù della disoccupazione è un obiettivo sicuramente urgente e anche l'unica strada da percorrere per alleggerire la tensione sociale che si va accumulando in molte parti d'Italia, soprattutto al Sud. È pur vero, come ha osservato Maurizio Bertelli in un'intervista al Sole 24Ore di venerdì 13 giugno, che per creare nuova occupazione serve avere un mercato in grado di assorbire la maggiore quantità di beni e merci prodotti. E il discorso, come si vede, scivola sulla politica fiscale, sulla sempre più scarsa disponibilità di reddito degli italiani che tutti gli istituti di analisi vedono in caduta libera da oltre 6 anni.
     Le difficoltà del quadro economico e i vincoli di finanza pubblica sono due ostacoli oggettivi sulla via del governo ma sbaglierebbe Letta a trasformarli in alibi permanenti per giustificare un'azione fin qui incerta e ondivaga sul piano sociale e fiscale. Al suo governo è richiesta una doppia dose di coraggio: nel superare, da un lato, gli ostacoli oggettivi e per così dire "esterni",  e, dall'altro lato, nel rimuovere i diktat che le forze di maggioranza cercano di far valere. Letta deve trovare la forza politica che una maggioranza slabbrata non riesce a garantirgli e dare slancio all'azione dell'esecutivo prima di vedere il vascello immobilizzato in mezzo alla bonaccia.
     La scelta di temporeggiare potrebbe essergli fatale. Come dimostra l'intervista dell'ex segretario Pd al   Corriere della Sera di oggi. Bersani, dopo aver giocato come peggio non poteva gli esiti del voto politico di febbraio, lascia intuire l'animo malmostoso di chi è in cerca di una rivincita politica. Ma la sua analisi sullo sfaldamento dei gruppi parlamentari grillini e sulla conseguente possibilità di riaprire le porte a un equilibrio politico diverso per esprimere un governo "di sinistra" lascia francamente basiti. Non si sa se più per l'ingenuità del proposito, o più per la difficile se non impossibile realizzazione.
     Un fatto è certo: Bersani è riuscito, con il piglio maldestro dei suoi momenti peggiori, a concentrare sul Pd il sospetto che è da quelle parti che si coltivano i disegni volti a destabilizzare l'esecutivo Letta. Non più, dunque, l'esito delle vicende processuali di Berlusconi, ma il congresso di fatto aperto nel Pd si presenta oggi come l'insidia maggiore per il cammino del governo.
     L'intervista di Bersani è un potente assist, sotto ogni punto di vista, a Berlusconi. Nel senso, almeno, che essa offre un alibi a quanti nel PdL lavorano per stabilizzare il governo e vedono regalato al partito il ruolo di "guardia imperiale", di sostenitore leale e senza remore dell'esecutivo Letta. Con un contraccolpo nel Pd, c'è da sospettare, non calcolato da Bersani: vale a dire il rinnovato sostegno giunto subito nel pomeriggio di oggi dai renziani e delle altre correnti del Pd a Letta. Bersani è insomma riuscito a ritrovarsi in una posizione di isolamento nel partito senza avere peraltro mai costruito una sponda esterna. Pensare, come Bersani pensa, alla possibilità di rovesciare l'attuale maggioranza per sostituirla con quella da lui immaginata all'indomani del voto (vale a dire Vendola e i transfughi del grillismo) è quanto di più azzardato potesse ipotizzare un politico navigato come lui.
     La stessa premessa (se Berlusconi ritira il sostengo al governo in seguito a una sentenza di condanna) è debole come se non più della conseguenza. A un altro leader sarebbe venuto in mente, in uno scenario come quello ipotizzato, di puntare al sostegno di una parte del PdL e non certo di provocare un ribaltone con cambio di maggioranza.
     Con la sua sortita, Bersani ha sicuramente ridato fiato alle spinte centrifughe che sembravano sopite nel Pd. E' evidente che Letta non può stare a guardare e lasciarsi rosolare a fuoco lento a causa dei giochi congressuali aperti nel Pd. A questo punto, dovrebbe essere interesse del premier e di Matteo Renzi forzare la mano al segretario Epifani per accelerare i tempi del congresso. Ogni ritardo rischia di aprire varchi a chi, Bersani oggi e domani non si sa chi, punta a rovesciare il tavolo della maggioranza in odio alle "larghe intese". Accelerare sul congresso è anche il solo modo possibile per evitare che la dialettica interna si trasformi in una miccia corta in grado di far esplodere il Pd.
      
     
        

venerdì 14 giugno 2013

GOVERNO TEMPOREGGIA, MAGGIORANZA PRIGIONIERA DEI POPULISMI COSì ITALIA PERDE ALTRI MESI PREZIOSI


di Massimo Colaiacomo

     Non si possono muovere rimproveri severi al governo. E' vero che il premier Letta temporeggia, gira attorno a una questione decisiva come l'occupazione giovanile e si lascia irretire ancora una volta nella liturgia della concertazione con i sindacati. Ciò detto, si deve aggiungere che Letta ha scelto di muoversi entro il perimetro disegnato dalle condizioni della finanza pubblica. Come ha detto il ministro dell'Economia in Senato non ci sono risorse "rinvenibili" (cioè: dove andare a prendere i soldi? quali capitoli di bilancio sforbiciare?) per bloccare l'aumento dell'IVA e cancellare l'IMU sulla prima casa.
     Ha ragione allora Stefano Folli sul Sole 24Ore quando osserva che le forze di maggioranza, ancora prigioniere dei rispettivi populismi, non hanno la forza o il coraggio di indicare al governo dove andare a prendere le risorse per realizzare quei capitoli del programma. Perché sanno, nel Pd come nel PdL, che l'unica fonte dove attingere i soldi necessari per un vasto e incisivo piano di riduzione della pressione fiscale e la spesa pubblica da tagliare in modo vigoroso e con gravi contraccolpi sul piano della pace sociale.
     Una certa ipocrisia continua a parlare di spesa pubblica improduttiva senza mai, in realtà, spiegare quale sia. Un numero eccessivo di dipendenti statali? O armate pletoriche di dipendenti regionali e provinciali? Certo, l'Italia non è la Grecia o la Spagna e Letta non è Samaras o Rajoy. Il leader ellenico ha chiuso la Tv pubblica, quello spagnolo ha detto ieri mattina alle Cortes che la Spagna non aumenterà ancora l'età della pensione né l'IVA. Letta non ha forse la stessa stoffa? No, semplicemente non gode del sostegno delle stesse maggioranze coese e determinate sul programma.
     Per esempio, una forza politica davvero determinata nell'obiettivo di abolire l'IMU deve avere, per essere credibile, una proposta che indichi anche dove recuperare le risorse che vengono a mancare al bilancio dello Stato. Sotto questo aspetto, il PdL rimane una forza profondamente populista e lontana dall'asse programmatico dei partiti popolari, ma anche dalle scelte del premier greco Samaras. 
     Discorso non diverso riguarda il Pd. Il sottosegretario all'Economia Fassina ha criticato il suo ministro osservando che l'aumento di un 1 punto percentuale dell'IVA aggraverebbe il ciclo recessivo dei consumi. Verissimo: ma la soluzione proposta da Fassina di mantenere l'IMU, sia pure mitigata, e destinare parte delle risorse al blocco dell'IVA è farraginosa e, in ogni caso, è la classica coperta corta da tirare un po' qui e un po' là.
     E' in questo vuoto di proposte che il premier Letta è costretto a muoversi e a ripercorrere la strada battuta, con alterna fortuna, da Mario Monti. Se il quadro politico è debole e la maggioranza sta in piedi solo per le reciproche debolezze degli alleati, è evidente che l'esecutivo è costretto a camminare sul ghiaccio e con margini di azione ristretti e comunque tali da non varcare i rigidi paletti sui conti pubblici ancora ieri ricordati nel bollettino della Bce.
     Si spiega così la scelta di Enrico Letta di temporeggiare, attendere l'autunno e sperare di prendere il vento sicuramente debole di una ripresa capace di amplificare gli effetti delle misure all'esame del governo. Le quali, va detto, non sembrano in grado di trasmettere impulsi di qualche rilievo al ciclo economico. Le misure per l'occupazione giovanile denotano più la preoccupazione di Letta di arginare il malessere sociale che non di dare vigore all'economia. Anche perché si tratta di provvedimenti che potranno spiegare i loro effetti di qui a qualche mese  e non sono certo fatti per dare la frustata all'economia che tutti invocano.
     Il problema non è soltanto, come immagina il governo, di detassare le assunzioni dei giovani o di accorciare il tempo di latenza fra un contratto a tempo determinato e l'altro. Lo ha ben individuato il patron di Prada, Bertelli, quando a una domanda del Sole 24Ore ha risposto: come possono le imprese assumere giovani per aumentare la produzione se poi quei prodotti non si vendono? Ecco, creare posti di lavoro significa anche avere un mercato capace di assorbire le merci in più prodotte. Il che oggi non è in Italia.
     Il rischio più grave, in assenza di una volontà politica capace di caricarsi l'impopolarità di tagli vigorosi alla spesa, è che l'Italia si avvii a perdere mesi preziosi per imboccare la via del risanamento. E i mesi persi non si recuperano più. 
      

lunedì 10 giugno 2013

NON BASTA PIÙ BERLUSCONI, CENTRODESTRA È ALLO SBANDO



di Massimo Colaiacomo

     La sconfitta del centrodestra alle elezioni amministrative è netta, bruciante e non ammette repliche. Essa segnala il fallimento politico di un ceto dirigente inadeguato e incapace di interpretare la fase politica che si è aperta con il governo Letta. I candidati sindaco e le liste erano infarcite di personale politico davvero miserrimo: analfabeti della politica, improvvisatori e in qualche caso avventurieri. 
     La partita dei ballottaggi si è chiusa nell'unico modo possibile, cioè con la vittoria del centrosinistra in tutti i Comuni capoluogo. E' vero, l'astensionismo è stato ancora più elevato che nel primo turno e questo fatto appanna la vittoria colta dai candidati del centrosinistra. Pensare al sindaco di Roma, Ignazio Marino, eletto da poco più del 24% degli aventi diritto al voto è qualcosa che deve far riflettere tutti, vincitori e sconfitti. Il doppio turno ha contribuito a tener lontani dalle urne tutti quegli elettori grillini che non avevano il loro candidato da votare.
     Si tratta di osservazioni ovvie, ma in una stagione politica così distratta anche le ovvietà meritano di essere ricordate.
     Quale significato politico attribuire a questo turno amministrativo? E quale riflesso potrà eventualmente avere sugli equilibri di governo? Sono le due domande alle quali i partiti sono impegnati da stasera a trovare una risposta.
     Per il PdL, come si è detto, è stata una débâcle senza precedenti. Tutti i suoi candidati sono stati bocciati in modo netto. A poco vale consolarsi con la "quasi vittoria" a Siena, roccaforte della sinistra, dove il candidato del PD l'ha spuntata per il rotto della cuffia. Ma Siena, si sa, è andata alle urne nelle condizioni straordinarie determinate dalla vicenda Monte dei Paschi.
     La sconfitta del PdL è soltanto il punto d'arrivo di un partito incapace di qualsiasi rinnovamento. Arroccato intorno a Silvio Berlusconi, il PdL si è confermato una macchina elettorale altamente efficiente nelle elezioni generali. Quella macchina, però, sparisce quando si tratta di eleggere sindaci e consiglieri. Un partito verticistico, fatto da un leader circondato da un manipolo di adulatori in continua lotta fra loro per raccogliere un'eredità politica quanto mai incerta. Quel partito ha dimenticato che cosa significa consumare le suole delle scarpe camminando e incontrando cittadini.
     Il PdL disegnato da Berlusconi dopo il voto di febbraio è un partito che ha perso ogni smalto elettorale. Il Cavaliere incalza il governo con abilità, tira Enrico Letta per la giacca e lo incita a una prova di forza con la Merkel. Con ciò dimostrando agli italiani che non ci sono governi né maggioranze ampie tali da smuovere in Italia quello che va invece smosso e cambiato a Bruxelles e a Berlino. In fondo, le stilettate di Berlusconi non sono a Letta ma, attraverso di lui, alla cancelliera tedesca ritenuta la vera responsabile della spirale recessiva che rischia, con l'Europa, di inghiottire la costruzione barocca della moneta unica.
     Più difficile e prematuro, al momento, è valutare l'impatto del voto amministrativo sugli equilibri di governo. Letta si è tenuto per forza di cose fuori dalla campagna elettorale e fuori ne sono rimasti tutti i ministri. Non è azzardato, però, ipotizzare un PdL formalmente più incisivo nelle rivendicazioni programmatiche senza mai portarsi al limite della rottura. Lo stesso schema dovrebbe valere all'indomani del 19 giugno, giorno della sentenza della Cassazione sul processo Mediaset. La conferma della condanna di Berlusconi difficilmente potrà scatenare reazioni clamorose, sempre possibili ma rese difficili dalla realtà elettorale che si è manifestata con il voto amministrativo.
     Ecco un aspetto che il Cavaliere dovrà tenere ben presente nell'impostare le sue reazioni alle prossime sentenze: la diserzione delle urne da parte di milioni di italiani è il segnale che in qualche misura la forza magnetica di Berlusconi è compromessa, e il Cav si prepara pagare il conto per tutti gli errori commessi dal partito in sede locale.
      Quanto al governo, si diceva, la navigazione di Letta procederà con le difficoltà fin qui incontrate. Il premier si muove in modo ondivago su capitoli decisivi del programma (dall'Ima alla revisione delle detrazioni e deduzioni fiscali per le imprese alle misure contro la disoccupazione giovanile). Egli non può fare altro se non predisporre le carte che ha per rafforzare l'assedio che Hollande e Rajoy portano alla politica del rigore di bilancio del governo tedesco.
     Che cosa potrà concedere la Germania che non ha concesso fino a oggi? Molto dipenderà dalle decisioni che assumerà, non prima di settembre, la Corte di Karlsruhe che ha avviato oggi l'esame dei ricorsi presentati da alcuni cittadini tedeschi contro la decisione della Bce di finanziare im modo illimitato l'acquisto di Bond emessi dai Paesi periferici. Il meccanismo OMT (Outrage monetary transaction) messo in piedi da Mario Draghi ha consentito fino a oggi di tenere sotto controllo lo spread dei titoli italiani e spagnoli. Ma è una condizione di stabilità artificiale quella di cui godono i nostri titoli pubblici. La terapia d'urto delle riforme di sistema, come le liberalizzazioni dei servizi locali, la riforma degli ordini e la riforma del mercato del lavoro sono di là da venire. Su questi punti il governo Letta si è impantanato e ai partners europei si presenterà a mani vuote con ciò creando problemi a quella parte del mondo politico tedesco che pure non osteggia la politica monetaria della BCE.
    Come si vede, alla fine di un lungo periplo il ragionamento torna sempre sulle insufficienze del ceto politico italiano. Non facendo i compiti a casa, siamo i primi e più feroci avversari di noi stessi. 

sabato 8 giugno 2013

PER LETTA LA UE NON È' LUOGO DI CONFLITTO MA ANCORAGGIO PER IL GOVERNO

di Massimo Colaiacomo

     Il governo italiano non ingaggerà nessun braccio di ferro con Berlino, né al vertice quadrangolare di venerdì prossimo con i ministri di Germania, Spagna e Francia, né al vertice di fine giugno. Enrico Letta non ha raccolto l'invito di Berlusconi e non certo per uno sgarbo politico verso un alleato fin qui sempre leale. Quanto per la difficoltà di un'impresa il cui esito, come sa bene Berlusconi, è segnato già in partenza. Soprattutto, però, Letta non vuole ritrovarsi in un orizzonte europeo fatto di fibrillazioni con un partner decisivo come Berlino. Il presidente del Consiglio ritiene più utile assediare il governo tedesco scavando trincee insieme ad alleati come Parigi per convincere la cancelliera sull'urgenza di affiancare se non proprio anteporre le politiche per l'occupazione giovanile alla politica di risanamento dei bilanci pubblici.
     Fin dal giorno dell'insediamento, Letta ha agganciato il suo governo all'Europa nel tentativo non peregrino di dare all'agenda del suo esecutivo una profondità temporale e una cornice politica ambiziosa per sottrarla così al gioco estenuante della politica domestica impegnata già dal giorno dopo la nascita del governo a strologare sulla sua durata. La replica indiretta di Letta al Cavaliere non deve stupire: essa si muove in assoluta continuità con il discorso pronunciato all'atto del suo insediamento.
     Trasformare l'Europa in un ring di rivendicazioni nazionalistiche vorrebbe dire per Letta rinunciare a una polizza assicurativa sul governo per lasciarsi risucchiare in una dinamica tutta italiana con tutte le conseguenze che essa comporterebbe. Lo scambio quotidiano d'accuse fra il Pd e Berlusconi, ognuno accusando l'altro di indebolire il governo, è la prova evidente per Letta che è in Europa che deve puntare a ottenere qualche soddisfazione se vuole disinnescare le mine disseminate da alleati infidi e sospettosi sulla strada dell'esecutivo.
     Chi oggi accusa il premier di muoversi in Europa e nei riguardi di Berlino con lo stesso timore reverenziale di Mario Monti, trascura alcuni fatti non marginali. A partire dal mutato quadro macroeconomico in Europa e dalle sopraggiunte difficoltà che stanno rallentando il passo della locomotiva tedesca. Per tacere della differente tempistica in cui operano i due governi: con quello attuale aiutato dalla circostanza delle elezioni tedesche ormai dietro l'angolo e dunque con la necessità per Angela Merkel di "battere un colpo" anche in patria se vuole evitare che la spirale recessiva trascini la stessa Germania nelle difficoltà delle "ex cicale" mediterranee.
      La pressione di Berlusconi sul governo in chiave anti-tedesca è anche, a ben vedere, il tentativo abile di mettere il governo al riparo dalle polemiche italiane. Se è vero che lo stesso Epifani ha riconosciuto non del tutto infondate le critiche di Berlusconi alla posizione di Berlino, è facile allora comprendere come dietro lo schermo della polemica spicciola, i due alleati per forza o per convenienza lavorano "per" e non "contro" il governo, scaricando sulla Germania i ritardi o le timidezze fin qui mostrate da Letta sul fronte delle misure anti-crisi.
     La verità prosaica è che il governo Letta continua a godere di un punto di forza notevole quale è la mancanza di alternative. Né il Pd né Berlusconi dispongono di soluzioni di ricambio a questo quadro politico e il progressivo disfacimento delle truppe grilline si trasforma in un aiuto insperato e notevole al governo. Questo processo è appena avviato ed è difficile pronosticarne la durata e la profondità.  È evidente, però, che una qualsiasi accelerazione improvvisa potrebbe costituire una tentazione elettorale per Berlusconi e per il segretario che il congresso Pd sceglierà a ottobre. Fino ad allora la navigazione di Letta sarà agitata e difficoltosa ma mai a rischio.
     Né sarà a rischio per i procedimenti giudiziari e le sentenze di Berlusconi. Non è immaginabile per il Cavaliere correre alle urne dopo una condanna. Sarebbe un suicidio politico e Berlusconi, come ha dimostrato in questi anni, è meno avventato di quanto lo facciano lì avversari e forse qualche suo alleato. Per andare alle urne il leader del PdL, ma anche il Pd, aspetterà una svolta nelle politiche economiche europee e quindi un allentamento del rigorismo monetario, due condizioni preliminari per presentarsi al cospetto degli elettori senza più le ricette recessive di questi anni.
     Il vero spartiacque di questa legislatura restano le riforme costituzionali. Se davvero il Parlamento saprà e vorrà trovare il bandolo della matassa entrò i 18 mesi prestabiliti da Letta e dal Quirinale, è verosimile che allora si potrà aprire uno scenario elettorale. Sempre che, è ovvio, il presidente Napolitano non decida di dimetterai per le mutate regole di elezione della sua carica.