sabato 30 settembre 2017

LA CATALOGNA, LA SPAGNA E L'EUROPA CHE NON C'È

di Massimo Colaiacomo

     Perché la regione della Catalogna vuole un referendum per rafforzare la propria autonomia dallo Stato centrale spagnolo? E perché lo Stato centrale, rappresentato dal governo di Mariano Rajoy, leader del Partido Popular, non vuole e non può concederla senza mettere a rischio la Spagna?
  Senza il rumore e la grancassa della Generalitat de Catalunya, anche le regioni Lombardia e Veneto si preparano a celebrare un refeendum consultivo per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale. Di sicuro meno dirompente rispetto a quello catalano, e anche meno significativo per contenuti: ma da non sottovalutare in una prospettiva futura.
  Gli osservatori, quasi all'unanimità, inquadrano la vicenda catalana tra le forme di "ribellismo" o di reazione naturale dei territori alle minacce portate dalla globalizzazione, dunque all'identità civile, linguistica, sociale e culturale sempre più opacizzata dal "pensiero mondialista" e dalla sua tendenza all'omologazione.
     Ci sono anche motivazioni più sgradevoli ma i governi nazionali preferiscono non vederle o, vedendole, preferiscono rimuoverle in nome dell'unità della nazione e del popolo.
  Uno dei paradossi del referendum catalano, per esempio, ma anche di quelli lombardo e veneto in Italia e, domani, chissà, di altre regioni europee, è che la richiesta di autonomia è indirizzata allo Stato centrale ma non alla vituperata Unione europea. Il popolo catalano vuole trasferire meno tasse al governo centrale di Madrid e trattenere più risorse per il proprio territorio, uno dei più ricchi della Spagna e secondo soltanto, stando alle statistiche, alla regione di Madrid.
Sotto o affianco alle nobili motivazioni dell'identità e della lingua, ci sarebbe dunque la solita vecchia questione del vil denaro. Siamo più ricchi delle altre Regioni spagnole, perché dobbiamo ricevere dallo Stato finanziamenti meno generosi? E perché dobbiamo dare contribuire più di altri per finanziare regioni e città magari male amministrate?
  Il territorio, cioè la terra in cui si vive, si lavora, si risparmia e si accumulano ricchezze, è la dimensione a cui ogni essere umano è naturalmente attaccato. Ma tanta ricchezza, nel mondo globale, non può essere più soltanto il risultato di quel territorio. Essa proviene da altri territori, magari molto remoti, come possono essere i turisti cinesi e giapponesi, le frotte di giovani che inondano le Ramblas. La ricchezza della Catalogna è prodott in Catalogna per una parte importante ma non decisiva. I catalani beneficiano, come e più di altre regioni spagnole, della grande facilità con cui si spostano persone e merci, idee e capitali. Sono forse più abili di altri a trattenere sul territorio la ricchezza che vi transita e rivendicano, in nome di questa abilità, il diritto a goderne in misura maggiore rispetto all'Andalusia o alla Navarra.
  Lo Stato centrale avrebbe potuto disinnescare le pulsioni indipendentiste catalane riconoscendo maggiori trasferimenti fiscali, o condizione di vantaggio per i residenti. Ma a quale prezzo? Come mantenere in piedi il costosissimo welfare nazionale con meno introiti fiscali da Barcellona?
  La risposta, per la Catalogna come per la Lombardia e il Veneto, o chissà, domani per la Baviera in Germania, va cercata non nella scomposizione degli Stati nazionali, ma in un ridimensionamento del welfare State e nella restituzione a ogni cittadino del principio di responsabilità per meglio amministrare la propria libertà. Le nostre "libertà" civili e il conseguente standard sociale sono stati finanziati generosamente dalla spesa pubblica, per molti decenni ritenuta incomprimibile senza sollevare rivolte sociali. Oggi quella spesa deve diventare comprimibile per le stesse ragioni: per evitare la sollevazione di singoli territori contro lo Stato centrale. Questa dinamica fra il particolare (il territorio) e il generale (lo Stato) galleggia nel vuoto dell’Europa, un’entità che sfugge a ogni concretezza di risposte anche se, per le ragioni che si diceva, nella crisi serpeggiante dello Stato nazionale potrebbe rivelarsi come l’àncora di salvezza.
     Apertura al dialogo e un fermo invito alla prudenza per evitare di compiere azioni "irreversibili", è venuto in queste ore dalla Conferenza episcopale della Spagna. L'invito rivolto a tutte le amministrazioni pubbliche è a sviluppare un dialogo e un confronto con spirito fraterno. Per rendere possibile «questo dialogo onesto e generoso» è necessario, secondo i vescovi, che «tanto le autorità delle amministrazioni pubbliche quanto i partiti politici e le altre organizzazioni, così come i cittadini, evitino decisioni e azioni irreversibili e con conseguenze gravi, che li situino al margine della pratica democratica protetta dalle legittime leggi che garantiscono la nostra convivenza pacifica e originino divisioni familiari, sociali ed ecclesiali».  
     Per la Conferenza episcopale spagnola bisogna «recuperare la coscienza civile e la fiducia nelle istituzioni, nel rispetto dei principi che il popolo ha sancito nella Costituzione». I presuli offrono quindi la propria «collaborazione sincera al dialogo a favore di una pacifica e libera convivenza tra tutti». 
  ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte" aveva scritto il più moderno dei Papi, Leone XIII, nell'enciclica Rerum Novarum. Era il 15 maggio 1891. Una verità semplice ma di straordinaria efficacia anche dopo 126 anni.

sabato 23 settembre 2017

TANTI CANDIDATI PER UNA CARICA INESISTENTE 

L'ennesimo paradosso della politica italiana: dispute accese nei partiti per stabilire chi sarà premier in caso di vittoria, ma tanti lavorano a una legge elettorale che escluda un vincitore assoluto. La Costituzione, immutata, assegna al Capo dello Stato il compito di conferire l'incarico di governo.

di Massimo Colaiacomo


Luigi Di Maio è soltanto l'ultimo della nutrita truppa di candidati premier pronti a sfidarsi alle prossime elezioni politiche. Matteo Renzi ha bruciato tutti sul tempo, facendosi incoronare segretario, ad aprile, quindi, secondo lo statuto del PD, automaticamente candidato premier. Il leader leghista Matteo Salvini consuma il tempo a rivendicare per sé quel ruolo per un ventennio nella disponibilità assoluta di Berlusconi ma l'anziano leader, per nulla rassegnato, spariglia il gioco con una decisa virata in chiave europeista e filo-tedesca destinata a lacerare e non poco i rapporti nel centrodestra. Quali calcoli ci siano dietro la svolta di Berlusconi non è dato sapere. Si può ipotizzare, con una punta di malizia, che il leader tornato convinto europeista e amico di Angela Merkel tenta di costruirsi una solida sponda anche alla Corte di giustizia europea in vista del verdetto sulla legge Severino a causa della quale è stato fatto decadere dal Senato e inibito a rivestire cariche pubbliche.
Dietro tanto agitarsi nei partiti e negli schieramenti, si intravvede con chiarezza la smania di una generazione politica giovane desiderosa di pensionare quel ceto dirigente che ha governato l'Italia nella stagione post-Tangentopoli. Significativa l'immagine dei leader del centrodestra - Salvini e Meloni, affiancati dal presidente della Liguria, Giovanni Toti, sempre più lontano da Berlusconi - al meeting annuale di Fratelli d'Italia. Il nome di Berlusconi non è mai stato pronunciato da nessuno di loro e nessun riferimento è mai stato fatto ai governi di centrodestra.
Lo stato dell'arte, quando mancano pochi mesi alle elezioni politiche, è riassunto negli accadimenti degli ultimi mesi. Bersani e D'Alema (66 e 68 anni) hanno lasciato il PD per mettere su una nuova casa lasciando campo libero a Renzi (41 anni). Luigi Di Maio, nel M5s, ha 30 anni e il fondatore Beppe Grillo ha fatto sapere che farà il papà e non più il leader. Berlusconi (82 anni) sempre più in rotta di collisione con i due dioscuri, Salvini e Meloni (rispettivamente 44 e 40 anni) conta di portare il centrodestra a rapporti meno conflittuali con l'Europa, ma spera in una legge elettorale che consenta a Forza Italia di liberarsi dall'abbraccio soffocante della Lega Nord.
Salvini, Renzi, Di Maio, Toti, Meloni sono esponenti di una generazione di politici smaniosi di prendere lo scettro del comando ma fino a oggi incapaci di immaginare un percorso che li porti a quel traguardo. Nessuno di loro pensa di far tesoro del monito del generale De Gaulle ("il potere non si cerca, quando è maturo cade nelle tue mani") mentre l'unica strada fin qui intrapresa li ha portati a una conflittualità aperta con la generazione precedente. Il paradosso di tanta agitazione si manifesta nella legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis, che dovrebbe approdare in Parlamento la prossima settimana per essere approvata alla Camera ai primi di ottobre. Il mix di maggioritario (64%) e di proporzionale (36%), con la soglia di sbarramento al 3% per i partiti e al 10% per le coalizioni, prefigura un meccanismo tale da impedire l'affermazione netta di un partito o di uno schieramento.
Più scomoda degli altri è la posizione del M5s, non a caso il primo a denunciare nella nuova proposta un imbroglio ordito da PD e Forza Italia contro il M5s. Il movimento grillino è contrario a qualsiasi alleanza, convinto come è di avere il vento alle vele e di arrivare a palazzo Chigi con le proprie forze. Discorso esattamente opposto a quello di Renzi, accortosi, in ritardo e dopo una serie di micidiali errori politici, che senza rompere l'isolamento in cui ha cacciato il PD il ritorno a palazzo Chigi diventerebbe per lui una chimera. Unico a non coltivare ambizioni di governo, Berlusconi può concedersi il lusso di arbitrare le diverse partite in corso ben sapendo che il futuro governo sarà, in ogni caso, un governo di coalizione, sia che venga approvato il Rosatellum, sia che si voti con l'attuale legge elettorale risultante dalle sentenze della Corte costituzionale.
Cresce nel Paese, o in quella parte di esso meglio rappresentata dai mass media, una qualche convinzione che il proseguimento dell'attuale esecutivo Gentiloni, magari con un reshuffle che preveda l'ingresso di Forza Italia, potrebbe rivelarsi alla fine la soluzione migliore per gli interessi del Paese. Certo è che all'indomani del voto, come e più che nelle precedenti elezioni, tutti i fili saranno nelle mani, abili e capaci, del presidente della Repubblica. Mattarella si è confermato in questi quattro anni un attento interprete degli atti del Parlamento e degli umori del Paese. Quando conferirà l'incarico di formare il governo, lo farà soltanto in presenza di una maggioranza solida e certa, come ricorderà bene Bersani. E incaricherà un presidente del Consiglio e non un premier.