martedì 26 marzo 2013

BERSANI CON IL FIATONE MA META MENO REMOTA

di Massimo Colaiacomo

     Titolavo l'ultimo post, sabato 23 marzo: "Bersani riesce se Berlusconi non esce". Con l'ovvio riferimento a un'uscita di scena del Cavaliere dal tavolo principale, la scelta del successore di Napolitano, dal quale non può accettare di essere escluso pena una ignominiosa ritirata dalla scena politica. Bersani mostra oggi, martedì 26 marzo, di aver ben capito quel che già sapeva: per conquistarsi la riuscita del suo tentativo deve allargare e coinvolgere il più possibile il PdL nella partita del Quirinale. Non solo: deve contrattare in qualche misura alcune posizioni chiave del suo esecutivo, a cominciare dal titolare della Giustizia. E' poco? E' tanto quel che viene chiesto a Bersani?
     Prima di procedere, proviamo a disporre le tessere del puzzle sul tavolo. Proviamo anche, però, a considerare gli inconvenienti che un fallimento di Bersani avrebbe nel PD ma anche nel PDL. E non si tratta di inconvenienti irrilevanti.
     Le tessere del puzzle sono tante, ma guardiamo a quelle più importanti. La spaccatura del PD: Bersani non ha le spalle coperte da un partito compatto. Il PD è percorso però da divisioni che possiamo definire mobili, nel senso che il fronte dei favorevoli e dei contrari all'incarico di Bersani è fluido e risente dell'andamento dei colloqui con le delegazioni dei partiti e, in particolare, della strategia del PDL che punta, almeno così lascia apparire Berlusconi, sul voto anticipato.
     Il PDL è compatto sulla posizione del Cav. Qual è esattamente? E' una posizione oltranzista, come sempre accade quando ci si deve sedere al tavolo negoziale. Nessun buon negoziatore si presenta con il ramoscello d'ulivo, ma siede al tavolo minacciando tuoni e fulmini per strappare il massimo delle concessioni e chiudere positivamente l'accordo. Il negoziatore che si presenta con richieste minime e ragionevoli, vuol dire che non intende trattare: o si vede soddisfatto nelle sue richieste oppure è pronto alla guerra.
     Se la logica della diplomazia ha ancora un senso, Berlusconi è un fior di diplomatico.


BERSANI-CAV DIVISI SU TUTTO MA UNITI CONTRO LO STESSO NEMICO: RENZI

     C'è una paura che avvicina Berlusconi e Bersani. Non è ancora chiaro se essa, nei calcoli delle convenienze, sia forte abbastanza da indurli a modificare le loro strategie. Quella paura ha il profilo del sindaco di Firenze. L'ombra di Matteo Renzi è il vero deuteragonista, come nelle tragedie greche, che si muove a fianco di Bersani. Renzi lo sostiene lealmente, e c'è da credergli. Non ha mai giocato in modo ambiguo la lunga sfida delle primarie e con la stessa trasparenza si sta muovendo sul terreno fangoso del tentativo di Bersani. La lealtà, in questo caso, non è soltanto una qualità morale ma anche un calcolo politico. Come non ricambiare con la stessa lealtà un eventuale e, al momento, ipotetico incarico a Matteo Renzi?
     Non è a lui, ovviamente, che Bersani pensa di passare il testimone in caso di fallimento. Ma il nome di Renzi, nel bene e nel male, fa parte della rosa dei possibili premier. E' più temuto, però, di tutti gli altri possibili candidati. Per una ragione semplice: se la ruota dovesse fermarsi sul nome di Renzi, in un sol colpo vent'anni di storia politica e una generazione di politici non esattamente esaltante verrebbero spazzati via.
     Renzi a Palazzo Chigi potrebbe entrarci ma soltanto per pochi mesi. Il tempo necessario per affacciarsi sul Paese, chiedere e ottenere lo scioglimento del Parlamento e presentarsi candidato per il Pd, senza bisogno di primarie a quel punto inutili. E un candidato di 38 anni sarebbe un deterrente troppo forte per una vecchia volpe come Berlusconi: volpe, ma vecchia.
     Renzi è la personificazione delle paure che attraversano i calcoli di Berlusconi e di Bersani. Per esorcizzare questo scenario, non l'unico possibile, sia chiaro, e neanche quello di più immediata realizzazione in caso di fallimento di Bersani,  la strada più sicura è consentire al segretario del Pd di portare a termine il suo incarico. Con le cautele e le garanzie, di cui si diceva all'inizio, irrinunciabili  per Berlusconi. 

sabato 23 marzo 2013

BERSANI RIESCE SE BERLUSCONI NON ESCE


di Massimo Colaiacomo

    Il "verificatore" Pierluigi Bersani è partito per la verifica. Così gli ha chiesto di fare il presidente della Repubblica nell'affidargli un incarico con paletti talmente stretti da non poter quasi vedere neppure il percorso. Napolitano è stato di una chiarezza esemplare, come è nel suo carattere e come gli impone la fragilità della situazione: quando tornerà al Quirinale, entrò un termine ragionevole, Bersani dovrà dire senza troppi giri di parole: a) se ha trovato una maggioranza certa che gli voti la fiducia al Senato; b) se ha la ragionevole certezza di un sostegno istituzionale del PdL e della Lega per fare le riforme istituzionali e prima ancora la legge elettorale.
     Non è un percorso semplice. Bersani deve mettere in conto ostacoli e trappole a ogni tornante. La prima insidia viene da Belusconi, contrario a separare il tavolo dl governo (e della maggioranza che dovrà sostenerlo) dal tavolo delle riforme. Come si sa, Bersani e il Pd possono apportare alcune varianti alla loro strategia, tranne una: immaginare un governo Pd-PdL. Su questo punto c'è una saracinesca, inchiodata e inespugnabile. Sulla carta, perciò, Bersani non avrebbe i numeri per formare il governo. I grillini sono  fuori della partita: loro, come non si stanca di ripetere Beppe Grillo poco creduto o inascoltato dagli zelanti di Bersani, voteranno contro ogni fiducia chiesta da qualsiasi governo, Bersani o domineddio. Sul piano dei numeri, dunque, Bersani potrebbe tornare al Quirinale oggi stesso e gettare la spugna.
     Le cose appaiono messe un po' diversamente non appena si cambi prospettiva e terreno di gioco. Si sta parlando del Quirinale. Berlusconi vuole giocare quella che considera l'unica vera partita di una legislatura in cui alba e tramonto si confondono. Il Cav, si sa, teme che sul Colle possa arrivare qualche personaggio (Prodi?) non solo sgradito, ma animato da rancori vecchi mi suoi confronti e quindi nella disposizione d'animo di chi è pronto a usare l'arma atomica contro di lui: dall'ineleggibilità all'accelerazione dei processi.
     L'elezione del nuovo Capo dello Stato (a meno di clamorosi ripensamenti di Napolitano) è dunque il fattore che potrebbe cambiare le carte in tavola e rimescolare le strategie fin qui seguite. Se Bersani saprà essere convincente e aprire una trattativa su una figura gradita al Cav, ecco che le cose impossibili sul piano del governo potrebbero diventare possibili. Se, per fare un esempio, Giorgio Napolitano accettasse un secondo mandato (improbabile che possa essere a termine) o il Pd prendesse in considerazione la candidatura di Giuliano Amato o di Gianni Letta, ecco che Bersani potrebbe ribaltare su Berlusconi le sue insuperabili difficoltà. È vero, il Cav ripete come un mantra "senza di noi non c'è maggioranza" ma lo stesso Cav sa bene che se vuole agguantare un risultato utile per il Colle più alto non può tirare la corda oltre il lecito. Insomma, il governo Bersani potrebbe prendere il largo, magari con il voto contrario (ininfluente) del PdL e la Lega che esce dall'Aula, sottraendo così voti contro la maggioranza ma senza rompere il patto di alleanza con il PdL.
     Si tratterebbe, insostanza, di dar vita a un governo "a geometria variabile", con una navigazione, certo, assai poco tranquilla per Bersani. È difficile intravvedere soluzioni diverse o meno precarie di queste. Un punto debolequesta soluzione lo presenta: un governo siffatto, sarebbe nei fatti ostaggio del centrodestra. Perché il giorno che la Lega, d'intesa con il PdL, decidesse di non uscire dall'Aula, per Bersani sarebbe la fine.

venerdì 8 marzo 2013

LA REPUBBLICA COMMISSARIATA

DALLA COSTITUZIONE MATERIALE
AL PRESIDENZIALISMO MATERIALE

     Mettere il Paese al riparo dal rischio dello scontro istituzionale. E' la formula magica che nella Repubblica della consociazione - quella fatta di guerre minacciate e mai combattute come di tregue respinte o mai offerte - da sempre sigilla la pax temporanea della politica al prezzo di qualche piegamento delle istituzioni e della Costituzione.
     Aver letto le cronache politiche sui giornali di stamane è stato quanto mai istruttivo. Le ipotesi sugli accartocciamenti della Costituzione ormai non conoscono più freni inibitori. Si va dall'idea di Pietro Ichino (ma lui è un giuslavorista, pazienza), per un breve governo guidato da Giorgio Napolitano (sic!), alla riconferma a tempo dello stesso per tutelare, nella veste di Lord Protettore, l'eventuale "governo del presidente". Il tutto per evitare "il rischio di scontro istituzionale" e un ritorno quanto mai improvvido alle urne.
     Da qui all'avvio delle consultazioni formali al Quirinale la fantasia del genio domestico avrà modo di partorire altre e più avventurose proposte di soluzione per la formazione dell'esecutivo. Nel presupposto che la sua nascita sia un atto dovuto, non costituzionalmente obbligato ma necessitato per via del semestre bianco che congela il potere presidenziale di scioglimento delle Camere.
     Un governo, comunque: è l'imperativo da cui parte il Capo dello Stato per affrontare lo slalom fra i paletti stretti posti dai partiti e dal vincitore-quasi-sconfitto che è il Pd. Il tentennante Bersani ha sfumato l'aut-aut: o si governa con Grillo o si torna alle urne. Ora è un aut-poi si vedrà. Insomma, la via maestra rimane quella tracciata, ma se risultasse occlusa Bersani, come gli altri protagonisti, si rimetteranno nelle mani del Capo dello Stato per navigare in mezzo alla nebbia fitta.
     Napolitano ha insistito ancora oggi sulla necessità per le forze politiche di mettere la coesione nazionale in cima a ogni loro scelta. Una formula che nel recente passato è servita come grimaldello per aprire la porta al governo "tecnico" di Monti, esperienza irripetbile a giudizio del Pd. Per il presente, invece, la stessa formula è di più incerta e fumosa realizzazione. Il governo di personalità "trasversali", di assoluta competenza e staccate quanto più possibile dai partiti (trasversali e distaccate: combinazione difficile!) è la formula suggerita da quell'attempato "ragazzo di Salò" che è Dario Fo. Con il voto di fiducia dato da chi? Da Grillo, no. Dal Pd e, forse, da Mario Monti. Con quale rotta programmatica? Decisamente puntata sull'Europa e sul rispetto degli impegni presi a suo tempo dal governo Berlusconi. Un esecutivo simile dovrebbe poggiare sui voti di Beppe Grillo, pronto a lanciare un referendum sul web per decidere se l'Italia deve restare nell'Euro ...
     Le contraddizioni di una simile formula sono destinate a moltiplicarsi a mano a mano che si procede.  Una si impone però sulle altre: il sistema politico, riottoso giustamente al governo tecnico perché prefigurava una sospensione della democrazia e altre nefandezze simili, come può accettare, all'indomani delle elezioni politiche generali, di sostenere un governo scolorito, di personalità esterne alla politica? Questa strada non conduce necessariamente a un ulteriore livello di delegittimazione della politica stessa? Non segna forse la vittoria della protesta che finisce così per sequestrare lo spazio di scelte e di decisioni proprie della politica?
     I voti grillini sono tre volte superiori a quelli presi a suo tempo dalla Lega di Bossi. Non solo: i consensi leghisti erano il premio degli elettori più che a un partito a un sindacato territoriale. I voti a Grillo sono invece una protesta generale, che si estende in maniera più o meno uniforme da Nord a Sud. Sono una contestazione del sistema alla radice. E la politica non può immaginare di rispondere con qualche pannicello caldo, tipo ritocchi o riformetta elettorale. A una crisi del sistema democratico la politica, se da qualche parte conserva un briciolo dell'orgoglio e della dignità della sua missione, deve rispondere con riforme di sistema. Crisi di sistema significa appannamento se non vera e propria delegittimazione della fonte dell'autorità. Quindi la Repubblica agonizzante ha bisogno di trovarsi subito un presidente che sia eletto dal popolo che trasferisce così la propria sovranità a una persona. Di un Parlamento che sia eletto lontano dai partiti, e dunque con una ritrovata autonomia decisionale rispetto alla partitocrazia. Un Parlamento così può eleggerlo soltanto il popolo scegliendo i candidati in collegi maggioritari a doppio turno o, meglio ancora, con il maggioritario secco a turno unico.
     L'Italia abituata alle liturgie e ai riti di una Costituzione vecchia e consunta, brutta nei principi e peggio ancora nei titoli sull'organizzazione dello Stato, vaga smarrita fra la lettera della Costituzione, senza aver mai capito bene quale fosse, e la sua concreta e materiale applicazione. Così il coro degli anti-presidenzialisti, sempre pronti a scendere in piazza contro le minacce oscure alla democrazia, accetta senza colpo ferire il presidenzialismo materiale e dunque immorale, perché privo di regole, ma rimangono sempre in trincea in nome dell'antifascismo.   
     Pochi si avvedono però delle minacce che incombono non tanto sulla democrazia quanto sulla Repubblica, che ne è il presupposto. La democrazia non si salva ricorrendo agli espedienti del momento. Con questi si può mettere in piedi un governetto per fare qualcosa. Ma sono i partiti gli unici attori in grado di assumere le decisioni radicali e, va detto, drammatiche ma inevitabili per salvare non genericamente il Paese ma le libertà repubblicane.  
     

martedì 5 marzo 2013

GOVERNO DI SCOPO O GOVERNO "MONTI TIRADRITTO"?

NAPOLITANO EVITERA' DI LASCIARE
UN PASTICCIO COSTITUZIONALE AL SUCCESSORE

di Massimo Colaiacomo

     La matassa del voto politico si aggroviglia dopo ogni dichiarazione dei leader delle tre minoranze. Due di essi, Bersani e Berlusconi, devono agitarsi per non perdere la battuta. Il terzo, Beppe Grillo, non deve muoversi da dove sta. Gli basta dire che non appoggerà mai nessun governo (nel senso di votare la fiducia) ma valuterà di volta in volta i singoli provvedimenti per decidere quali approvare e quali no. Una posizione micidiale per chiunque sieda a Palazzo Chigi. Grillo si incarica di essere un "giudice popolare" all'interno del Parlamento, un canale di collegamento fra la piazza - quella del web e quella fisica - e i palazzi della politica. Si è auto-investito di questa missione, non prevista dalla Costituzione, anzi in aperto contrasto con l'articolo 67 che, non a caso, è finito nel mirino di Grillo appena due giorni fa. Reazioni dai partiti? Dal Capo dello Stato? Dai presidenti del Senato e della Camera? Nessuna. Grillo vuole ridurre i parlamentari, già nominati e non eletti, nella camicia di forza dei gruppi e costringerli all'obbedienza delle decisioni prese dal leader, che neppure siede in Parlamento, diversamente prenderli a calci.
     La gravità della crisi politica è nel vuoto pneumatico in cui si macinano parole, senza costrutto e senza neppure mai sfiorare l'oggetto vero di una contesa che a spiegarla all'estero appare come l'ennesimo capitolo di una vicenda surreale accaduta in un Paese di fantasia. Grillo è un fascista, con o senza l'ausilio del web: sarà un picchiatore telematico, ma pur sempre picchiatore è. E ha ragione a esserlo vista l'inconcludenza e la miseria dei suoi avversari politici. Pavidi e irresoluti. Chiusi nella difesa estrema, e dunque già perdente, delle ultime ridotte. Bersani è stato sconfitto arrivando primo, Berlusconi nel solito furto con destrezza si intesta una vittoria mai davvero conseguita.
     Un risultato rocambolesco ma non imprevisto che ha riconsegnato nelle mani del Capo dello Stato uno scenario fatto di macerie e senza neppure una trave portante da cui ripartire. Costituzione alla mano, che cosa può fare Napolitano? Può, deve anzi, affidare un incarico al leader del partito che ha preso più voti. In caso di insuccesso, deve o no convocare il leader del secondo partito, cioè Beppe Grillo? Si tratterà di incarichi esplorativi, visto che il quadro parlamentare non offre in nessun caso la possibilità di dar vita a maggioranze organiche e precostituite. Una volta constatata l'impossibilità di dar vita a una maggioranza simile, come si arriverà al governo "di scopo", ancora stamane evocato da Franco Frattini? Il passaggio elettorale doveva, negli auspici del Quirinale ma non solo, riconsegnare al Paese un quadro politico chiaro, con una maggioranza coesa in grado di esprimere un governo stabile. Niente di tutto questo è accaduto.
     Il governo di scopo, già nella sua intestazione, è quanto di più lontano ci sia dalla stabilità. Le parole indorano la realtà, ma si tratterebbe in ogni caso di un governicchio da varare con un timer incorporato che lo farebbe saltare appena approvati i due o tre provvedimenti imposti da Grillo il quale neppure gli vota la fiducia. Si è mai visto un ceto politico con una più spiccata vocazione al suicidio?
     Il potere di sciogliere il Parlamento non è più nelle mani del Capo dello Stato perché il semestre bianco lo impedisce. Dalle decisioni che Napolitano vorrà ma, soprattutto, potrà prendere dipenderà la capacità del suo successore di imprimere una svolta a un quadro politico tanto fragile. Il governo "di scopo" è una soluzione fragile, destinata a finire sugli scogli del voto anticipato in autunno. Ma la prorogatio del governo Monti, ipotesi che si dice venga coltivata al Quirinale in queste ore, sarebbe il semplice trasferimento nelle mani del successore del potere di scioglimento di cui non può usare in questo momento Napolitano. Sempre che la scelta del prossimo Presidente della Repubblica non sia un passaggio tale da imprimere una svolta ai rapporti politici. Allora potrebbe diventare possibile quello che oggi non è. Ad impossibilia nemo tenetur ....

lunedì 4 marzo 2013

I POTERU NEUTRI SONO SFIBRATI, ECCO PERCHE' SI ANDRA' ALLE URNE



di Massimo Colaiacomo

     I poteri cosiddetti neutri, e quasi mai neutrali, sono sfibrati dopo i tredici mesi del governo tecnico di Mario Monti. L'idea di poterli richiamare in servizio a Palazzo Chigi per una nuova supplenza in attesa che la politica rinsavisca non è solo stravagante ma, a questo punto, è suicida per il ceto politico. Suona né più né meno come un'ammissione di impotenza di Pd e PdL a gestire il responso delle urne e come una resa degli stessi partiti all'intimazione grillina: arrendetevi, siete circondati, uscite mani in alto e non vi sarà torto un capello.
     E' da augurarsi che il Capo dello Stato ne prenda atto il più rapidamente possibile per la semplice ragione che ogni giorno perso corrisponde a una trasfusione di voti da Pd e PdL al Movimento5Stelle: appunto, un suicidio.
     Vediamo di mettere le tessere del mosaico al loro posto. Beppe Grillo, con l'arte consumata di un vecchio politico, ha alzato ogni ponte levatoio a governi Pd-M5S, ma lo lascia sollevato a metà in caso di un governo "tecnico". Perché? Per la ragione che Pd-PdL, contro ogni volontà di Bersani, sarebbero costretti a governare insieme in nome di un governo "neutro". Circostanza troppo ghiotta perché Grillo se la lasci scappare. Infatti, un governo così congegnato, avrebbe il consenso riottoso dei due partiti maggiori ma sarebbe ostaggio di Grillo più e peggio di un governo politico. Perché Bersani e Berlusconi per nessuna ragione al mondo potrebbero perdere i contatti con la piattaforma programmatica grillina su questioni come costo della politica e riduzione dei parlamentari. A Grillo spetterebbe il compito agevole di dettare, attraverso Pd e PdL ridotti all'impotenza politica, un'agenda programmatica e il governo tecnico dovrebbe soltanto eseguire.
     Ma davvero la vocazione suicida di Bersani e Berlusconi potrebbe spingersi fino a tal punto in nome dell'interesse nazionale? Se qualcuno utilizza ancora l'argomento dell'interesse nazionale è più che imbecille perché passa l'idea che l'interesse grillino è nobile a tal punto da coincidere con l'interesse nazionale.
     A Grillo si possono muovere rimproveri d'ogni genere, ma non che egli non sia coerente e conseguente con le affermazioni fatte in questi giorni. Cioè: mai al governo con il Pd; mai il voto di sostegno a un governo Pd-PdL; forse, e a certe condizioni, il voto ai provvedimenti del governo tecnico che andassero in direzione del programma grillino.
     Tradotto: se il governo tecnico, con il sostegno di Bersani e Berlusconi, approva punto per punto il programma Cinque stelle, forse Beppe Grillo ... forse. Il comico genovese chiede, in buona sostanza, al sistema politico di fare hara kiri e di risparmiargli di infilzarlo con le banderillas.
     E' chiaro che le cose stanno in questo modo e non meno chiaro è che da qui a giugno si andrà alle urne. Il governo tecnico affidato a chicchessia delle "alte personalità" (viene da ridere sulla statura) di Bankitalia è destinato a produrre frutti elettorali generosi e opimi per Beppe Grillo. I poteri neutri hanno esaurito, dopo Monti, ogni spinta propulsiva per sostenere il contesto europeo entro la cui cornice ricollocare le politiche di finanza pubblica. L'idea stessa che "tecnici" di provata fede europeista siano l'unico canale rimasto attivo per annodare il destino dell'Italia a quello dell'Eurozona è di per sé un'aggressione alla politica e un ulteriore favore reso a Beppe Grillo.
     L'unico gesto concreto e positivo che Napolitano può compiere per rendere l'ultimo servigio dei tanti onorevolmente resi all'Italia è di anticipare la sua uscita di scena così che il successore possa procedere allo scioglimento del Parlamento e riportare il Paese alle urne. Dopo una riforma elettorale? Sarebbe preferibile di no. Perché verrebbe fatta per bloccare Grillo e, dunque, per alimentare in realtà la marea dell'indignazione e del voto contro i partiti tradizionali.
     La riforma, quella della Costituzione e della legge elettorale, può essere fatta quando PD e PDL potranno parlarsi senza pregiudizi. Quindi dopo una nuova tornata elettorale che lasci a casa Pierlugi Bersani.  

BLOGGER MESSORA DA RAGIONE A IMPAZIENTIMASENZAFRETTA.BLOGSPOT.IT


DI MASSIMO COLAIACOMO

"La strategia di Grillo e' lasciarli scornare per poi presentarsi alle prossime elezioni e prendere la maggioranza assoluta. Il movimento vive perche' e' coerente e non puo' mettersi a trattare". Lo dice a "La Zanzara" su Radio 24 Claudio Messora, blogger vicino al Movimento Cinque Stelle che e' intervenuto nei giorni scorsi sul blog di Grillo con la "provocazione" di un governo grillino appoggiato dagli altri partiti. Le parole di Claudio Messora combaciano perfettamente con l'analisi fatta su questo blog sabato 2 marzo. Beh, una bella soddisfazione ....

domenica 3 marzo 2013

GRILLO VUOLE METTERE IN SICUREZZA BOTTINO ELETTORALE E PROPONE CANCELLAZIONE ART. 67 COSTITUZIONE


di Massimo Colaiacomo

     A tutti capita di fare una scivolata (cazzata, nel lessico grillino). Anche al driver di quella straordinaria macchina elettorale chiamata Movimento 5 Stella. Grillo è bravo a dissimulare la paura e conosce l'arte di aggredire prima di essere aggredito (secondo l'adagio popolre che chi mena per primo mena due volte).
     Cos'altro significa il suo attacco odierno contro l'art. 67 della Costituzione che stabilisce per il parlamentare la condizione di assoluta libertà "da ogni vincolo di mandato"? Che cosa significa se non la paura grillina di assistere da qui a poco a uno smottamento più o meno lento della sua pattuglia parlamentare? Chiunque pensa, come Bersani, che sia possibile se non doveroso tentare un confronto con la pattuglia parlamentare grillina, non tiene conto di un piccolo dettaglio: quella pattuglia rimane una falange compatta e coeva fintanto che il leader che la dirige dall'esterno tiene abbassata la saracinesca a qualsiasi negoziato. E' la condizione preliminare per l'esistenza dei gruppi grillini di Camera e Senato.
     Qualsiasi apertura al dialogo costringerebbe infatti Grillo a entrare nella dialettica parlamentare tradizionale togliendo forza e visibilità agli argomenti grazie ai quali ha raccolto un quarto dei consensi alle urne. E' da ingenui pensare o anche solo sperare che deputati e senatori grillini possano votare la fiducia a qualsiasi governo - Pd o PdL, o entrambi insieme - senza con ciò cassare la ragione sociale del movimento. Ma è anche vero che il grillismo può essere forza di governo, a una condizione: che abbia la maggioranza assoluta e dunque al riparo dal bisogno di alleanze politiche. Questo è un dato accertato e questa è la condizione pericolosa in cui viene a trovarsi la democrazia italiana. Non per colpa di Grillo, è ovvio, ma per responsabilità unica ed esclusvia di un sistema politico fallito e di quel surrogato che è stato il governo "tecnico", dannoso come e più del sistema politico fallito.
     Grillo se la prende nel suo blog con i parlamentari voltagabbana, fingendo di non sapere che essi sono espressione di un elettorato per la gran parte fatto di voltagabbana. Quando il generale Alexander, all'indomani dell'ingresso in Roma liberata, telegrafò a Churchill per informarlo che era compiuta la liberazione di 40 milioni di italiani, lo statista inglese gli rispose, con il sarcasmo che tutti gli conoscevano, che aveva sbagliato i conti perché gli italiani non erano 40 bensì 80 milioni: 40 milioni di fascisti e 40 di "anti".
     Se si cerca un aspetto peculiare che possa assimilare il grillismo a una forma di autoritarismo che una cultura politica prevenuta chiama fascismo ma che una cultura appena un po' più libera potrebbe sospendere tra fascismo e comunismo, questa storia dell'abolizione dell'art. 67 è esemplare. Grillo non ha solo nominato i suoi parlamentari (nomine dissimulate dalle parlamentarie), ora chiede per loro il dovere dell'obbedienza cieca o l'immediata espulsione dal Parlamento nel caso dovessero lasciare il gruppo M5S.
     Ora, viene da chiedersi: come possono forze democratiche tentare o anche solo ipotizzare di avviare un dialogo con Grillo pensando di poter costruire con lui un'alleanza organica per dar vita a una maggioranza? E' come chiedere a Grillo di trasformarsi in un tacchino, farcirsi con le sue maani e infilarsi nel forno ... E tutti i vaffa-day degli anni passati sarebbero serviti a Grillo per mandare Bersani a Palazzo Chigi? Davvero leader politici, osservatori e analisti ritengono possibile da Grillo una scelta simile a un suicidio?
     E' davvero imbarazzante anche solo immaginarlo. Grillo è la metastasi evidente del cancro che ha divorato il sistema politico e la società italiana. Pensare di trasformarlo nella terapia è pura follia.
     Grillo non è una cellula staminale capace di rigenerare il tessuto incancrenito del sistema. Potrebbe, tutt'al più, accelerarne la decomposizione ma non può rigenerare alcunché. I suoi punti "programmatici" - taglio dei parlamentari e degli stipendi, abolizione delle province - sono altrettanti specchietti per le allodole. Grillo non saprebbe che farsene di quegli obiettivi.
     Ancora più imbarazzante sarebbe per il Pd e Bersani pensare di ottenere l'appoggio dei parlamentari grillini a un governo di minoranza del Pd che avrebbe vita soltanto in quanto esecutore di un programma letteralmente "dettato" da un alleato esterno alla maggioranza e guidato da un leader esterno al Parlamento. Possibile che il livello di rimbecillimento del ceto politico possa spingersi a tanto? E quel governo, per di più, starebbe in vita finché aggrada a Grillo ...

I RIGORISTI TEDESCHI? ANCHE L'IPOCRISIA ORMAI CORROMPE LA PATRIA DI LUTERO

"Chi aspira ad assumersi la responsabilità del Paese più forte d'Europa, deve fare a meno delle offese ai Paesi vicini". Non lo ha detto Mariano Rajoy né François Hollande. No, lo ha detto il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle commentando le parole del candidato leader della Spd Peer Steinbrueck. Il signor Westerwelle lancia manciate di sale alle sue spalle: e le offese da lui arrecate ai governanti italiani non contano? A questo punto ci manca solo la censura di Angela Merkel a Steinbrueck e poi siamo tutti. Il povero Martin Lutero, 500 anni dopo la riforma, si starà rivoltando nella tomba vedendo quale livello di ipocrisia cattolica sta corrodendo il popolo tedesco.

venerdì 1 marzo 2013

LA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE SEPPELLITA DA UNA RAFFICA DI CLICK

di Massimo Colaiacomo

     Il gioco incrociato di veti scattato nel Pd è il segnale dello smarrimento in cui è finito il partito all'indomani di una sconfitta politica malamente mascherata da una mezza vittoria elettorale. Che le cose siano così e non nel modo in cui le raffigurano osservatori più o meno benevoli è provato da una serie di circostanze. L'intervista di D'Alema al "Corriere della Sera" di giovedì 28 febbraio con la sua terapia "anni Settanta" in puro stile consociativo nelle istituzioni e in stile "chi vivrà vedrà" sul piano del governo è il primo step per Bersani. E il ritorno stasera di Matteo Renzi che se la prende, nella sua Enews, con gli sciacalli (leggi D'Alema) che vorrebbero prendere il posto dei tacchini sul tetto o dei giaguari, sono il presagio delle convulsioni che attendono la direzione di quel partito convocata per il 6 marzo.
     Il Pd non è in grado non solo di assumere la guida del governo ma neppure di elaborare una strategia politica capace di aprire un percorso parlamentare per la nascita del governo. Le divisioni emerse sono laceranti più di quanto non sia fin qui apparso. La stessa idea bersaniana di mettere mano alla riforma elettorale per tornare alle urne in tempi brevi sembra fatta per far imbufalire parlamentari appena eletti e per niente disposti a salire sul patibolo elettorale senza aver neppure goduto di qualche mese di indennità parlamentare. Bersani, insomma, ha fatto hara kiri con una rapidità sorprendente. Un suicidio politico da parte di un leader inadeguato ad affrontare un impegno superiore alle sue capacità politiche.
     Su tutto grava un pericoloso equivoco che si va costruendo in queste ore è che ruota attorno al possibile ruolo di Grillo per la nascita dell'esecutivo. Chi immagina (e, purtroppo, non sono pochi) il possibile coinvolgimento grillino in una maggioranza di governo non ha compreso la natura di quel movimento e, peggio ancora, si ostina a leggere le parole di Grillo con gli occhiali dall'analisi politica tradizionale. Grillo non intende favorire la nascita di un governo, men che meno intende votar gli la fiducia. Egli punta invece a prendere in ostaggio il prossimo esecutivo, se ciò gli sarà consentito da una maggioranza stentata o ad assetto variabile. Un progetto che sarebbe per lui facilmente realizzabile se Bersani dovesse dar seguito al proposito di presentarsi in Parlamento con alcuni punti programmatici e senza una maggioranza precostituita. Su questa strada, però, Bersani ha già incontrato il netto rifiuto del Capo dello Stato.
     Quanti perorano questa via d'uscita sono evidentemente degli analfabeti politici di ritorno. Nessuno di loro si chiede perché mai Grillo dovrebbe venire meno al punto principale del so programma: arrendetevi, siete circondati, uscite mani in alto e non vi sarà torto un capello. Perché Grillò non dovrebbe essere preso in parola? Cosa farebbe pensare al Segretario di Stato John Kerry che invece con i parlamentari grillini sarà possibile parlare e indurli a comportamenti più istituzionalmente adeguati?
     Quando si tratterà di votare un provvedimento qualificante per il governo come si potrà tollerare che la linea di un gruppo parlamentare venga decisa attraverso una consultazione via web con la partecipazione non si sa di quanti e soprattutto non si sa di chi? E il Parlamento, per la difesa delle cui prerogative contro la tirannia di Carlo I Oliver Cromwell mise l'Inghilterra a ferro e fuoco a metà del Seicento, potrà rassegnarsi al ruolo di esecutore di una volontà nata non si sa dove e ad opera di chi? Giorgio Napolitano è un custode geloso della Costituzione e della sovranità parlamentare. Mai potrebbe accettare soluzioni politiche pasticciate e mai, soprattutto, potrebbe accettare pastrocchi in grado di svuotare il Parlamento del suo ruolo.
     Questo aspetto della crisi di sistema che vive l'Italia non è secondario. Il dramma del Paese è racchiuso in questo dilemma: partiti deboli e screditati dovrebbero rifondare un sistema politico con partiti politici forti e rappresentativi. Altro che smacchiare il giaguaro o asciugare gli scogli: la crisi di sistema dell'Italia esige una riforma di sistema, cioè qualcosa di profondamente diverso dai pannicelli caldi come l'aggiustamento della legge elettorale. Un accordicchio di governo su pochi, limitati e non si sa quanto qualificati punti, è utile a Grillo ma non all'Italia. Una riforma presidenzialista o una legge elettorale maggioritaria sono invece utili all'Italia e farebbero evaporare il grillismo come neve al sole. Ma niente di tutto questo sarà possibile senza un'intensa che veda protagonista anche il PdL e Silvio Berlusconi. E, come nel gioco dell'oca, ecco che si ritorna alla casella di partenza.