martedì 18 dicembre 2018

UN PARTITO DEI CATTOLICI NON FA BENE AI CATTOLICI


di Massimo Colaiacomo

     Il presidente della Conferenza episcopale italiana, card. Gualtiero Bassetti, in una lunga intervista  ad "Avvenire" del 9 dicembre è tornato con vigore sulla necessità per i cattolici di tornare a un impegno diretto sulla scena politica. A scanso di equivoci, e contro ogni possibile lettura strumentale, Bassetti ha spiegato che compito della Chiesa è solo quello di annunciare Gesù Cristo, ma che è "auspicabile un impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica (...) è un impegno che spetta senza dubbio ai laici. Laici che, però, non solo devono essere adeguatamente formati nella fede, ma sono chiamati ad assumere come bussola dei loro comportamenti quella 'visione martiriale' della politica evocata da papa Francesco. La politica per i cristiani non è il luogo per fare soldi o per avere il potere. È all'opposto il luogo del servizio, di chi non si lascia corrompere e del martirio quotidiano. Come pastore ho il dovere di ricordare e suggerire ai laici di servirsi di quel tesoro prezioso che è la Dottrina sociale della Chiesa. Un tesoro a disposizione dell'umanità intera, ma che non è ancora stato compreso appieno".
     Si tratta di affermazioni impegnative, di grande valore etico e sociale, che non sconfinano, come si sono affrettati a chiosare alcuni critici, nell'esortazione a ricostituire un partito cattolico. Per la semplice ragione che in Italia non è mai esistito un partito "di raccolta" dei cattolici. Non lo fu la DC, almeno nell'incarnazione degasperiana. Il leader politico, da anni in attesa di beatificazione, amava ricordare che la DC doveva essere un partito "di" cattolici e mai "dei" cattolici. Con ciò prefigurando una traiettoria di impegno vigoroso sui valori etico-sociali senza mai mettere il dato di fede avanti a tutto. Alcide De Gasperi operava in una realtà profondamente diversa e dopo aver fissato nell'art. 7 della Costituzione il rango privilegiato dei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica ritenne, proprio per questa ragione, di aver guadagnato spazi di manovra in una società italiana che si voleva laica nelle sue ragioni di fondo.
     Oggi i cattolici sono chiamati a una sfida completamente nuova, in una società ormai secolarizzata e con l'accresciuta tendenza a "relativizzare" i valori etico-sociali. Si prenda la famiglia: l'uso del singolare è rimasto soltanto nella Costituzione, negli articoli dal 29 al 31. "La Repubblica - sancirono i costituenti all'art. 31 - agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". Si badi bene ai verbi: agevolare "la formazione della famiglia" e "proteggere" la maternità. Che cosa è transitato di questi principi nella legislazione attuativa e ordinaria? Poco, dirà qualcuno. Niente, si può dire con uno sguardo più onesto. Quando i cattolici si sono impegnati in un'azione di contrasto sul terreno dei diritti civili, hanno registrato sconfitte pesanti e laceranti per la stessa comunità cattolica. Perché il contrasto al relativismo è stato quasi sempre giocato sul terreno della politica e poco o niente sul terreno della formazione e dell'educazione dove invece la Chiesa avrebbe avuto le carte migliori da spendere. Amintore Fanfani, nel 1974, si assunse la responsabilità dell'ultima crociata "clericale" in un'Italia sulla via di una rapida secolarizzazione e portò la DC a una sconfitta storica, sul piano sociale prima ancora che sul piano politico. All'opposto di Alcide De Gasperi, Fanfani caricò sul partito responsabilità che non gli competevano. Il contrasto al divorzio esigeva allora, ed esige oggi, politiche di sostegno economico alla famiglia, di tutela sociale per l'infanzia e la gioventù. Il contrasto al divorzio o all'aborto non si realizza istruendo crociate fuori luogo e fuori tempo, ma si costruisce attraverso una legislazione mirata a costruire una rete di protezione e di incoraggiamento per la maternità, per l'educazione dei figli. Insomma, è una Chiesa più inserita nella società quella che può modificare i comportamenti collettivi e individuali, aggiustare la bussola etica delle persone.
     L'unico partito sulla scena europea che si muove con prudenza e determinazione sulle questioni etico-sociali sembra essere oggi la CDU di Angela Merkel e, si può immaginare, della sua erede designata Annegret Kramp-Karrenbauer. Il testimone del comando passerà da una leader protestante a una leader cattolica. AKK, come è stata ribattezzata dall'informazione, si presenta come una personalità tranquilla, forse un po' scialba, ma ha manifestato sempre idee molto nette su diverse questioni etiche e sociali. E c'è da scommettere che nessuna battaglia, per quanto ardimentosa sul fronte dei grandi valori, intaccherà la natura profondamente laica della CDU. La politica ha strumenti di straordinaria efficacia per contrastare la deriva relativistica mascherata con l'affermazione dei "diritti positivi". Incoraggiare la maternità con forti assegni per i bimbi che nascono; depotenziare l'eutanasia aprendo con forza alla ricerca scientifica e alla terapia del dolore; tutelare il matrimonio con politiche di sostegno economico alla famiglia o potenziando il diritto all'abitazione. La politica può restituire "valore" alla vita accettando e ribaltando la sfida della sua mercificazione. Per fare questo non serve un partito cattolico. Quando il Popolo della famiglia presenta sue liste alle elezioni per raccogliere l'1% non ha reso un servizio né alla famiglia né alla comunità cattolica. Fors era reso un servizio a qualche leader. Ma questa è un traguardo che a un buon cattolico non dovrebbe mai interessare.
     

domenica 21 ottobre 2018

DI MAIO E SALVINI HANNO SCELTO LA LINEA DI GALLEGGIAMENTO, FINCHÉ TIENE


di Massimo Colaiacomo


     Era scontato un compromesso politico Lega-M5S sulla scivolosa questione del condono fiscale. Messa da parte la questione sull'origine del controverso comma in cui si prevedeva di scusare anche i soldi "residenti" all'estero, si trattava di capire chi è che dovesse fare un passo indietro. In apparenza è stato Salvini, nella sostanza le cose sono rimaste immutate anche se, sul piano contabile, defalcare una quota di condono lascerà evidentemente un buco nei conti pubblici con evidente aggravio per le stime del deficit. In fondo, eliminare il controverso comma sulla non punibilità dell'evasione fiscale, ha consentito a Di Maio di salvare la bandiera della legalità, e a Salvini di portare a casa un condono di tipo per così dire "sovranista". Un accordo che accontenta le esigenze dei due vice-premier ma nello stesso tempo semina un velo di diffidenza nei rapporti personali. Di Maio e Salvini saranno resi più guardinghi, ma non al punto da mettere in discussione la maggioranza e il governo.
     Né la Lega né il M5s hanno un interesse immediato a provocare una crisi che li vedrebbe sul banco degli imputati perché verrebbero colti nel mezzo di un autentico percorso di guerra sulla manovra economica: il giudizio della Commissione europea; il re-rating di Fitch; soprattutto, però, il giudizio dei mercati finanziari. Tre occasioni per altrettanti inciampi. È dubbia l'idea che una bocciatura su tutto il fronte, consentirebbe a Lega e M5s di presentarsi alle europee nella veste di garanti della sovranità nazionale perché per la primavera del 2019 gli elettori avranno sperimentato gli effetti dello spread nella vita quotidiana. E all'elettore poco importa se la rata più alta del mutuo sia responsabilità della UE o di Moody's, perché al governo dell'italia ci sono Salvini e Di Maio e difficilmente la narrazione di un'Europa "mare matrigna" sarà sufficiente, da qui a maggio, a trattenere o addirittura accrescere il consenso elettorale dei popul-sovranisti.
     Perché allora le opposizioni parlamentari sono o appaiono così inadeguate, sicuramente deboli, prive di proposte alternative? Una ragione della debolezza non è soltanto nei numeri, perché la maggioranza giallo-verde non ha alternative in Parlamento. C'è una ragione più profonda che spiega la debolezza delle opposizioni e la forza della maggioranza che va oltre gli stessi numeri parlamentari: si tratta della speranza, al momento mal riposta, di FI da una parte e del PD dall'altra di assistere all'improvvisa implosione della maggioranza e quindi alla possibilità, per il Pd di aprire il dialogo con il M5s e, per Forza Italia di riaccasarsi con la Lega di Salvini. Si tratta di due illusioni e Salvini e Di Maio hanno tutto l'interesse che Forza Italia e PD le coltivino perché questo in realtà cementa ancora di più l'alleanza giallo-verde.
     C'è, in tutto questo, l'eccezione di Matteo Renzi. Al comizio conclusivo della Leopolda, l'ex premier ha confermato e sviluppato la strategia di un'opposizione senza quartiere alla maggioranza in carica. Soprattutto, ha rivendicato il merito di aver impedito ogni confronto con il M5s verso il quale ha ribadito il "non possumus" del PD. Nella logica renziana, l'opposizione al governo non ammette distinzioni fra M5s e Lega: due partiti populisti, ugualmente pericolosi, che porteranno l'Italia contro il muro. Renzi blocca ancora il confronto interno al PD ed è pronto a mettersi di traverso contro ogni suggestione di apertura al M5s. La sua polemica, neanche troppo velata, verso Dario Franceschini e quanti con lui confidano nell'apertura di un confronto con i grillini è la conferma del peso sempre notevole che Renzi ha tutt'ora nel PD. Per non perdere il quale, l'ex premier ha escogitato la creazione di "comitati civici", una sorta di evangelizzatori elettorali che formandosi fuori dal PD avrebbero più credibilità presso gli elettori. Renzi non si ritiene ancora fuori gioco e ha carte importanti a giocare nella partita surreale del congresso, da tenere all'inizio del prossimo anno secondo una parte del gruppo dirigente ma se possibile anche da rinviare, nella logica renziana. Mettere più tempo fra la sconfitta del 4 marzo e la battaglia per la segreteria, passano magari attraverso un risultato non strabiliante di Lega e M5s alle europee, sarebbe ottimo fieno da mettere in cascina per Renzi.
      
            

lunedì 1 ottobre 2018

DI MAIO E SALVINI OTTENGONO LO SCONTRO A LUNGO CERCATO CON L'EUROPA

L'egoismo della politica, le regole dei mercati, le attese dei cittadini: è un'equazione difficile quella che devono risolvere Commissione europea, BCE e Angela Merkel. Ma la soluzione si trova soltanto a Roma ed è tutta nelle mani di Salvini e Di Maio.

di Massimo Colaiacomo

     L'Europa non può concedere "trattamenti speciali" all'Italia perché altri Paesi potrebbero reclamarli e questo significherebbe la fine dell'euro. Sono parole come pietre quelle pronunciate in Germania da Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea, e riportate dall'ANSA con un lancio delle 21:18. Parole che non sembrano suscitare preoccupazione nel governo italiano se è vero che neanche mezz'ora e da palazzo Chigi filtra una replica, affidata alle solite "fonti", solo in apparenza conciliante ma in realtà dura e urticante perché vi si annuncia che il governo "frutto del voto democratico, è impegnato e determinato ad andare avanti nella direzione della manovra impostata". Una giornata avviata con il fiato sospeso per la reazione dei mercati, si è chiusa in un clima di scontro quale non si era mai visto fra gli organismi comunitari e un Paese membro dell'UE.
       La drammaticità del momento si coglie in due eventi: nel pomeriggio, il ministro Tria rientra da Lussemburgo, al termine del vertice dei ministri delle Finanze, e fa sapere che non parteciperà domani all'Ecofin, un vertice che si occuperà di un primo esame del Documento di economia e finanza italiani. In serata, la nota "ufficiosa" con cui palazzo Chigi replica ai moniti di Juncker non ha il consueto stile diplomatico con cui si è fin qui affidato al premier Conte il compito di smussare e assorbire le asprezze dialettiche nel rapporto con l'Europa.
     La sensazione palpabile è di un governo che ha deciso di tagliarsi i ponti alle spalle e andare allo scontro in campo aperto con l'Europa, incurante dei danni incalcolabili che possono derivare all'Italia ma altresì convinto dei cospicui vantaggi elettorali che potranno cogliere i due soci di maggioranza. Il "me ne frego" con cui Salvini liquida ogni domanda dei cronisti sul Def e sulle perplessità dell'Europa, è diventato in pochi giorni il mantra quotidiano del governo. A conferma della lucida consapevolezza con cui si vuole perseguire un disegno politico temerario, in un certo senso napoleonico, che mira a scardinare la costruzione europea svuotandone di significato e di valore le regole attorno a cui è stata costruita la sovranità monetaria europea.
     La dimensione polemica e anti-europea messa dal governo nella scrittura del Def finisce in questo modo per mettere in ombra il profilo sociale ed economico di un provvedimento concepito come un ponte, un traghettamento propagandistico fra le promesse del voto del 4 marzo, e la loro realizzazione in vista del voto europeo del 26 maggio 2019.
     Salvini e Di Maio non possono arretrare di fronte a questa sfida, per loro significherebbe rendere una vittoria "mutilata" quella del 4 marzo e gettare la spugna in vista dello scardinamento dell'edificio europeo. Il problema loro e dei sovranità in generale è che alla parte destruens, chiara ed evidente, non si affianca un progetto comune per ricostruire su basi nuove.
     L'egoismo della politica e la bulimia di consensi non prevedono, purtroppo, momenti di riflessione critica sui vantaggi o sui danni che una strategia di politica economica e sociale può arrecare al proprio Paese. Una volta denunciate le trame complottiste per fermare il"cambiamento" e l'affermazione della "manovra del popolo", una volta irrisi i "numerini" e lo "spread" buono "da mangiare a colazione", è evidente che la narrazione della realtà viene sopraffatta dalla sua manipolazione. La realtà come rappresentazione e proiezione dei desideri collettivi, alimentati da un'incessante e abile propaganda quotidiana, travolgono ogni residua capacità di giudizio critico. 
     Se anche Papa Francesco si spende per indicare nel lavoro, e non nel sussidio, l'unica dignità vera per ogni persona umana vuol dire che qualcosa di profondo si è incrinato nel sentimento collettivo di un popolo. Se tutto quello che è stato costruito dalla politica e dalla società prima del 4 marzo era indegno e inquinato dalla corruzione, dal malaffare, è difficile arginare la perdita di memoria storica e impedire la deriva etica e sociale dell'Italia.
     Se i "mercati" sono il luogo diabolico in cui si tessono trame ai danni dei poveri e degli ultimi, e non sono invece il luogo in cui ogni cittadino cerca di tutelare i propri interessi e mettere a frutto i propri risparmi, è difficile spiegare i guasti che a quegli interessi e a quei risparmi possono derivare da una sfida aperta alla regola primaria di ogni comportamento umano, la regola del buon senso.
     Queste contraddizioni, questa realtà ossimorica fanno da sfondo al travaglio della politica italiana di questi mesi e si riversano sulla società provocando un senso di smarrimento e di disagio che non sono mai stati forieri di un futuro positivo e utile.   
     

mercoledì 25 luglio 2018

IN AUTUNNO LA PARTITA DECISIVA PER IL GOVERNO E PER L'ITALIA


di Massimo Colaiacomo

     Non basta denunciare la confusione in cui si muove il governo per certificare l'esistenza in vita delle opposizioni. Il paradosso dei sondaggi è tutto qui: il caos in cui operano Matteo Salvini e Liuigi Di Maio è sotto gli occhi di tutti, ma i consensi dell'opinione pubblica sono in forte aumento per entrambi i i leader. Gli italiani confidano che qualcosa di diverso - non di meglio, ma di diverso - alla fine può essere prodotto da M5s e Lega più di quanto abbiano saputo fare i governi e le maggioranze dei partiti tradizionali.
     La campagna elettorale permanente in cui Salvini ha immerso l'Italia sulla questione dell'immigrazione è riuscita fin qui a monopolizzare le attese e le speranze di quanti credono che molti se non tutti i problemi derivano dall' "invasione" delle ondate migratorie. A Salvini va riconosciuta una grande abilità mediatica. Dietro la cortina fumogena dell'immigrazione, Lega e M5s hanno potuto nascondere il fallimento delle loro promesse elettorali, impossibili da attuare senza violare tutti i parametri europei e, soprattutto, senza esporre il Paese a una nuova ondata speculativa sul debito pubblico.
     Si spiega così l'avvio di una campagna di pressione sul ministro dell'Economia, Giovanni Tria, finito nel mirino di Lega e M5s a causa della sua ortodossia "europeista" vissuta dai due leader politici come un ingombro al dispiegamento dei loro programmi. La sfida, e i limiti del populismo, sono tutti qui: l'idea di far coincidere le promesse elettorali con i programmi di governo al punto da ritenerle realizzabili al di là e al di fuori di ogni vincolo. Una visione prometeica tipica di chi si illude, una volta spezzate le "catene" dell'Europa, di poter volare liberamente e riguadagnare d'un colpo la crescita economica, l'occupazione e il benessere di un tempo.
     Una visione ingenua e insieme estremamente pericolosa, suicida, quasi. L'idea che sia l'Europa a impedire la rinascita economica dell'Italia significa ignorare che i veri giudici non sono quelli di Bruxelles, ma le migliaia di operatori finanziari che ogni giorno negoziano i titoli del debito pubblico, con un occhio all'andamento del deficit e del debito, e pronti a prezzare il livello di rischio dopo ogni provvedimento del governo. Salvini e Di Maio sanno, anche se fingono di non sapere, che la loro scommessa su reddito di cittadinanza e flat tax è persa in partenza. Viene da domandarsi come sia possibile pensare di smontare le politiche populiste solo annunciate ma non ancora realizzate con un'opposizione altrettanto populista e destinata perciò a essere opposizione ancora a lungo.
     Si prenda il caso di Forza Italia, un partito che i sondaggi vedono ogni giorno più esangue. Rimproverare a Salvini di non aver ancora realizzato la flat tax è una critica legittima e un modo spicciolo per cercare di mettere in difficoltà la Lega. Ma questo significa anche sfidare il governo a presentare un piano di taglio delle tasse e ad appoggiarlo. È pura follia. Meglio, molto meglio allora, l'idea di Antonio Tajani - con Brunetta gli unici rimasti a pensare qualcosa di politico in quel partito - che sfida l'esecutivo a sforare sì il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil, ma semmai per cancellare i 90 miliardi di debito della P.A. verso le imprese. In sostanza, è la tesi di Tajani, si faccia debito ma se questo serve per cancellare un debito più vecchio. Fuori da queste idee, Forza Italia è davvero un partito reso acefalo dalla "botta" del 4 marzo e il personale politico che la rappresenta in Parlamento non sa staccarsi dalla propria mediocrità, essendo ogni parlamentare impegnato a non urtare Salvini nel timore di non vedersi ricandidato. E il comportamento tipico di chi si arrende senza combattere.
     Manca, con ogni evidenza, un ricambio all'attuale maggioranza ma non tanto in termini politici quanto in termini di ceto politico che sia un minimo adeguato e temprato ad affrontare i gravi problemi del Paese. Manca, cioè una élite politica capace di assumere sulle proprie spalle la responsabilità di governo del Paese avendo una visione lunga e le soluzioni credibili.

mercoledì 13 giugno 2018

DA SALVINI UNA VITTORIA TATTICA, MA PER L'ITALIA IL RISCHIO DI UNA SCONFITTA STRATEGICA


di Massimo Colaiacomo

     Non c'è alcun dubbio sull'errore commesso dal governo francese di intervenire sulla vicenda della nave Acquarius con una tracotanza ingiustificata e offensiva per la dignità dell'Italia. L'errore di Macron e del suo portavoce ha in qualche modo velato gli errori del ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, convinto di aver avvicinato se non addirittura impresso una svolta in chiave europeista alla vicenda delle immigrazioni. Salvini ha riferito al Senato e ha reso la pariglia ai francesi con parole di inusuale durezza. Alle quali non poteva che seguire l'annullamento del vertice bilaterale fra il ministro dell'Economia Giovanni Tria e il suo omologo France, Bruno Le Maire. Annullare un vertice è un atto grave sul piano diplomatico senza considerare i risvolti politici che questo fatto comporta.
     Salvini ha colto una vittoria significativa sul piano dell'immagine e, nel breve termine, sul piano politico. Il suo decisionismo è stato apprezzato senza riserve dagli alleati minori del centrodestra e ha sicuramente incontrato il favore di una larga maggioranza dell'opinione pubblica. Una vittoria tattica innegabile ma assai difficile da capitalizzare sul piano politico e in campo europeo. È vero, la Spagna del socialista Sanchez ha tolto per ora le castagne dal fuoco all'Italia, ma la notizia di altre navi in arrivo per le quali è difficile ripetere il rifiuto vincente sull'Acquarius è una conferma delle difficoltà enormi che si incontrano nel gestire il fenomeno migratorio in assenza di una strategia fondata sui flussi e sugli accordi bilaterali con i paesi rivieraschi del Mediterraneo.
     È in Europa, però, diversamente dai suoi calcoli, che Salvini si trova ad affrontare una partita da oggi sempre più in salita. L'asprezza dello scontro con la Francia, il rapporto teso con la Spagna, le tensioni suscitate nel governo tedesco, con la Csu schierata con Salvini e la Cdi più cauta, gli applausi ipocriti che arrivano all'Italia dai Paesi di Visegrad: sono tanti capitoli della matassa ingarbugliata da Salvini con un gesto unilaterale, manifestazione di energia politica ma anche di breve respiro. L'idea di convincere l'Europa a riformare gli accordi di Dublino sotto l'impeto di decisioni energiche è suggestiva a condizione che essa non riveli una natura ricattatoria nei confronti degli altri partner. Salvini è convinto della bontà della sua scelta, i governi europei. colti alla sprovvista, lo sono un po' meno e si preparano a negoziare con più durezza su un tema che esigeva invece un approccio persuasivo e più problematico.
     All'Italia non restano più altre carte da giocare in Europa, dopo la dimostrazione di forza con il rifiuto di accogliere la nave con 629 immigrati. Il merito che in molti riconoscono al ministro dell'Interno non è tanto di ave dato una soluzione alla questione, quanto di averla posta in termini perentori e in una chiave, come lo stesso Salvini ha detto in un'intervista al Corriere della Sera, addirittura europeista se è vero che ha riconosciuto l'impossibilità per l'Italia da sola di risolvere il problema. È una mezza verità, perché quando in un negoziato si pensa di mettere il proprio interlocutore spalle al muro le possibilità sono due: o cede il tuo interlocutore, oppure salta il tavolo. Allora, è vero che l'Italia, come hanno ribadito i ministri Tria e Savona, non ha alcuna intenzione di uscire dall'euro, riconosciuto indispensabile, ma è anche vero che comportamenti come quello di Salvini sono destinati a portare scompiglio e a creare le condizioni materiali per raggiungere quel risultato che si proclama di non voler perseguire. Il rischio non sarà più l'Italia che lascia l'Europa, ma quello opposto.
     

impazientimasenzafretta: IL DIRITTO A NON EMIGRARE VIENE PRIMA DEL DIRITTO ...

impazientimasenzafretta: IL DIRITTO A NON EMIGRARE VIENE PRIMA DEL DIRITTO ...: di Massimo Colaiacomo          I n occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato, Papa Benedetto XVI inviò, il 12 ot...

IL DIRITTO A NON EMIGRARE VIENE PRIMA DEL DIRITTO A EMIGRARE (BENEDETTO XVI)

di Massimo Colaiacomo

   
     In occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato, Papa Benedetto XVI inviò, il 12 ottobre 2012, un messaggio in cui affrontava, alla luce della Costituzione conciliare, la questione, da qualche decennio cruciale nella nostra epoca, della libertà di emigrare che andava integrata, se non addirittura preceduta, dalla libertà di non emigrare. Ecco che cosa scriveva Benedetto XVI: bene sarebbe, nell'infuocato dibattito politico di queste ore, non strumentalizzare le sue parole:

"Certo, ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana. Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti. Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria. Così, mentre vi sono migranti che raggiungono una buona posizione e vivono dignitosamente, con giusta integrazione nell’ambiente d’accoglienza, ve ne sono molti che vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure che adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono".
     "A tale proposito, non possiamo dimenticare la questione dell’immigrazione irregolare, tema tanto più scottante nei casi in cui essa si configura come traffico e sfruttamento di persone, con maggior rischio per donne e bambini. Tali misfatti vanno decisamente condannati e puniti, mentre una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’inasprimento delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi, potrebbe almeno limitare per molti migranti i pericoli di cadere vittime dei citati traffici. Sono, infatti, quanto mai opportuni interventi organici e multilaterali per lo sviluppo dei Paesi di partenza, contromisure efficaci per debellare il traffico di persone, programmi organici dei flussi di ingresso legale, maggiore disponibilità a considerare i singoli casi che richiedono interventi di protezione umanitaria oltre che di asilo politico. Alle adeguate normative deve essere associata una paziente e costante opera di formazione della mentalità e delle coscienze. In tutto ciò è importante rafforzare e sviluppare i rapporti di intesa e di cooperazione tra realtà ecclesiali e istituzionali che sono a servizio dello sviluppo integrale della persona umana. Nella visione cristiana, l’impegno sociale e umanitario trae forza dalla fedeltà al Vangelo, con la consapevolezza che «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (Gaudium et spes, 41).

sabato 24 marzo 2018

LA LEGISLATURA SOTTO IL SEGNO DI LEGA E CINQUESTELLE

Ma è presto per dire se è nato un nuovo bipolarismo. È certo invece che è calato il sipario sull'epoca che ha avuto in Berlusconi il suo simbolo


di Massimo Colaiacomo


La XVIII legislatura parte nel segno della Lega di Matteo Salvini e del Movimento Cinquestelle di Beppe Grillo. Sulla pagina degli sconfitti sono scritti diversi nomi, ma quello di Silvio Berlusconi campeggia su tutti. Il teatrino sulla candidatura d Paolo Romani, prima avanzata e poi ritirata, alla presidenza del Senato non è abbastanza per nascondere il brutale diktat al quale si è dovuto piegare quello che è stato per un quarto di secolo il padre-padrone del centrodestra. È vero, il M5s aveva candidato Fraccaro e poi ha dovuto fare marcia indietro per puntare su Fico, con ciò dando soddisfazione al centrodestra che non poteva limitarsi a subire il diktat su Romani senza metterne a sua volta sulla candidatura grillina alla Camera. Ma sempre di un teatrino si è trattato, uno spettacolo quasi penoso allestito al solo scopo di ammansire il vecchio leone Berlusconi impedito dalla realtà dei numeri parlamentari  a cacciare i suoi ruggiti.
Sono Salvini e Di Maio i due kingmaker nella costruzione degli equilibri istituzionali, perché così hanno deciso gli elettori. E saranno ancora loro, con qualche cautela, a delimitare la futura maggioranza di governo. C'è del vero, nel comunicato congiunto diffuso dopo il vertice del centrodestra, quando si afferma che gli accordi per le presidenze del Parlamento non devono essere considerati prodromici per la nascita della maggioranza di governo. Non saranno prodromici, ma hanno pur sempre la forza riconosciuta a ogni precedente. Che cosa, infatti, potrà impedire di replicare una tale maggioranza se l'arbitro del Quirinale non dovesse disporre di altre carte? È vero che per affidare l'incarico di governo Mattarella dovrà fare valutazioni molto più approfondite di quelle necessarie per la scelta dei vertici parlamentari. La compatibilità dei programmi delle forzse politiche con gli impegni europei e di politica estera e di difesa sui quali è stata costruita l'identita dell'Italia nel corso di questi decenni. Mattarella vorrà inoltre verificare il grado di compatibilità dei programmi esposti dalle diverse forze politiche in campagna elettorale per capire quanta parte di essi era per la vetrina della propaganda e quanta parte potrà entrare nei programmi di governo e con quali conseguenze sugli equilibri di finanza pubblica.
Non si spingerà mai oltre il confine dei suoi doveri istituzionali, ma le consultazioni che si apriranno al Quirinale dopo Pasqua ritagliano per Mattarella un ruolo di "maieuta" per la nascita del governo perché mai come in questa circostanza la neutralità politica del presidente della Repubblica non potrà essere confusa con la indifferenza per quello che i partiti metteranno nero su bianco per il governo dell'Italia. Se davvero Salvini insisterà per cancellare la legge Fornero, come ha sempre sostenuto, come può il presidente Mattarella sottrarsi al dovere di conoscere con quali misure precise il governo intende recuperare i circa 24 miliardi di spese aggiuntive che ne derivano? Se davvero i Cinquestelle intendono introdurre il reddito di cittadinanza o di nascita, può Mattarella lasciar correre senza prima conoscere da dove verranno le risorse per una tale impresa?

La coalizione di centrodestra esce ammaccata dalla vicenda delle presidenze delle Camere, ma ancora formalmente in piedi. Ben maggiori rischi correrà la coalizione quando si passerà alle trattative per la formazione del governo. Berlusconi non ha più la chiave di quell'alleanza ttrasformata, molto per i suoi errori e molto per la spavalderia di Salvini, in una prigione al cui interno Forza Italia è diventato un socio ancora importante nei numeri ma irrilevante come peso politico. Berlusconi ha voluto tenersi stretta la Lega di Salvini seguendolo sempre in tutti gli strappi consumati sulla via dell'estremismo: dall'abolizione della Fornero, all'espulsione degli immigrati all'abolizione del jobs act. Oggi raccoglie i frutti di un abbaglio strategico che ha tentato disperatamente di correggere in corso d'opera con una giravolta europeista e con la candidatura di Tajani a palazzo Chigi. Due "pezze" messe lì alla buona, senza alcuna credibilità perché il danno era stato fatto e i cocci sono tutti di Berlusconi e di Forza Italia. 

martedì 6 marzo 2018

IL POPULISMO SCUOTE L'EUROPA, MA SOLO IN ITALIA GOVERNA


di Massimo Colaiacomo

     La lunga stagione della delegittamazione della politica ha avuto il suo culmine con il voto del 4 marzo. Gli elettori hanno fatto calare il sipario su Matteo Renzi e Silvio Berlusconi e hanno messo sugli altari il movimento Cinquestelle e il leader della Lega Nord, Matteo Salvini. Giudizio più netto non poteva venire dalle urne anche se lo scenario disegnato dal voto si annuncia denso di incognite complicate per risolvere le quali non sarà sufficiente la tenacia e l'abilità che tutti riconoscono al presidente Mattarella. Senza un supplemento di responsabilità da parte dei vincitori il quadro politico è destinato ad aggrovigliarsi e nuove elezioni sarebbero inevitabili, con conseguenze al momento non facili da immaginare. Preso atto del verdetto elettorale, i partiti sono attesi a una seria riflessione sulle ragioni che hanno sconvolto la rappresentanza politica in Parlamento come non è accaduto in nessun altro Paese europeo, con l'eccezione dei Paesi ex comunisti (Ungheria, Polonia, Slovacchia) in cui però le forze politiche tradizionali resistono e hanno una rappresentanza importante in Parlamento.
     Giusto allora chiedersi perché le forze populiste, presenti in Germania non meno che in Francia, Spagna e Gran Bretagna, soltanto in Italia sono cresciute al punto da diventare forze di governo. Perché il Paese con l'opinione pubblica più europeista, almeno fino alla firma del Trattato di Maastricht, è scivolato via via fino a tramutare l'entusiasmo in rifiuto dell'Europa? Salvini e Grillo non vengono dal nulla o da un altro pianeta. Le loro idee e i loro giudizi hanno trovato terreno fertile in un'opinione pubblica alla quale per decenni è stato spiegato che la causa dei nostri problemi stava nelle regole europee, nel rigore di bilancio tedesco imposto agli altri partner. Hanno predicato così Silvio Berlusconi e lo stesso Matteo Renzi, prima di una strumentale riconversione in chiave europeista in campagna elettorale.
     I partiti hanno seminato vento e il 4 marzo hanno raccolto tempesta. È dal lontano 1992, con l'esplosione di Tangentopoli, che la politica è stata messa in mora. È da un quarto di secolo che agli elettori viene chiesto di votare contro qualcuno o contro qualcosa dietro la promessa di regalare quello che il Paese non ha. È vero che il populista Salvini, fiero di esserlo, ha smorzato il suo antieuropeismo una volta intravista la soglia di palazzo Chigi. I Cinquestelle sono pronti a violare il limite del 3%  nel rapporto deficit-Pil, ma sono anche disponibili a rinunciare al referendum sull'euro. Si tratta in ogni caso di impegni molto vaghi, come vaghe sono state finora le minacce. Così la "promessa" di rimpatriare 600 mila clandestini, che nessun governo, foss'anche sorretto da una maggioranza straordinaria, può essere in grado di mantenere.
     Dar vita a un esecutivo che abbia un certo orizzonte temporale diventa, leggendo i numeri del voto, un'impresa titanica, al di là di ogni ragionevolezza. Il presidente Mattarella non può aver apprezzato i paletti messi da un Renzi "candidato alle dimissioni" da segretario. Il rifiuto a qualsiasi alleanza con le forze populiste ed estremiste è soltanto la manifestazione di un orgoglio politico fuori misura per chi ha guidato il partito a una rotta elettorale e politica superiore a quella della SPD di Schultz. Un governo ci sarà e non sarà, come immaginano Di Maio e Salvini, un governo coeso e "anti-inciucio". Uno dei più brutti neologismi coniati dalla politica recente è destinato a nuova vita proprio con la nascita di un esecutivo che avrà, per necessità, il sostegno di forze esterne al M5S o alla coalizione di centrodestra. E il PD, pur nella sconfitta, sarà ancora decisivo con i suoi parlamentari. Da qui a immaginare l'Italia laboratorio di una nuova dimensione della politica e della rappresentanza parlamentare ne corre abbastanza. Tutt'al più l'Italia può essere il laboratorio di quello che può accadere in una grande democrazia quando la politica smarrisce il filo e il proprio ubi consistam. L'ultimo, e il più fatale errore è pensare che la nascita di un esecutivo purchessia consenta di archiviare quello che è accaduto il 4 marzo.

sabato 24 febbraio 2018

UN VOTO PER PIÙ EUROPA (E MENO BONINO E MENO SOROS)


di Massimo Colaiacomo

Si può avere più Europa senza Emma Bonino e "meno" George Soros? La domanda è deliberatamente provocatoria perché provocatori sono certi accostamenti fatti in queste settimane e riconducibili a esponenti politici, non solo italiani, sia di sinistra che di destra sul presunto ruolo svolto dal finanziere ungaro-americano e sulle sue propaggini politiche nel determinare le posizioni dell'Unione europea su questioni controverse come l'immigrazione e le politiche di accoglienza. Attraverso la sua Open Society Foundation, Soros opera, dal 1991, nel campo della charity e ha profuso energie (e soldi) in quantità straordinarie. A cpminciare dal suo paese natale, l'Ungheria, da lui aiutato senza risparmio nella complicata fase di transizione dal comunismo a un'economia di mercato.
Per Soros, come per ogni finanziere che si rispetti e desideri rendere sempre più floridi i propri affari, la speculazione finanziaria è uno strumento prezioso grazie al quale accrescere il patrimonio delle proprie società e suo personale. Che cosa poi spinga un uomo ricchissimo a volgere la propria attenzione alla beneficenza, a soccorrere i poveri, magari dopo averne creati con il proprio lavoro, rimane uno dei misteri più affascinanti in cui si trascina l'umanità. E in questo mistero Soros può dire di specchiarsi come pochi altri. Speculare, sia chiaro, non è un reato, e soltanto la letteratura politica un po' becera di questo tempo può vedere nello speculatore un affamatore di popoli. La speculazione non è la febbre, come si dice, ma è soltanto il termometro che misura la febbre provocata dagli errori e dalle inadempienze della politica. Il finanziere abile, senz'essere necessariamente vorace o cattivo, con la sua azione segnala gli abbagli e le presunzioni della politica. Accadde così con la speculazione di contro la sterlina, all'inizio degli anni '90, circostanza dalla quale, si racconta, Soros trasse un profitto stimato in circa 1 miliardo di sterline.
Sorprende non poco, però, vedere questo anziano signore buttarsi a capofitto sulla questione dell'immigrazione e sulle politiche in materia dell'Unione europea. Tanto ardore ha già fruttato uno scontro aperto e durissimo fra Soros e il governo del suo Paese natale essendo l'Ungheria di Viktor Orban, al pari della Polonia, contrarissima alla ripartizione delle quote di immigrati. Con la conseguenza che il governo ungherese ha deciso di chiudere l'Università privata costeruita da Soros a Budapest. Più sotterraneo, ma non meno incisivo, è il lavoro ai fianchi dell'Unione europea. A Soros si attribuiscono rapporti di amicizia, eufemismo per non parlare di finanziamenti, con una quota rilevante degli europarlamentari soprattutto tra le file della sinistra, per sostenere la causa dell'immigrazione. Qualcuno potrebbe chiedere al finanziere perché mai la sua fondazione non impieghi massicce risorse per lo sviluppo dei territori di provenienza dell'immigrazione. Oppure, perché mai si preoccupa di legare il rilancio dell'Unione europea alla capacità dei suoi Paesi membri di assorbire quote crescenti di immigrazione. 
Tanto fervore ha destato e desta più di un sospetto sulle reali finalità di questo lavoro di lobbying. Soros è anche impegnato a sostenere i gruppi anti-Brexit in Gran Bretagna, così pure finanzia i gruppi politici ostili a Orban o al governo polacco. La sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che va oltre l'attività della charity è molto forte perché alcune di queste attività, come anche il finanziamento dei gruppi anti-russi in Ucraina, nulla hanno a che vedere con la soccorevolezza verso gli ultimi e molto, invece, hanno a che fare con le strategie politiche nazionali o dell'Unione europea. Si tratta, insomma, di una robusta capacità di condizionamento delle scelte politiche, compito reso più agevole a Soros dalle divisioni nazionali. Lui, in passato ostile all'Unione europea, oggi è, al contrario, un suo fervente sostenitore ma secondo una logica che monopolizza il tema dell'immigrazione fino al punto di vedervi il motore unico ed esclusivo di ogni ripresa del processo di integrazione.
Domanda che si pone l'elettore che domenica 4 marzo si reca alle urne: come posso votare per i partiti europeisti senza che il mio voto venga assimilato a un sostegno a Soros? Domanda che si pone l'elettore indeciso: se non vado a votare, chi ne trae maggiore beneficio, gli antieuropeisti? La risposta alla prima domanda è semplice: andare a votare e non votare la lista Più Europa di Emma Bonino. La risposta alla seconda è banale: gli antieuropeisti sono i beneficiari del non voto o della scheda nulla e beffarda.

  

venerdì 16 febbraio 2018

DOPO IL 4 MARZO TUTTE LE VIE PORTANO AL QUIRINALE



di Massimo Colaiacomo


     Mai più governi di Große Koalition con Angela Merkel. L'ineffabile Martin Schulz lo ripeté per tutta l'estate del 2017, fino all'ultimo giorno di campagna elettorale. Si sa, poi, come è finita, o sta per finire, la vicenda tedesca. La Große Koalition si conferma l'unica soluzione possibile per la Germania. Quale lezione la politica italiana può ricavare dalla vicenda tedesca? Una, molto semplice: non esiste forza politica, a meno che non sia mossa da istinto suicida, che affronti una campagna elettorale dicendo che all'indomani del voto si alleerà con il suo principale avversario.
     È una lezione semplice, si può dire un precetto elementare di sopravvivenza per ogni partito di qualche peso elettorale. Non si spiega altrimenti la diffidenza di Salvini e Meloni verso Berlusconi, sospettato da sempre di prepararsi a un nuovo Nazareno. Sospetti non diversi nutrono le formazioni alla sinistra del PD sulle vere intenzioni di Renzi-Gentiloni. Sulla grande cappa di ipocrisia, o di pretattica elettorale, ha lanciato ieri un sasso il ministro dell'Interno, Marco Minniti, per dirsi pronto a  un governo di unità nazionale se tutto il PD dovesse accettare la formula.
     A spingere verso quello che sembra l'esito più scontato è la forza delle cose. Gli ultimi sondaggi non hanno registrato mutamenti apprezzabili nelle percentuali di consenso dei singoli partiti. Soprattutto, hanno confermato un dato incontrovertibile: il 5 marzo l'Italia si sveglierà senza una maggioranza chiara, ma con il governo Gentiloni pienamente in carica e non solo per il disbrigo degli affari correnti (Gentiloni non si è mai dimesso). Il governo "siede" in Parlamento, amava ricordare il grande costituzionalista Costantino Mortati, e l'esecutivo Gentiloni siede in un Parlamento senza una maggioranza e più frantumato di quello appena sciolto.
     Il ritorno al sistema proporzionale imboccato con il Rosatellum ha restituito una forte centralità al Quirinale. Dal 1994 in avanti, il Capo dello Stato era tornato, almeno nella formazione dei governi, nel suo ruolo di notaio e ratificatore della volontà elettorale che si esprimeva, con il sistema maggioritario, dando vita a maggioranze più o meno solide, ora di centrodestra ora di centrosinistra. L'arrivo dei Cinquestelle ha mandato in frantumi la fragile alternanza propiziata dal Mattarellum e la risposta del Parlamento, con l'approvazione del Rosatellum, è stato il tentativo estremo di arginare l'avanzata di Grillo. 
     Che cosa accadrà dopo il 4 marzo? Al netto delle profezie, è più semplice rispondere, appoggiandosi al buon senso, alla domanda su che cosa NON ACCADRÀ il 5 marzo. Ecco: dalle urne non uscirà una maggioranza. Il Capo dello Stato sarà arbitro scrupoloso rispetto ai giochi delle forze politiche ma dovrà assolvere all'imperativo categorico di assicurare un governo al Paese. La saggezza e l'equilibrio di Sergio Mattarella saranno messi a dura prova dalle richieste presumibili, insistenti e insistite, di nuove elezioni. Fortuna per l'Italia, Mattarella è un osso duro e prima di lanciare il Paese in una nuova ravvicinata competizione elettorale tenterà tutte le strade capaci di dare un governo stabile con una larga maggioranza.
     Come potrà vedere la luce una "grande coalizione" se PD e Forza Italia non avranno i numeri in Parlamento? Sono tante le variabili che entrano in gioco. Ad esempio: la Lega sarà tutta compatta nel "no" all'accordo con il PD oppure Roberto Maroni, non più candidato alla presidenza della Lombardia, farà sentire il suo peso? E Massimo D'Alema a chi si è rivolto qualche settimana fa quando ha ipotizzato la nascita di un governo del presidente? Maroni e D'Alema sono le due personalità da tener d'occhio, dopo il voto, più di tanti altri. Mattarella non potrà che assolvere al suo compito di "facilitatore" nella nascita di un governo.


     


martedì 6 febbraio 2018

NEI FATTI DI MACERATA L'8 SETTEMBRE DELLA POLITICA


di Massimo Colaiacomo

     Se qualcuno cerca un'immagine rappresentativa del fallimento della politica in questo tempo, i fatti di Macerata sono una sintesi drammaticamente perfetta. Un Paese ferocemente diviso fra le "anime belle", sempre pronte a inarcare il sopracciglio contro la barbarie della realtà, e i razzisti à la carte pronti a farsi giustizia contro gli immigrati brutti, sporchi e cattivi. In mezzo a queste due tifoserie belluine, sta il vuoto pneumatico dello Stato, l'evanescenza dei suoi rappresentanti e la solitudine di chi dovrebbe rappresentarlo sul territorio.
     Ogni volta che qualcuno prova ad alzare il velo sul fenomeno dell'immigrazione si espone a un fuoco di fila senza scampo: gli immigrati sono una "risorsa", vanno accolti e integrati e avere un'idea diversa significa essere almeno razzisti. Se , invece, quella stessa persona si azzarda a ipotizzare che il flusso incontrollato di immigrati mette a repentaglio gli equilibri sociali e aumenta il senso di insicurezza dei cittadini, ecco che scatta il coro delle contumelie contro il ritorno del razzismo, del fascismo alle porte e della fine della democrazia. La quale, per la verità, quando finisce, come la storia insegna, è in genere per la propria impotenza a prendere decisioni, anche gravi, ma comunque tali da salvaguardare la coesione sociale. Ecco: tutti fervorini sulla coesione sociale, compreso quello di uno stimatissimo presidente della Repubblica quale è Sergio Mattarella, finiscono per essere pannicelli caldi sull'emotività del momento ma rimangono privi di ogni spunto operativo per il legislatore e per chiunque abbia titolo di intervenire sul fenomeno dell'immigrazione.
     Negare, come si ostinano a fare da sinistra, che nessuno abbia le mani sul volante per quanto riguarda il controllo del fenomeno non è il modo migliore per cercare delle risposte. È lecito, per esempio, interrogarsi sulle motivazioni che spingono migliaia di persone a lasciare Paesi con tassi di crescita tre o quattro volte superiori al nostro per raggiungere le sponde italiane e andare incontro a condizioni di sfruttamento quando non di vera e propria schiavitù, e maturare sentimenti di rancore e di odio per il Paese che li accoglie?
     Dalla politica non sono venute risposte minimamente credibili. Si è pensato di risolvere il tutto con la legge Bossi-Fini e con la pretesa di costruire flussi di immigrazione sulla base delle esigenze delle imprese, come se fosse possibile controllare il fenomeno. Non è stato, né poteva essere così. I fenomeni di criminalità legata all'immigrazione si sono concentrati negli anni soprattutto nei piccoli centri, cioè nelle aree dove più flebile è la presenza dell'autorità dello Stato. E sono quelle specie criminose che più di altre suscitano allarme sociale: rapine in ville o in casa di anziani, con gli ospiti brutalmente pestati a sangue. Due anni fa, a Casal di Principe, una guerra fra una banda di nigeriani e criminali del luogo per il controllo del mercato della droga provocò diversi morti, il tutto forse nell'indifferenza, ma sicuramente nel terrore della popolazione.
     Si spiega così perché le reazioni più truci all'immigrazione vengano proprio dall'Italia profonda, cioè dai territori dove la solitudine e il senso di abbandono da parte dello Stato è vissuto come una sconfitta quotidiana dai cittadini. I fatti di Macerata sono in qualche misura l'8 settembre della politica. Il mantello retorico con cui i suoi esponenti si avvolgono per soffiare sul fuoco di quei fatti e appiccare altri e più vasti incendi, è pericoloso almeno quanto gli sforzi di chi, infilando la testa sotto la sabbia, minimizza la questione e punta l'indice contro il risorgente razzismo degli italiani e dell'altra parte politica. Se il timore, più che giustificato, è che quello di Macerata è soltanto un episodio di una catena destinata ad allungarsi, non resta che sperare in una rapida conclusione della campagna elettorale perché le forze politiche tornino a misurarsi con la dimensione concreta e reale  della questione. 

giovedì 18 gennaio 2018

BERLUSCONI E D'ALEMA SUONANO IL RICHIAMO ALLA REALTÀ


di Massimo Colaiacomo


     Quanto è incolmabile la distanza fra un governo del presidente e un esecutivo che abbia come ministro dell'Economia un tecnico sperimentato e conosciuto oltre i confini domestici? Sulla carta, non dovrebbe esistere una distanza siderale. Nella realtà le due cose possono convivere a tal punto che non si dà un governo del presidente senza un "tecnico" a guidare l'Economia. Intervistato dal Corriere della Sera, Massimo D'Alema prova a lanciare lo sguardo oltre il 4 marzo. Al momento, per nulla temuto, in cui si tireranno le somme e dalle urne sarà uscito il risultato che in molti auspicano, cioè l'assenza di una maggioranza parlamentare. Quello che D'Alema dice nell'intervista, è meno, molto meno di quello che un lettore un minimo smaliziato è portato per mano a intuire: se la somma dei seggi conquistati da PD e FI non potrà assicurare una maggioranza, Liberi e Uguali (piaccia o non piaccia a Grasso) è lì, dietro l'angolo, pronto a spendere il suo gruzzolo di consensi (secondo i sondaggi intorno al 6-7%) per dare un governo all'Italia.
     Le valutazioni di D'Alema sulle prospettive politiche sono diverse, ma non in contrasto con quelle di Berlusconi. Il quale, come è naturale in campagna elettorale, continua a ripetere che il centrodestra avrà i voti per fare il governo anche se, in cuor suo, sa che difficilmente le urne potranno trasformare quel desiderio in realtà. Altrimenti, perché mai Berlusconi avrebbe messo le mani avanti indicando in un "tecnico" il futuro ministro dell'Economia? Vent'anni dopo non è solo il titolo del romanzo di Alessandro Dumas, è anche, più prosaicamente, il copione della politica italiana che vede D'Alema e Berlusconi impegnati, in ruoli diversi, a costruire un percorso politico per il dopo elezioni per evitare lo stallo e la conseguente ingovernabilità.
     Perché è credibile l'analisi di D'Alema e perché Berlusconi si prepara a farla propria? Nell'intervista al Corriere D'Alema rimprovera a Renzi di essere in qualche modo il ventriloquo di  Berlusconi e di indicare l'unico vero avversario soltanto nel M5s e non già nel centrodestra. E fin qui la tattica elettorale spiega tutto: farsi strada nell'elettorato grillino è la speranza che anima i fuorusciti del PD e i compagni trovati per strada e niente è più funzionale questo obiettivo che mettere il PD e il suo segretario nel mirino della polemica. Sull'altro versante, Berlusconi, con il supporto decisivo di Tajani, non esita a difendere il ruolo di Forze Italia "argine" contro ogni populismo che per ovvie ragioni circoscrive al M5s pur sapendo che un pezzo di quel mondo è suo alleato.
     Moscovici, con una ruvidezza inappropriata per un politico, ha fatto un inutile entrata in tackle nella campagna elettorale essendo già chiaro lo schema di gioco dei principali protagonisti. Però, al netto dello sgarbo istituzionale, le parole di Moscovici hanno avuto una loro funzionalità perché individuato il perimetro dell'europeismo, hanno dato una temporanea boccata d'ossigeno a un PD che tutti i sondaggi vedono in caduta libera. Sic rebus stantibus e in attesa dell'unico, vero sondaggio che conta in democrazia, cioè le schede scrutinate, D'Alema e Berlusconi si sono portati avanti con il lavoro e se da qui al voto il mood elettorale non cambierà più di tanto, saranno loro a distribuire le carte mentre la presenza di Renzi al tavolo da gioco sarà diventata a quel punto irrilevante. E nulla esclude, come beffa finale, che il segretario del PD si ritrovi Paolo Gentiloni a palazzo Chigi, questa volta battezzato "governo del presidente".